BABES IN TOYLAND – Fontanelle (Reprise)

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La ferocia delle Babes in Toyland, già messa in mostra col disco di debutto, diventa su Fontanelle la più credibile e rampante alternativa foxcore all’imperante grunge di Seattle, in virtù di un suono chitarristico manovrato da Lee Renaldo e che finalmente emerge dalla “sgraziata” musica del terzetto con un’irruenza che, abbinata all’approccio tribale di Lori Barbero alla batteria, va a costituire un immane e impattante muro del suono. Roba che i tipi della Reprise che se ne sono assicurati i servigi visto il clamore underground suscitato dai loro concerti e da Spanking Machine, devono aver ascoltato imbottendosi le orecchie col cotone e coprendole poi con garza sterile una volta trascorsi i trentasette minuti d’ascolto, tagliati in due da Quiet Room che è il Noè che separa le acque. Che sono, anche se scosse da movimenti tellurici, quelle del blues. Reso irriconoscibile, sfregiato e depauperato da ogni sentimento di rassegnazione per assumere le dimensioni e la sagoma sfigurata di un mostro di fango e fiele, vestito con una maglia d’acciaio.

Le Babes in Toyland non ci portano, e potrebbero, ritornelli da cantare.

Ci vomitano addosso il disgusto che hanno inghiottito in una serie di sabba come Jungle TrainBluebellMagick FluteWon’t TellSpunRealeyesBruise Violet e la fenomenale Gone: un’unghiata di chitarra che satura la rage room un attimo prima che si spengano le luci e la rabbia momentaneamente placata ci permetta di riposare sul tappeto di cocci che per un attimo ci ha saziato la sete come gocce d’acqua.           

                                                                            Franco “Lys” Dimauro

PAOLO CONTE – 900 (CGD)

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Spazzole, sordine, marimba e un kazoo impertinente. 

E poi ancora bolero, jazz, tango, charleston, romanza, arie da musical, da big band e da café-chantant.

Il Novecento che si agita come un capitone sotto i piedi e le dita di Paolo Conte è quello di inizio secolo, quello dei corteggiamenti infiniti, delle carrozze che schizzano acqua sui marciapiedi, dei velocipedi e delle strade in macadàm, dei prestigiatori itineranti, dei viaggi transoceanici, delle estati tropicali sognate dagli attici che invece si affacciano sui fiumi grigi di Milano, delle bibite ai frutti esotici sempre troppo dolci, sempre maldestramente frizzanti, delle piume di struzzo, delle ghette, dei bastoni dai pomelli d’osso e delle brillantine prodigiose.

Quando le dita di Paolo Conte picchiano sui tasti un intero transatlantico prende il largo. E noi salpiamo con lui. E stavolta la partenza è davvero trionfale: un valzer dove sembra davvero che tutto il Novecento si sia dato appuntamento per naufragare nei ricordi, con i fiati a sottolineare ogni inversione di rotta di quel volteggiare di passi lievi e nostalgici. E poi Il treno va, che è tutto un tintinnio di calici e bicchieri, un aperitivo di preludio al gran galà di Una di queste notti.
E poi tutto un girotondo di intrecci di vita che si incastrano, si incagliano, si dipanano, si scontrano e si disperdono a bordo: La donna della tua vita, Gong-Oh, Schiava del politeama, Pesce veloce del Baltico, Chiamami adesso.

Vite messe a nudo come molluschi sui banchi del pescivendolo, tenuti freschi con il ghiaccio ormai orfano del prosecco che lo teneva a galla. Pronte ad affondare anch’esse.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

THE MONSTERS – The Hunch (Record Junkie) 

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Dilapidate tutte le finanze per registrare un disco più professionale del debutto, i Monsters sono costretti a lasciare lo studio di registrazione prima di aver completato il lavoro e obbligati a completare The Hunch con alcuni estratti di un concerto all’ISC di Berna con un nuovo batterista dietro i tamburi.

Il deragliante treno psychobilly dei Monsters sembra inarrestabile, sbuffando di fumi garage rock e di combustibili rock ‘n’ roll che rimandano ai Cramps, ai Mɘtɘors e ai Polecats e annerendo di fuliggine tutta la Svizzera.

I riferimenti agli inferi e ai mostri da fumetto e letteratura di serie B si sprecano (The Creature from the Black Lagoon, Honeymoon at Hell, The Hunch, Teenage Werewolf, Wicked Wanda, Day of the Triffids, I Came from Hell) e fanno da immaginario consono alla causa abbracciata dal terzetto di Berna, trasformata per una volta in una Transilvania alpina.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE VASELINES – The Way of The Vaselines: A Complete History (Sub Pop)

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Nel 1992 ogni sasso di Seattle sa chi sono i Vaselines. Perché accade che la Geffen, proprio ad inizio anno, pubblica un EP dei Nirvana con dentro due brani che nessuno da quelle parti ha mai sentito prima. Gli autori sono una minuscola band scozzese degli anni Ottanta autrice di un paio di singoli e un album uscito già postumo, quando il totale disinteresse verso il gruppo ne aveva già decretato la fine. Per saziare la fame di curiosità scatenata da Hormoaning la Sub Pop pubblica prontamente una retrospettiva sui Vaselines: un’opera omnia che sta tutta dentro un disco, talmente poco aveva prodotto la band di Edimburgo. Con quel poco, dopo l’effetto-Nirvana (che li celebreranno ancora, sull’unplugged registrato per MTV), si assicureranno una pensione dignitosa. Da quel momento Kurt diventa lo “zio d’America”. Anche per loro.

Se il materiale scelto dai Nirvana era l’indie-folk sartoriale che in larga parte occupava i dischetti a piccolo formato, le canzoni registrate per Dum-Dum sono invece rivestite da una crosta di sporcizia che, paradossalmente, è accostabilissima proprio ai Nirvana del primo album, uscito la stessa settimana. I Vaselines, adesso anche visivamente vicini all’iconografia da rock-band, sembrano aver messo su gli aculei, come a proteggersi dai pericoli cui la loro musica iniziale sembrava esposta e il risultato è un’ispida divagazione sul folk e sul rumore, di molto superiore ad esempio di quella degli osannati Throwing Muses che altrove raccolgono più di quello che avrebbero meritato. Ma non basterà. Non (all)ora. Non qui.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LOVE BATTERY – Dayglo (Sub Pop)

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Dayglo è la sublimazione del grunge liquido dei Love Battery, ideale prosecuzione del vitriolage già perpetrato sulla psichedelia aggredita dei sixties da parte degli Screaming Trees. Le chitarre sono immerse in quella terra elettrica abitata da Neil Young ma suonate con un’approssimazione da garage-band che lo rende ancora più sfasato, stranito e malsano, finendo per suonare in Cool School (Trane of Thought) come i Sonic Youth coevi di Goo e diRty.

Le limitate abilità tecniche complessive vengono “mascherate” da un assordante volume degli strumenti che ne accentua l’effetto straniante ma i pezzi non hanno in realtà alcun valore intrinseco (basti ascoltare quella sorta di nastro smagnetizzato di Helios Creed di Blonde o il rumore gratuito della title-track con cui cercano di assaltare la fortezza dell’acid-rock con rottami inadeguati all’impresa).

I Love Battery, animati dalle migliori intenzioni, non sembrano adeguati all’impresa. La batteria scarica a terra.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BEAT HAPPENING – You Turn Me On (K/Sub Pop)

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Nel 1992, proprio mentre i Pavement diventano epitome di tutto l’indie-rock americano con il loro Slanted and Enchanted proprio elaborando le intuizioni dei Beat Happening, questi ultimi danno alle stampe il loro capolavoro definitivo e l’atto conclusivo della loro carriera, restando una mina inesplosa nonostante il fanatismo che li circonda proprio nel circuito dell’alternative-rock (da Kurt Cobain a Jon Spencer, dagli Yo La Tengo ai Teenage Fanclub, dalle Sleater Kinney agli Screaming Trees, dai Sonic Youth ai Pavement, come già detto) e l’ingaggio da parte della Sub Pop.

You Turn Me On è, rispetto ai dischi precedenti, un album ambizioso. Spingendo la durata delle canzoni ben oltre la soglia dei tre minuti cui ci avevano abituati, Calvin Johnson e soci evitano di “inquinare” la purezza del loro prodotto ma tentano di tirarne fuori quelle essenze velvettiane che nella dimensione “smart” stentavano ad essere percepite e che nei dieci minuti di Godsend raggiungono il loro apice. Dall’altro lato la band ha introiettato la forma-canzone, creando da quella massa informe di argilla degli esordi cose come Pinebox Derby, You Turn Me On, Sleepy Head e soprattutto la bellissima Teenage Caveman. Ma lo stile disadorno tipico del gruppo non viene delegittimato, nonostante si faccia ricorso per la prima volta a una registrazione multi-traccia che la fa apparire meno scheletrica, proprio adesso che sono pronti ad essere tumulati.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GIRLS AGAINST BOYS – Tropic of Scorpio (Adult Swim)

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A rendere intellegibile la musica dei Pere Ubu per gli anni Novanta ci pensarono i Girls Against Boys, fautori di un suono feroce ed erotico allo stesso tempo, modulato più sulle tastiere ferrose di Eli Janney e sul basso impetuoso di Johnny Temple che sulla chitarra di Scott McCloud, elaborando un noise-rock concettuale ed elegante per nulla sottomesso alla volontà di potenza nicciana espressa dalle band noise contemporanee, capace di denudarsi in brevi siparietti proto-jazz improvvisati dentro la carcassa di uno scheletro di architettura industriale.

Sono tentazioni mascherate che la band abbandonerà nei dischi cruciali della metà degli anni Novanta per elaborare invece l’art-rock metallico di pezzi come Wow Wow Wow, Matching Wits with Flaming Frank, Wasting Away e di Plush in cui la violenza industrial si trasforma in un suono intestinale, enterico, gastrico che deve essere simile a quello delle condutture di Černóbyl nella notte del 26 aprile dell’86. Un rumore di gas che si preparano all’esplosione, di molecole impazzite, di gorgogli inquietanti, di ebollizioni fuori controllo.  

 

                                                                              Franco “Lys” Dimauro

UNION CARBIDE PRODUCTIONS – ‘Swing’ (Radium 226.05)

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Fra le tante rimacinature stoogesiane, quella degli Union Carbide Productions resta fra le migliori, pure quando comincia a diventare incartapecorita, come su ‘Swing’, che però sana quelle crepe che apparivano vistose From Influence to Ignorance con grandi dosi, appunto di mastice Stooges. Pianoforte martellante, innesti di sax (e armonica a bocca) e un maelstrom chitarristico che ricorda, oltre a quello della band di Detroit, quello di gruppi come New Christs e Dark Carnival. Roba di cui la Svezia diventerà ben presto inflazionata da lì a poco ma che loro sono ancora fra i primi ad esportare.

TV Spiders si adagia invece su un riff sabbathiano, che lentamente tracima in una power-song borderline che piacerebbe ad Henry Rollins e anche se le idee non bastano a coprire i suoi dieci minuti di durata, servono di certo a stemperare l’atmosfera, a far defluire sangue e sudore dentro a un disco ottimamente prodotto da Steve Albini e che, non fosse per il tentativo di svendere quanto costruito con una copertina banalmente piegata alle esigenze comunicative dell’era grunge e del new-alternative, avrebbe meritato qualche applauso ancora più convinto. Da parte mia. Voi, applaudite pure a chi volete.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE GITS – Frenching the Bully (C/Z)

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Si chiamava Gesù, ma aveva la faccia come la merda.

Il suo nome completo era Jesus Mezquia e la notte del 7 luglio del 1993 violentò a morte Mia Zapata, la regina di Seattle, da dove era arrivata col suo gruppo quando le prime colonne del fumo grunge erano state avvistate fino in Ohio.  

Nessuno era brava come lei, da quelle parti. E il disco che avevano registrato, l’unico che Mia era riuscita a completare, è un monolite che ancora oggi mette soggezione. Robaccia tosta, quella dei Gits di Frenching the Bully. Con un muro di chitarre alto come quello di un carcere di sicurezza.

Figlio del punk.

Anzi, punk anch’esso.

Se vi passa sopra Spear and Magic Helmet, per dire, non riuscirete più ad alzarvi da terra. E magari quel treno fosse passato dalle parti di Pike Street quella sera, offrendo un posto sicuro a Mia o travolgendo quel Gesù dalla faccia di merda. Invece no. Perché i treni passano una volta sola, e spesso nel momento sbagliato.

Quello di Mia era passato prima, l’aveva portato dalla sua città ai margini dell’Impero fin nel posto “dove accadono le cose”. Anche quelle brutte. Anche quelle che un Gesù qualsiasi decide di lasciare che accadano.

Ora e sempre… Viva Mia! Viva Zapata!

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro