EVERYTHING BUT THE GIRL – Fuse (Buzzin’ Fly)

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Vuoi vedere che ci sono ancora delle idee? Seppellite lì in soffitta, lasciate ad arrugginire in cantina? Perché non andiamo a vedere?

E così Ben Watt e Tracey Thorn salgono e scendono scale, quasi un quarto di secolo dopo Temperamental, costringendoci a seguirli. Noi che abbiamo le stesse loro rughe, la stessa alopecia, la medesima voglia di sapere che non tutto è perduto, non tutto è nostalgia, non tutto è polvere e ricordo, che c’è ancora dell’olio nella giara, ancora acqua nella brocca, ancora una riserva di cibo buono in dispensa, ancora una scorta di ossigeno che ci potrebbe aiutare a salire quei gradini senza doverci fermare ad ogni rampa, quasi ad ogni passo.

Fuse riapre il volume degli EbtG esattamente da dove avevamo messo il segnalibro, con dieci brani di pioggia digitale a bagnarci la testa, con una Tracey Thorn impegnata a cantare con il suo consueto aplomb e Ben Watt a fare tutto il resto: programmazione, batteria elettronica, chitarre, sintetizzatori, piano e autore di ogni pezzo, condividendo con la compagna la scelta di arrangiamento. Ed è un diluvio bellissimo e rigenerante, di cui in qualche modo inconscio sentivamo il bisogno, “like the deserts miss the rain”. Fuse ci riporta lì dove eravamo rimasti bloccati, noi e loro, in quella stessa fermata del tram, con quello stesso titubante piagnucolio di chi ha perso il pullman ed è consapevole che forse era meglio non andare.

Che tanto le cose belle o quelle brutte prima o poi vengono a prenderti.

Basta non spostarsi.

Farsi riconoscere al gesto convenuto. Come aprire un ombrello, ad esempio.

E poi infilare i piedi nelle pozzanghere dubstep del nuovo disco degli EbtG.       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ALMAMEGRETTA – Cattivi guagliuni

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Il salto di qualità fra la demo d’esordio e il primo album degli Almamegretta è un salto in avanti prodigioso. È la definizione di uno stile che marchierà a fuoco la musica italiana del decennio e che darà alla formazione napoletana un’identità così pregnante da venir inseguita e corteggiata come una musa dai Re Mida della musica elettronica bastarda. Per l’album di debutto il ruolo è coperto da Ben Young, che all’ombra del Vesuvio ha già messo mano sui dischi dei Bisca.

Animamigrante riesce a sviscerare la “napoletanità” insita nella musica degli Almamegretta abbandonando l’idioma inglese e francese (e sacrificando gran parte di quello italiano) in favore del dialetto partenopeo, accentua l’enfasi cromatica della battuta in levare mutuata dal reggae e rende la musica della formazione declamatoria e insieme suadente, quasi una musica di battaglia con cui rivendicare le proprie radici. Esattamente come lo era per la musica giamaicana. Il timbro adesso arrochito a dovere del Raiss è una fantastica eco muezzin dalla cadenza ragga che guida la ciurma con maestria sulle onde di pezzi come Suddd, Fattallà, ‘o bbuono e ‘o malamente, Sanghe e anema o si lascia annegare anche lui dentro le spume dub, lasciandosi cullare dai movimenti morbidi di basso e batteria. O si zittisce, rispettoso, quando passano le voci degli ambulanti del Vomero o dei devoti cantori della Madonna dell’Arco.  

Gli Almamegretta approntano dunque il loro vascello tra le acque del porto di Napoli e salpano, veleggiando lungo il Mediterraneo e poi al largo tra le spume dei mari caraibici.

Si professano migranti sin dal nome e mantengono fede a quanto promesso.

Su in alto, a Pontida, qualcuno issa le sue vele verdi e prova a legittimarsi il Mar Adriatico.

 

Se la metamorfosi degli Almamegretta da ordinaria formazione funky/R ‘n B a gruppo meticcio era stata prodigiosa, non meno portentoso fu lo scarto tra Animamigrante e il successivo Sanacore 1.9.9.5. destinato a trasformare una formazione di nicchia in una delle più riconosciute realtà della world-music mondiale.

Un disco dal sapore fortissimo. Un couscous speziatissimo, incrocio perfetto tra le musiche in levare della tradizione giamaicana, le rarefatte profondità del dub, la malinconia appassionata e drammatica della musica melodica napoletana, gli odori mediterranei ed arabi che riempiono l’aria del golfo di Napoli.

L’intuizione iniziale, ovvero la compatibilità tra le musiche di estrazione caraibica e quelle della nostra tradizione popolare portata avanti dalle formazioni italiane dei primi anni Novanta (Sud Sound System, 99 Posse, Papa Ricky, Pantarei, Agricantus solo per citare le più famose), viene qui elevata ad un livello superiore di compenetrazione, di fusione per assimilazione ed assorbimento gastrico. 

È la creazione di un amalgama pastoso dove l’incastro tra elementi melodici partenopei e rotondità dub, tra strumenti tradizionali e gingilli elettronici, tra echi africani e dialetto napoletano raggiunge una perfezione estetica impossibile da superare.

E che difatti non verrà superata.

Un bolo di terra del Sud appiccicato al palato di Raiss, che proprio con questo album si impone come la migliore nuova voce della musica italiana.

È il suo inconfondibile timbro roco da muezzin del Vomero a dare ulteriore carattere a canzoni come Maje, Nun te scurda, ‘o sciore cchiù felice, Se stuta ‘o ffuoco, Pe dint’e viche addò nun trase ‘o mare e i due capolavori Ammore nemico e Scioscie viento, così come è la sapiente mano del Re Mida del dub Adrian Sherwood ad aggiungere profondità espressiva alle lentezze del campionatore fatato di D.RaD e del basso radicale di 4mx. Nomi da robot alieni per una delle musiche più terrene mai prodotte in Italia. Un enorme albero secolare piantato al centro del Mediterraneo capace di risucchiare con le sue radici il succo vitale dell’intero Pianeta Terra.

 

Il primo (se si esclude il mini Sanacore Reprises uscito pochissime settimane prima) e il migliore fra tutti i dischi dichiaratamente dub della band partenopea, Indubb radicalizza il suono di Sanacore infilandolo in un cunicolo interstiziale di elettronica pneumatica che scuce e ricuce gran parte del disco precedente con l’aggiunta di un vero, unico inedito di una bellezza profonda come le acque del Mediterraneo: ‘Nziria fotografa l’unico reperto in studio realizzato con Alex Casiglione, il chitarrista che dalla panchina è stato chiamato a sostituire Gianni Mantice per tutto il tour di Sanacore 1.9.9.5. ed è una densa colata lavica vulcanica nel più classico, profondo stile Almamegretta.

La band cammina come un enorme gigante di fango lasciando impronte sul fianco occidentale Vesuvio.  

Facile.

Fin troppo facile avanzare parallelismi tra il terzo lavoro ufficiale del gruppo partenopeo e i due dischi finora messi in cantiere dagli inglesi Massive Attack.

Come la musica della formazione di Bristol, quella degli Almamegretta si rivela permeabile ai nuovi suoni e alla nuova sensibilità elettronica rivendicandone radici profonde che affondano nell’humus tribale della terra d’Africa e, più in generale, del Sud del mondo.

Hip hop, ragga, trip hop, soul, drum ‘n bass, dub, techno e musica popolare convergono alla ricerca del definitivo suono etnico del terzo millennio.

E ancora come ama fare il gruppo inglese, Raiss e soci hanno aperto le porte della loro musica ad un numero ricchissimo di guest: si va da Pino Daniele a Dre Love (rapper dei Radical Stuff, la old-school del rap italiano), da Marcello Colasurdo a Nick Page dei Transglobal Underground, da Dave Watts dei Fun*Da*Mental a Bill Laswell ed Eraldo Bernocchi (che proprio assieme a Raiss realizzarono il fantastico Corpus che vi raccomando caldamente, NdLYS), tanto che in qualche episodio si rischia addirittura di smarrire la strada e confondere i ruoli ed ecco che i protagonisti, come per magia, sembrano diventare ospiti e viceversa.

In apparente antitesi con quanto affermato fino a poco tempo fa (non dimentichiamo che sono stati loro i profeti e gli alfieri della “battuta lenta” in Italia) i nostri stavolta pigiano il pedale sul ritmo.

A volte anche parecchio.

Succede in almeno in un paio di episodi di Lingo, a mio parere i meno riusciti.

Il dub resta solo a livello emozionale, mentre sono invece i suoni cibernetici più attuali a fare da filigrana alla voce sempre eccezionale del Raiz.

Se avete amato il Karmacoma E.P. e le Sanacore Reprises di qualche tempo prima, fatevi sotto senza timore alcuno. Altrimenti lasciate che siano le vostre orecchie a guidare la mano al portafogli, e non il contrario.

 

Gli Almamegretta di Sanacore 1.9.9.5. cantavano la lentezza, non certo l’immobilità. E difatti il successivo Lingo sterzava già dalle traiettorie già percorse. 4/4 rivendica quella sterzata, quella voglia di non cadere nello stereotipo, nella riproposizione infinita di uno stile che è diventato un marchio di fabbrica che rischiava però di imprigionarli per sempre come “quelli che fanno dub in napoletano”. A questo punto, passato definitivamente il testimone di quell’etichetta ai “fratelli” 24 Grana, gli Almamegretta hanno spostato il loro campo di azione scommettendo sulla loro capacità di adattamento e sacrificando una fetta del loro pubblico cercando di avventurarsi verso musiche e verso una poetica più complessa da quella degli inizi di carriera e che con pezzi come Figli di Annibale, Sanghe e anema, Suddd, Fattallà, Scioscie viento, ‘o sciore cchiu felice, Maje aveva dapprima tratteggiato un’orgogliosa rivendicazione delle proprie radici e poi aveva cercato di intrecciare quelle radici con quelle di tutti i Sud del mondo. Quindi, con il resto del planisfero, smarrendo un po’ della loro identità per liquefarsi nel globale non ancora globalizzato e proclamarsi cittadini del mondo.   

Allentando sempre più gli elastici della rabbia gli Almamegretta hanno trasformato quelle radici in una sorta di fibra ottica capace di cablare gran parte del pianeta, cercando collaborazioni e ispirazioni un po’ ovunque, ben oltre il bacino del Mediterraneo che era mare di imbarco e non di approdo. 4/4 prosegue dunque con decisione lungo il solco del disco precedente, sciogliendo il dub dentro una sorta di placenta elettronica ed eleggendo la lingua italiana ad idioma principale facendo sfumare gran parte del fascino sanguigno e partenopeo della band, disinnescando di fatto il potenziale di canzoni come Oreminutisecondi o Alta fedeltà. Nello zibaldone finiscono anche canzoni decontestualizzate come la ributtante Riboulez le kick, la lunghissima superflua babele di suoni sintetici Sainkho’s Blues, l’esperimento quasi big beat di Camisa doce, lo ska/beat di Sempre. Come se gli Almamegretta avessero in mano una testa d’ariete per abbattere tante porte senza avere ben chiaro quale sfondare per prima.

Finendo per abbattere in primis noi. 

 

Dedicato alla memoria del grande Bim Sherman, Imaginaria segna il ritorno degli Almamegretta dopo il tonfo artistico di 4/4, album che chiudeva poco dignitosamente un ciclo, mostrando tutte le debolezze di un gruppo alla ricerca di una via per sciogliersi da un passato ingombrante: laddove Sanacore 1.9.9.5 era un disco perfetto nella sua fusione di elementi tradizional-popolari e di riverberi di dub giamaicano, una sorta di camera d’eco allestita tra i vicoli di Napoli, i suoi successori (questo incluso) vivono di imperfezioni, di traiettorie diverse, multiformi ma non sempre azzeccate.

Facile quindi avviarsi prevenuti all’ascolto di Imaginaria.

Che invece non è un brutto disco, anzi.

Se riuscirete a non fermarvi al primo ascolto, lo vedrete crescere tra le mani, ascolto dopo ascolto, man mano che si schiuderanno le sue dodici gemme di dance cosmopolita in cui convivono arie mediterranee, partenopee, mediorientali, arabe, tropicali, immerse in un groove ipnotico ad ogni livello di BPM.

Imaginaria è un disco totalmente immerso nella club culture, molto vicino per atmosfere al lavoro di un gruppo come i Transglobal Underground.

Caña, ad esempio, rispolvera il vecchio Raiss muezzin-ragga ed è un piacere riscoprirselo così distante ma ben saldo nella nostra memoria.

Fa’ ammore cu’ mme è il Sanacoredubstylee proiettato nel 2000, unica evoluzione possibile di quel dub che rimbalzava tra le pareti ammuffite della casbah partenopea. Pa’ Chango è house che ti martella il cervello prima di travestirsi di rigore ragga nella conclusiva Rubb Da Dubb.

Imaginaria # 2 è vapore peso, sillabe che rimbalzano panpottando sui canali stereo, Mergellina ’70 corre tra le onde in cui poi si immerge Rubayyat: sparatela con le casse rivolte sulla spiaggia deserta delle tarde ore estive e vedete l’effetto che fa.

Il resto è ancora musica degli Alma, in equilibrio sul ritmo, piena e robusta (sentite la batteria di ‘E guagliune d’o sole, con un lavoro di produzione enorme), satura di orgoglio sudista e prodiga di scintillii tecnologici, come se ogni periferia del mondo fosse attirata da una forza centripeta verso il suo centro.

Imaginaria sono gli Almamegretta qui ed ora.

E vale la pena tuffarcisi dentro.

 

Un disco che fa male due volte: la prima perché vede l’allontanamento volontario del Raiz dalla formazione, la seconda perché nonostante la perdita di quella che era l’impronta digitale degli Almamegretta Sciuoglie ‘e cane suona meglio dei due dischi che l’hanno preceduto anche se, e da qui il dolore, viene da pensare come sarebbe stato col capitano Raiz ad impartire ordini raggamuffin dal cassero. Non che Lucariello, uno dei candidati al nuovo ruolo di comandante, lo faccia rimpiangere più di tanto: seppure con un timbro meno caratterizzante e personale, le sue interpretazioni su Preta d’oro e su Sciuoglie ‘e cane sono magistrali. Però la ciurma sembra indecisa proprio nell’individuare un nome univoco chiamato al ruolo di cantante, tanto da affidarsi oltre che al rapper di Scampia anche all’amico Francesco Di Bella, al toscano Marco Parente e alla voce femminile di Patrizia Di Fiore (presto sostituita da quella di Zaira Zigante) per condurre in porto un album che tuttavia regge bene la traversata, per almeno 3/4 del tragitto. 

Il problema dell’identità però rimane anzi, a tratti, viene smarrita del tutto. Diciamo che, decontestualizzando alcune parti del disco (diciamo, molto grossolanamente tutta la parte conclusiva del lavoro) da un album taggato Almamegretta, nessuno penserebbe si possa trattare di loro. 

Poco importa. Sciuglie ‘e cane è il disco di una band che vuole sopravvivere a se stessa e che sbatte orgogliosamente la sua coda anche dopo essere stata recisa. E che dovrà affrontare presto la tempesta più grande di tutte.  

 

A dieci anni esatti dal radicale Indubb gli Almamegretta tornano con un disco di deformazioni dub consegnandoci l’ultimo poker di canzoni di D.Rad e celebrando il rientro di Paolo Polcari, transfuga dai tempi di Lingo, in seno alla band.

Dubfellas è il ritorno dentro un luogo familiare per la band e per i suoi ascoltatori e nonostante la scelta di renderlo disponibile in edicola e la scelta di patrocinarlo quasi come un progetto parallelo lo faccia apparire meno prezioso, ricuce il legame stretto degli Alma con le alchimie da studio di marca On-U Sound. Echi svolazzanti su ogni canale audio. I vecchi Almamegretta escono dall’armadio e tornano ad infestare la casa sottoforma di ectoplasmi.   

 

La ferita all’anima arriva inaspettata, di notte, squarciando il petto.

Stefano Facchielli muore lontano da casa, nella Milano dove si è rifugiato da qualche anno, la notte fra il 31 ottobre e il primo novembre del 2004, privando gli Almamegretta di un tratto distintivo della loro personalità, già compromessa dalla “fuga” del Raiz che torna a collaborare col gruppo con Vulgus, cantando su una delle tracce migliori di un disco che vede avvicendarsi al microfono una mezza dozzina di vocalist (compreso un eccezionale Peppe Lanzetta che pennella di sagge parole Bum Bum) che cercano di tirare su l’àncora di una nave che corre il rischio di restare ferma al porto e che invece si dimostra in costante movimento.

Il nuovo album rincorre i vecchi Almamegretta innamorati della musica di Bristol e di Kingston ma allo stesso tempo non si stanca di reinventare la tradizione musicale e culturale napoletana nell’ennesimo sforzo inclusivo di un esperanto sonoro che se da un lato ha da tempo tradito l’omogeneità dei primi dischi, dall’altro ha ancora una vitalità invidiabile. E questo nonostante la voragine creativa che si apre più o meno a metà del disco rischi di compromettere fortemente l’ascolto completo di Vulgus su cui l’ora abbondante di musica grava in maniera evidente, dissipando buona parte della sua magia.

 

Se il primo volume era stato un viaggio anacronistico dentro le maglie del radical-dub, il secondo volume di Dubfellas rimette in marcia le ruote dentate degli Almamegretta riattivando le sperimentazioni con le musiche elettroniche di confine, appagante nella misura in cui non prendiate alla lettera il titolo del disco tanto da sentirvi dunque raggirati. Protagonista di Dubfellas 2 è la giungla urbana della musica da club, esplorata assieme a Neil Perch degli Zion Train, ennesimo elemento aggiunto in quella che ormai da anni è una formazione aperta più che un gruppo chiuso. Un disco in cui le manopole e l’effettistica sono i veri protagonisti e gli strumenti fungono da elemento ectoplasmatico. Eppure, anche a confronto col recente Vulgus, questa sembra essere diventata la dimensione migliore degli Almamegretta, quella meno stantia pure nella apparente mancanza di identità che l’elettronica le conferisce. E invece pezzi come Ppp, Foolish Dub, Healing Step, Drop & Roll, Shy si rivelano mutanti animali coriacei sopravvissuti alla deflagrazione della musica reggae, pronti ad adattarsi al nuovo mondo di plastica e metallo.     

 

Alle ore 22.15 del 13 febbraio del 2013 Raiz fa l’ingresso sul palco del Teatro Ariston di Sanremo alla guida dei nuovamente “suoi” Almamegretta. L’emozione è inevitabile ma svanisce alle 22.17 quando Mamma non lo sa si svela per quella che è: una copia appannata del ragga partenopeo dei tempi d’oro.

Controra celebra l’evento mostrandosi col corpo duale di una moneta: una prima facciata tutta ancheggiante di reggae, l’altra che si inchina alle lusinghe della musica elettronica che da tempo affascina il gruppo. Seducendo, o provando a sedurre, vecchi proseliti e nuovi ascoltatori anche a costo di cantare canzoncine abominevoli come La Cina è vicina, Custodiscimi e Onda che vai.  

La sensazione che resta al termine di un ascolto che cede spesso alla distrazione è quella di un momento ormai sfiorito, di un gruppo ricurvo su sé stesso. Una nave di vecchi esploratori che adesso si accontentano di galleggiare.  

 

Quella degli Almamegretta è stata, in ambito artistico, una delle più grosse sconfitte nazionali che l’Italia ricordi. Destinata a scavalcare le frontiere, la musica del combo napoletano non è riuscita ad imporsi in maniera decisa fuori dai confini nazionali, un po’ per vincoli contrattuali, un po’ a causa del destino beffardo, un po’ per pericolosi seppure non definitivi vuoti d’aria ispirativi, un po’ per una serie di scelte artistiche che hanno finito per sciupare la forza di quella testa d’ariete che la loro musica bastarda aveva in corpo e che hanno alla fine smorzato gli entusiasmi anche al popolo italiano che ha in parte voltato le spalle agli Alma. Le loro produzioni, da ormai più di un decennio, sono diventate prodotti di nicchia e l’ostrica perlifera ha richiuso la bocca continuando a secernere in mari sempre più affollati da gente distratta. La loro apparizione Sanremese che ufficializzava pubblicamente il rientro nei ranghi del Rais è rimasta nella memoria collettiva più per la scelta di non partecipare alla serata del venerdì e giustificata, al di là delle strumentalizzazioni, dalla fede ebraica cui il cantante si è convertito ufficialmente. La loro discografia, anche su un sito maniacale come Discogs, ha delle lacune nozionistiche paurose. Insomma, come dicevo in apertura, una sconfitta.

EnnEnne esce adesso in autoproduzione ed è il secondo album in studio dopo la reunion di quel che resta del nocciolo storico degli Almamegretta. Non so che risonanza avrà e quando verrà inserito nel sito ufficiale della band che non viene aggiornato da due anni buoni.

Il titolo è un ovvio riferimento a quella natura meticcia che ha sempre contraddistinto l’anima della band, un acronimo che i meno giovani ricorderanno probabilmente di aver visto sulla carta d’identità di qualche parente.

Molto di quel suono meticcio in realtà è sfumato via con la tragica morte di D.RaD e quella che si respira qui dentro è aria napoletana mista a ritmi giamaicani, tenuti assieme dalla mano sapiente di Adrian Sherwood. Una versione meno sanguigna o forse solo un po’ più malinconica dei vecchi Almamegretta, con Scatulune a prendere il posto di Sanghe e anema, la cover di Ciucculatina d’a ferrovia a prendere quello di Nun te scurdà, Musica popolare a tentare quelle sfumature nelle musiche tradizionali che furono la formula vincente di Sanacore e il ritornello di Karmacoma che torna come un fantasma su Curre core, all’epoca regalata proprio ai Massive Attack per quel remix epocale. L’impressione che se ne trae è di una band che ha ormai finito di rivoluzionare il proprio suono (come era invece accaduto nella successione storica dei primi anni) e che ha scelto di adagiarsi con grandissima dignità su sè stessa. Di schiena. Guardando le stelle che si specchiano sul mare di Margellina e sognando di stare con le spalle appoggiate sulla sabbia di Negril.   

 

Alle porte dell’estate 2022 gli Almamegretta tornano con il loro disco più radicale e più bello dai tempi di Sanacore. Intriso di dub e di elettronica pesa, di burrasche mediterranee che adesso hanno però il colore del piombo e non più quello dell’oro e del blu. Una Napoli urbana e suburbana, schiacciata fra la storia già fatta e quella da costruire che ha il peso del cemento e dalle cui fessure gli Almamegretta si ostinano a guardare al futuro che li circonda. Pur n’miezz a chista guerra.  

Senghe è il lavoro con cui gli Almamegretta tornano a sporcarsi le mani con quella massa argillosa del reggae (come nella bellissima Water di Garden), elettronica, dub, world music, soul urbano e evanescenti spoken-songs che sono proiezioni cuneiformi della terra di matrix (la spettacolare chiusura affidata a ‘o campo). Fugando i dubbi, legittimi, sulla “tenuta” del suono Almamegretta, Senghe trova la sua arteria di ossigeno là dove non sembrava essercene ormai da tempo e ci restituisce il corpo della formazione partenopea. Vivo.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

MASSIVE ATTACK – Mezzanine (Virgin)  

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Mezzanine sono gli angeli neri dei Massive Attack che scendono dal cielo gocciolando come gli orologi molli di Dalì o il famoso rubinetto incrostato dei Cure. Al terzo album la musica della crew del Wild Bunch si tinge di un nero diverso, di un cupo livore post-punk austero ed ostile. Virginee dark ladies e uomini d’ebano dalle voci eunuche stanno come statue di cera nera sulla banchina del porto di Bristol, mentre il mare gonfia e schiuma come il muso di un cavallo agonizzante. Alle loro spalle fumaioli e ciminiere lavorano a pieno regime, imbrattando il cielo come fossero gigantesche bombolette di Banksy.

3D, Daddy G e Mushroom sono gli uomini dietro le macchine.

Quando si passano la mano sulle barbe di setola si sente un fruscio del tutto simile a quello di una puntina su un vinile.

E dietro a loro altre macchine.

E un altro uomo dietro le macchine, che si chiama Tim Young come fosse il piano tariffario di un operatore di telefonia.

Quando tocca i cursori si sente un picchiettio, come se attraverso i vetri dialogasse con gli altri in codice Morse.

E ancora dietro Neil Davidge, che muove le braccia come un direttore d’orchestra e ogni volta che colpisce una mosca si sente il suo ronzio trasformarsi nel brusio morente di uno starter che asfissia per mancanza di tensione.  

I loro sono cuori che battono all’unisono nelle tracce chiamate a diventare dei classici della musica elettronica di fine secolo: Angel e Teardrop, canzoni che sono lampadari di cristallo che ciondolano sulle nostre teste come enormi pendoli di diamante. Ma scendendo più a fondo Mezzanine mette ancora più paura; Group Four, la title-track, Inertia Creeps e Risingson sono come lampade di Wood che lampeggiano dentro un’excape room, mostrando fotogrammi visivi di una via di fuga che non è facile individuare, seppure la band lasci aperta la porta del reggae facendo entrare una densa folata di vapore caldo, ingannandoci di poter prendere fiato, lasciandoci invece tramortiti per l’umidità irrespirabile di Man Next Door ed Exchange.

Mezzanine è un disco che incombe, che ci tiene in tensione, in allarme perenne, è un’opera-thriller dove l’ansia si accumula fino a diventare ossessione maniacale, fobia per l’aria e per l’assenza di essa, per gli animali e per l’uomo, per gli specchi e per i corridoi, per gli ascensori e per le vertigini date dalle scale, per le spirali e per le linee rette, per il nero osceno e per il bianco abbagliante, per i pipistrelli e i roditori.

Per il futuro.

E per il presente che ne anticipa l’arrivo come le nuvole minacciose che sono preludio di pioggia.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BURIAL – Burial (Hyperdub)  

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Il mondo, il mondo moderno, visto da una tana.

Burial è il sabato notte consumato in un eremitaggio da attico urbano, mentre nelle arterie della città le luci delle auto corrono come plasma dentro una ragnatela di deflussori. Sostituendo allo specchio lo schermo di un laptop Burial si lancia in un gioco di riflessi prismatici che stravolge il senso della musica da club, demolendo di fatto la sua natura socializzante, il suo fragore conviviale, i suoi rituali orgasmici e tribali in favore di una solitudine sconcertante e malinconica da edificio abbandonato.

La sua musica è piuttosto il luogo metafisico dove si annidano tutti gli spettri ammansiti dalle pastiglie di MDMA, il posto dove la cultura dei rave clandestini implode e si accartoccia su se stessa, morendo sotto le sue stesse macerie.

I flash seducenti della discoteca ridotti a vaghe strisce fluorescenti di led.

Il vigore ritmico sclerotizzato in un rattrappito cigolio di nunchaku elettronici.   

L’unica dimora che rimane immutata è la notte, coi suoi mille pericoli e i suoi mille rifugi sicuri dentro cui le musiche urbane di Burial trovano scampo, trascinandosi dietro il riverbero scuro dei suoi rumori e lo scroscio incessante della pioggia che la bagna.     

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro