THE PSYCHEDELIC FURS – Made of Rain (Cooking Vinyl)  

0

La pioggia era stata la protagonista di un semplice ma efficacissimo piano-sequenza che aveva immortalato per sempre l’immagine degli Psychedelic Furs sugli schermi dei canali video degli anni ’80.

Singolo bagnato, singolo fortunato Heaven.

Che quell’acqua sia di auspicio per questo rientro in scena dopo anni di silenzio è dunque il mio augurio sincero ai fratelli Butler, che dell’atelier sono rimasti gli unici titolari.

Se è vero, come lo è, che la nostalgia è il polmone artificiale che tiene in vita il rock, Made of Rain venderà un discreto numero di copie pur non essendo il capolavoro che tutti si affretteranno a dire di aver ascoltato. Un disco che sembra partire per il verso giusto, tutto “suedato” e che invece perde di mordente già dopo aver superato la terza traccia, con un guado centrale davvero difficile da superare con una serie di canzoni che si parlano addosso e che nessuna pioggia, neppure fosse uno scrosciante acquazzone di applausi, potrà benedire. Quello che lo salva, paradossalmente, è la sua scelta di non voler a tutti i costi coprire le rughe per tornare a fare a sessant’anni quello che facevano a venti, di non voler a tutti i costi mostrarsi giovani e speculare su un passato che ha ormai lasciato la stazione come quel Wrong Train in cui Richard ci confida un po’ della sua vita privata, di non voler dissimulare gli anni che si porta addosso.

È invece un disco che conserva l’eleganza un po’ sfiorita della terza età, un disco di gente capace ma che fatica ad adeguarsi ai tempi, nonostante il cortocircuito temporale con cui i musicisti della nuova onda entrano ed escono orizzontalmente dal passato come i protagonisti di Dark rischi di investirli in pieno.

Ma tutto sommato, Made of Rain è un disco che non commuove e che non diverte. E che nemmeno riapre le cataratte del tempo per permetterci di confondere le lacrime alla pioggia.

Aspettiamo che spiova.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DENIZ TEK + JAMES WILLIAMSON – Acoustic K.O. (Leopard Lady)  

0

Il titolo lo aveva già usato, al plurale, Iggy Pop dieci anni prima ma le canzoni che adesso James Williamson e Deniz Tek prendono in mano non facevano parte di quei set dell’Iguana registrati fra Parigi e Barcellona. Ma anche fosse, cosa si può rimproverare ad un disco così se non il fatto che duri solo poco più di un quarto d’ora? I brani sono tra i più belli del repertorio di Williamson: I Need Somebody e Penetration da Raw Power e Night Theme e No Sense of Crime da Kill City, suonate in versione acustica ma tutt’altro che spartana, con arrangiamenti ricchissimi se non addirittura straripanti e para-orchestrali nella Night Theme con la voce di Petra Haden, timpani e violini che squarciano il velo della notte anche se sono i pezzi da Raw Power quelli, seppur truccati, non riescono a mascherare la malattia che gli appartiene dalla nascita risultando ancora carichi di alopecia perversa come nello stesso istante in cui furono concepiti.

Come aperitivo per il disco di inediti a quattro mani che i due veterani stanno preparando per il 2020 niente male.

Speriamo non esagerino con le olive.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NINO FERRER – Rats and Roll’s (Riviera)  

0

Nella metà degli anni Sessanta l’Italia diventò la terra promessa dei capelloni europei. Gente come Sorrows, Primitives, Antoine, Rokes, Dave Anthony, Ricky Shayne, Renegades, Mike Liddel, Rocky Roberts e Nino Ferrer conquistarono quel che c’era ancora da conquistare dopo il passaggio dei Beatles. Qualcuno rimarrà qui, ospite perenne dei programmi sui “fantastici anni Sessanta” e delle piazze dei paesini che non potendo permettersi grossi cachet rallegreranno sagre e serate estive dei cittadini sotto l’ombrello largo della nostalgia. Non così per Ferrer che lascerà l’Italia proprio dopo la registrazione di questo Rats and Roll’s tornando in Francia a fare musica sempre più raffinata prima di farsi saltare le cervella alla vigilia dei suoi 64 anni. I fantastici anni ’60, per l’ultima volta.

Rats and Roll’s è un disco paurosamente bello. Registrato dal vivo ai margini del decennio, lo si penserebbe un disco di grandi successi (e di grandi successi Ferrer ne aveva avuti parecchi) ma invece ad esclusione della inevitabile La pelle nera, è invece un album ambiguo, sofisticato, ironico e insolente. Ipnagogico già dalla copertina, è un disco in cui il rhythm ‘n blues scolorisce nel prog e nel jazz elettrico e in cui il biondo cantante francese si diverte a parlare di tutto con sarcasmo pungente. Del potere oppiaceo delle droghe che ti rendono cieco delle brutture del mondo, della censura RAI, dei compromessi artistici, della sua stessa condizione di nomade del successo (“Fratelli, un po’ facciamo i conti. Che siam venuti a fare qui? Vivere un po’, ridere un po’, amare un po’, soffrire un po’, piangere un po’, morire un po’. Perché?”), delle utopie pacifiste e proletarie dietro cui molti si sono arricchiti finendo per diventare più borghesi della classe che volevano rovesciare.

Finito tutto, Ferrer toglie la bandiera, si sistema il foulard e lascia il Belpaese al suo vaso di cicuta degli anni Settanta.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BLATOIDEA – Quarantine (autoproduzione)  

0

Probabilmente in ritardo sul punk (supposto che ci sia una data d’ingresso per essere credibili) ma straordinariamente in anticipo sull’anno della quarantena i ragusani naturalizzati inglesi Blatoidea ci danno una bellissima spazzolata col loro terzo album, sempre sotto il segno di un ferocissimo punk crestato come i vecchi Exploited e gli zii Rancid insegna(ro)no.

Fuggiti dall’Italia giusto in tempo per evitare di ritrovarsi a sbarcare il lunario nei localini di provincia suonando per quattro balordi che ti chiedono di fare Paradise City dei Guns N’ Roses o di trasformarsi nell’ennesima triste cover-band, i Blatoidea hanno realizzato a Londra il loro sogno di mettere in piedi una punk-band senza compromessi e suonare al fianco di gente come G.B.H., UK Subs, Subhumans e Jello Biafra proprio mentre in patria esplodeva quella cosa tristissima da universitari fuori corso come l’It-pop e Manuel Agnelli stringeva alleanze con Mara Maionchi invece di sputare in faccia a pubblico e concorrenti di quelle abominevoli sedute spiritiche per vecchi in abiti da ventenni che sono i talent.

Quarantine si apre con una intro che rispetto ai pezzi che le seguono dura un tempo infinito, anche se siamo appena sopra i due minuti. Poi, una serie di randellate senza tregua. Come se fossi sotto tiro dei drughi. Pezzi velocissimi e chitarre che svisano tra hardcore e thrash metal. Una potenza di fuoco micidiale, di quella che vi rovina la vita condominiale e gli affetti.

Se guardare i cantieri di lavoro e fare la fila al supermercato non sono ancora i vostri sport preferiti, forse siete ancora in tempo per provare a fare stage diving, magari dal balcone di casa. Sulla pattuglia della volante che vi intima di stare in quarantena.  

                       

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

JASON MOLINA – Eight Gates (Secretly Canadian)  

0

Jason Molina in autoconfinamento.

Oggi diremmo in quarantena, con un termine tornato tristemente in voga. Ma allora, nel 2008, la quarantena era solo una pattumiera dove buttare le email infette e Jason era a Londra, in isolamento a seguito del morso di un ragno. A tenere compagnia al cantautore dell’Ohio i suoi soliti spettri e un fegato corroso dall’alcol, che gli saranno accanto fino alla morte. Ma anche dei pappagallini che, attratti dal suono dell’amplificatore che Jason ha piazzato nel suo giardino, vanno a regalargli un sorriso e vanitosi come sono pretendono di essere registrati assieme a quei bozzetti che Molina sta disegnando di schiena come il Neil Young che guardava il mare di On the Beach e che ora vengono completati con arrangiamenti minimi (organo, viola, percussioni) e grevi che ne accentuano le suggestioni negative, tingendo di blu quel che è già blu di suo.

Al di là di quello che resta incompiuto, scorrono piccoli capolavori come Shadow Answers the Wall, Old Worry, Thistle Blue, canti sperduti di desolata mestizia come di chi sa che la sorte non ha in serbo altri sorrisi se non quelli ormai lontani di una infanzia invecchiata troppo precocemente per poterne godere in una misura bastevole per addolcire il resto della vita.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE CHILLS – Submarine Bells (Fire) / Soft Bomb (Fire)

0

Lo chiamavano il Dunedin-sound. Il suono della città di Dunedin, che è come dire il rumore che fa il buco del culo del mondo. A dirla tutta, a parte la provenienza atipica, non c’erano altre peculiarità specifiche. Si trattava di una new-wave molto imparentata col guitar-pop di band come quelle della Postcard e della Creation (dove i Chills troveranno temporanea dimora), appena un po’ più ridondanti e giocosamente sixties alla maniera dei Teardrop Explodes.

Submarine Bells è l’apoteosi di quel sound che avrebbe premiato i Chills come miglior gruppo emergente neozelandese ma che avrebbe portato al gruppo poche altre soddisfazioni se non quella di diventare una delle band di culto definitive degli anni Novanta proprio in virtù di questo disco verdeggiante e sottomarino, sorta di incrocio fra i vicini Go-Betweens e Church, i più lontani R.E.M., Robyn Hitchcock, Feelies ed XTC ma anche certo rock romantico e barocco che finisce per lanciare occhiate, seppur torve, a Genesis e Jethro Tull. Leccornie pop da leccarsi le dita, insomma. Col rischio che la lingua ci resti pure appiccicata, almeno un paio di volte. C’è un che di festoso dentro questo secondo album della band di Dunedin. Come se, consapevole del privilegio di essere i primi a vedere il sole albeggiare, volesse condividerne la gioia con noi tutti. E noi ci stropicciamo gli occhi, in attesa che la luce annunciata da queste “campane sottomarine” raggiunga anche noi.    

Il suono dei Chills raggiunge la vetta della perfezione timbrica, armonica e strumentale col successivo, coreaografico Soft Bomb inciso in terra californiana. Un album che può vantare una produzione sopraffina e una scrittura cristallina come pochi altri e una copertina ancora una volta bellissima. La giocosa esuberanza del disco precedente viene adesso contrastata da una sorta di nostalgia montante in un carosello cangiante di umori che brilla di un jangle-rock di prestigio assoluto toccando vette inarrivabili in pezzi come Ocean Ocean, Sleeping Giants, Background Affair, So Long ma elaborando pure, soprattutto nella parte conclusiva del disco, quelle influenze romantiche latenti su Submarine Bells e che fanno da zavorra alla nave dei Chills proprio nel momento in cui sembrava avere preso definitivamente il largo veleggiando leggera su tutti gli oceani del mondo. Ma malgrado questo Soft Bomb resta a testimonianza della classe inviolabile della più grande band di Dunedin, per piccina che lei sia.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

UMBERTO PALAZZO – L’Eden dei lunatici (Diggers Factory)  

0

Come l’Italia dei primi anni Ottanta, che era uno stivalone galleggiante nel mare del benessere democristiano a cui piaceva travestirsi con zeppone luccicanti da disco-music o trasformarsi in mocassino giamaicano. L’Italia di Battisti, del Sorrenti cocainomane e del Fossati che lasciava Genova per il sudamerica, del Carella stralunato e della Bandabertè, dei Matia Bazar trionfanti, delle copertine dei dischi di Papetti, delle spiagge libere, delle commedie erotiche e delle partite a briscola. L’Italia che sarebbe finita su qualche portata di Prince, di Beck, dei Blonde Redhead alla citronella e dei TV on the Radio senza che nessuno degli altri  commensali se ne accorgesse. 

Umberto Palazzo tira fuori a sorpresa questo disco demodé già dalla copertina in cui campeggia una sua vecchia foto da ventenne in abiti da corvo come ai tempi degli Ugly Things e ci riporta all’improvvisto in quel mondo lì, venendoci a prendere sotto casa con una utilitaria che scoppia di materassini, borse frigo, radio a batterie e sciroppi da diluire con l’acqua del termos. Che è lo stesso isolotto in cui da anni è approdato Luca Carboni e che adesso il musicista di Pescara affronta ancora coi sandali e senza occhiali da sole, da naufrago vero.

Bagnino improvvisato pronto a portare a spasso i turisti sul suo moscone mentre la radio passa le canzoni dell’estate che viene o di quella che è già passata. Effervescenze latine e prendisole, vitelloni diventati manzi nei brulicanti pascoli della “riviera che non dorme mai”. Fuori dal rock da stadio, fuori dall’it-pop che macina una malinconia che non le appartiene, fuori dalla furba ragnatela della trap, fuori dal tormento dei ritmi reggaeton, c’è un’altra estate tutta tinta di giallo e di azzurro. Mentre voi siete in spiaggia, Umberto Palazzo cammina sull’acqua.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MADRUGADA – The Nightly Disease (Virgin)  

0

Come la carezza dell’orco.

Torbida così è la musica di The Nightly Disease.

C’è sempre qualcosa di peccaminoso nella musica dei Madrugada. Di peccaminoso ed elegante. Come un corteggiamento serrato ma che non travalica mai il limite della raffinatezza, della voluttà che si consuma nella bellezza contemplata come opera d’arte.

La musica dei Madrugada è sempre una fuga d’amore. Una fuga che si rivela essere una trappola. Un tramonto romantico su cui si abbatte una tempesta di acque corrosive come quella di We Are Go o su cui si aprono le cataratte delle lacrime degli angeli come quelli che con le ali bagnate si fermano a cantare Into Heartbeats.

Morbose e languide, canzoni come Sister, Step into This Room and Dance for Me, Black Mambo, A Deadend Mind, Only When You’re Gone si intonano più che col nostro abito da sera, col nostro vestito della notte.

Quello che nascondiamo anche al nostro specchio, per paura che ci venga troppo stretto di gola.      

  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE MEANIES – Desperate Measures (Folc)  

1

Bellissimo il nuovo disco dei Meanies. Con le chitarre strette strette e i cori che sembrano quelli dei Dictators in spiaggia.

Realizzato nella loro nuova patria europea Desperate Measures ribadisce le caratteristiche del gruppo australiano, che sono quelle di un punk dai marcati tratti melodici. Un wall-of-sound di chiara impronta ramonesiana, stereotipato quanto si vuole però efficace. Canzoni come Defcon One, Old Car to Shangri-La, Under My Rock, Monsters, All the Bought Men, Drowning Towers divertono senza soluzione di continuità, lasciando le rivoluzioni ad altri. Magari a quelli che poi le asfaltano per passarci sopra con la decappottabile.      

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MEAT PUPPETS – Rise to Your Knees (Anodyne)

0

Il tono generale è meditabondo più del tollerabile, appesantito ulteriormente da una lunghezza media delle canzoni inutilmente stiracchiata, tanto da far sforare l’ora di durata per un disco che, pur celebrando il rientro in scena di Cris Kirkwood, finisce per trasformarsi in una noiosa festa dove pare non divertirsi nessuno, ne’ gli invitati ne’ i festeggiati. Rise to Your Knees si solleva dunque si sulle ginocchia ma non solleva mai i piedi da terra. E spesso, neppure il resto del corpo dal materasso.

L’imprevedibilità, tratto peculiare dei loro primi album e poi via via ridotta a qualche sketch improvviso, è ormai stata sacrificata a favore di un sonnolento rock (On the Rise, This Song, Ice, Tiny Kingdom, Island, The Ship) che quando tenta di uscire dalla catalessi finisce per cadere nella trappola di un reggae sciatto come quello di Enemy Love Song oppure, ormai a tempo scaduto, tenta di tramutarsi in un parossistico space-rock come Light the Fire che però, ad un’ora buona dal primo solco, rischia soltanto di trasformare i sogni del nostro sonno ormai irreversibile in incubi da scimmia.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro