BAND OF SUSANS – Hope Against Hope (Blast First)

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Le tre Susanna c’erano davvero, ognuna di loro con uno strumento a corda in mano, ad erigere quel muro di suono che è l’architettura base della band di New York, che può schierare ben tre chitarre “frontali” per modellare in forma di canzone quel mostro di argilla che Robert Poss aveva messo in vetrina con Inverse Guitar. Dello spericolato rumore di quel disco Hope Against Hope conservava ancora qualche rudimento (Elliott Abrams in Hell, ad esempio) ma l’obiettivo era stavolta irretire il pubblico devoto al punk-rock progressista di Washington D.C., Chicago e Minneapolis smussando le asperità sperimentali per creare piuttosto una sorta di scudo sonico a quelle melodie un po’ appassite che Poss coltiva nel suo ombroso vivaio e che in verità ricordano soprattutto quelle di qualche band post-punk e neo-gotica inglese (Cult, Mission e Fields of the Nephilim in primis) creando un miasma elettrico che confonde il chitarrismo epico tipico di quei gruppi con le fosche caligini dell’alternative rock americano. Orfane di melodie vere e proprie così come di riff esemplari (ad eccezione della sola title-track e della sua coda fluorescente), le canzoni dei Band of Susans si ergono come spettrali cattedrali decadenti, lavorando più sull’impatto, sull’atmosfera, sull’architettura e sulla struttura globale dei pezzi, rifiutando per scelta o per incapacità oggettiva tutti quegli espedienti che le potrebbero rendere memor(izz)abili e meno aliene, approdando alla fine ad un inconsistente ma ingombrante pachiderma noise-rock cui sono state tirate via le zanne.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

BETTY DAVIS – Nasty Gal (Island)

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Madamoiselle Mabry, così come l’aveva soprannominata l’ex marito Miles Davis sul suo Filles de Kilimanjaro, arriva ad una grande etichetta grazie a Robert Palmer che bussa per lei alle porte della Island. Siamo alla metà degli anni Settanta, con la discomusic ormai sdoganata come genere di successo e per lei sarebbe facile attaccarsi al carrozzone e svoltare definitivamente.

Ma Betty Davis è una donna caparbia e cocciuta. Il suo amore per il funky non è effimera febbricola passeggera (“funk […] sono nata con lui e morirò con lui, perché scorre nel mio sangue” proclama, fiera, su F.U.N.K.). E così Nasty Gal non si sposta di un centimetro dall’asse dei due dischi precedenti, farcito com’è di funky sporcaccioni in cui Betty sguazza come una mud wrestler giocando col suo ruolo di ragazza dalle cattive maniere che adora il turpiloquio e che pure non lesina momenti di grande tenerezza (e qui ce ne sono tre immensi, fra cui uno scritto e suonato dall’ex consorte Miles Davis).

Una che non le manda a dire nella vita, figurarsi su disco. Tanto da dedicare alla stampa una perla come Dedicated to the Press che ovviamente i giornalisti stessi si affrettano ad ascoltare, decretando la fine della Davis prima ancora di aver completato l’ascolto del disco, tanto da indurre la Island a mandare a monte il progetto per il quarto album Is It Love or Desire, convinta che non ci sarebbe stato alcun sostegno della stampa per la sua promozione.   

Nasty Gal diventa pertanto il canto del cigno nero di Durham, con pezzi madidi di sudore e di ogni altro liquido corporale che riusciate ad immaginare come Talkin Trash, F.U.N.K., Shut Off the Light, Nasty Gal, Feelins, This Is It, rotondi stroboscopi di negritudine afro che volteggiano come fasci luce di un UFO che ha deciso di sorvolare la Terra per trovare qualche forma di vita e, accortosi di essere sopra un pianeta morto, decide di andare via per sempre.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SOLID SPACE – Space Museum (In Phaze)

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Affascinati dal mondo della science-fiction e da Doctor Who (la copertina del lavoro non è altro che un frame da The Wheel in Space, episodio fra i più belli della serie, NdLYS) e Captain Scarlet in particolare, i Solid Space elaborarono nei primi anni Ottanta un synth-pop minimale costruito con pochissimi mezzi e in maniera del tutto amatoriale, sia nell’approccio agli strumenti che nella produzione e nel formato scelto visto che i loro unici esperimenti vennero pubblicati solo su questo nastro magnetico e ristampato su vinile solo trenta anni dopo. Questi limiti apparenti sono in realtà la forza di Space Museum, ciò che lo rende così naif, così assolutamente fuori dal comune, con le chitarre svolazzanti come quelle degli Orange Juice (New Statue) o ridotte a piccolissime particelle d’etere (Tenth Planet), i sintetizzatori che sembrano macchine inceppate (Contemplation) o stroboscopi che lanciano fasci di luce dal cielo (Radio France, The Guests, Afghan Dance), piccole melodie sperdute come orme sulla superficie di Marte (A Darkness in My Soul, Destination Moon, Please Don’t Fade Away), filamenti percussivi come spermatozoi (la cover di Tutti lo sanno dei Marine Girls) che invadono e fecondano lo spazio, così come lo immaginavamo da ragazzini. I Solid Space inventano la sci-fi music da nerd.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE FLESH EATERS – A Minute to Pray a Second to Die (Ruby)

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Assoldati da Chris D. con l’obbligo ferreo di dimenticare tutto quel che sanno dei loro strumenti e tornare a suonare come degli aborigeni alle prese con degli attrezzi del futuro, John Doe, D.J. Bonebrake, Dave Alvin, Steve Berlin e Bill Bateman portano a termine il loro lavoro su A Minute to Pray a Second to Die, capolavoro del grottesco mondo dei Flesh Eaters e del loro macabro garage rock di serie Z. Un punk rock ridotto all’osso, che in questi termini è per Chris D. un complimento vista la sua ossessione per il macabro e il raccapricciante, e che si sublima nei sette minuti di Divine Horseman giocati su un unico, miniaturizzato riff di chitarra protratto all’infinito e doppiato da un piccolo ghirigori di marimba che fungono da trampolino di lancio per le linguacce del leader.

L’effetto complessivo ricorda una versione marcia e morbosamente torbida del punk-rock dei rAts del primo album, con i musicisti costretti a disimparare quello che sanno e a replicare quel suono amatoriale ed elementare della band di Fred Cole. E forse anche questo faceva parte delle perversioni di Sua Cattiveria Chris Desjardins.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PETE ROSS & THE SAPPHIRE – Lost in Brittanny (Beast)

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Il suono acustico di Midnight Show, il disco pubblicato da Pete Ross dopo l’apparentamento estemporaneo coi Paesanos di Six String Suicide, diventa elettrico durante il tour del 2011, preparando alla svolta dei Sapphire che nascono praticamente allora. Lost in Britanny certifica quel passaggio e l’abbandono (tuttavia non definitivo) dentro le maglie del blues, del country e del folk noir che poi confluiranno su Rollin On Down the Lane, anche se i pezzi sono ancora quelli del disco precedente. Solo che qui, vestiti così, assumono quasi quella sorta di carisma talare, come di una croccia cardinalizia che cela la crudezza del sangue nella morbidezza delle stoffe.

La Bretagna è conquistata.

Noi, pure.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DEPECHE MODE – Disease Pop

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Tuffarsi negli anni Ottanta vuol dire spesso fare un bagno nella merda. Sintetica, ma pur sempre merda. A Nord-Est di Londra, ad esempio, esordiscono i Depeche Mode, che da quella merda si tireranno fuori egregiamente ma dopo averci nuotato a lungo.

Ma, senza il senno del poi che rende più semplici e deformi tutte le cose, Speak & Spell resta uno dei dischi peggiori di tutto il synth-pop che abbonda nella Gran Bretagna, con buona pace per le folle oceaniche che anni dopo si raduneranno ai piedi di Dave Gahan e soci. Canzonette per ragazzini coi ciuffi laccati suonate da altri ragazzini coi ciuffi laccati. Roba al cui cospetto anche il coevo esordio dei Duran Duran sembra grande quanto il Taj Mahal, pensata per e costruita con le macchine e, come quelle, senza anima. Melodie che più che accattivanti risultano pateticamente irritanti come le tinture per capelli (I Sometimes Wish I Was Dead, Just Can’t Get Enough, Tora! Tora! Tora!, Nodisco, New Life, Boys Say Go!) che convogliano le intuizioni dei Kraftwerk verso il nulla cosmico delle sale da ballo generando mostri come l’Italo-disco e l’europop di cui il mondo avrebbe fatto volentieri a meno.

 

La defezione di Vince Clark è sorprendentemente indolore: la scrittura dei pezzi passa dalle sue mani a quelle di Martin Gore senza intaccare il sound dei Depeche Mode, anzi conferendogli un vago senso di cupezza che diventerà poi il tratto peculiare dei dischi più maturi e che via via sostituirà l’aria sbarazzina dei primissimi tempi.

Alan Wilder, chiamato a sostituire il vecchio amico, non è ancora entrato nei ranghi in maniera ufficiale e dunque A Broken Frame è realizzato, per così dire, con un arto amputato. L’artificio sintetico però è ancora una volta più una “copertura” per sdoganare ariette da canzonette pop anni Sessanta alla Herman’s Hermits come See You, A Photograph of You e The Meaning of Love e i tentativi di emanciparsi da quella formula, che pure ci sono (Monument su tutti) sono ancora impacciati come i capitomboli di un pulcino che ha appena scavalcato per la prima volta il guscio dell’uovo, inciampandovi.

 

Il 17 novembre del 1983 dentro gli studi milanesi di Rete 4 ormai ad un passo dal diventare il terzo polo televisivo della Fininvest, si consuma l’ennesimo carosello di luoghi comuni e ironia sciatta firmata Mike Bongiorno. Tocca stavolta ai giovanissimi Depeche Mode far buon viso a cattivo gioco e cercare di dissimulare l’imbarazzo.

L’unico ad uscirne indenne è l’ultimo arrivato. Si chiama Alan Wilder ed è stato arruolato come semplice macchinista. Eppure al neo-assunto piace di tanto in tanto mettere le mani sul timone. E così i Depeche Mode si trovano un po’ alla volta su una rotta leggermente sfasata rispetto a quella prefissata, andando ad incagliarsi fra i rifiuti industriali che arrugginiscono sotto il pelo dell’acqua, salvandosi dalla banalità del solito giro in yacht dove gli idoli del new-romantic si abbronzano ad un sole che a stento riscalda. Construction Time Again è il disco che ridefinisce per primo il suono dei Depeche Mode, lavorando sulle timbriche (vocali e strumentali) e sulle tematiche che adesso puntano anche in maniera diretta al sociale e al politico, inaugurando un processo che darà il “prodotto finito” dieci anni dopo, spegnendo le luci una alla volta e diventando sempre più cupi e claustrofobici di disco in disco.

La percezione della mutazione in atto è tangibile in tracce come Pipeline, The Landscape Is Changing, Love, in Itself e soprattutto su Everything Counts, il primo pezzo a calibratura perfetta della band. Altrove, qualche idea ma pochissima sostanza e quattro facce da bimbo che devono ancora cercare il varco perfetto per accedere al mondo della credibilità artistica.

 

La ridefinizione del loro stile attraverso il prudente ma determinante innesto di suoni industriali all’interno del banale synth-pop dei primi anni trova compimento e consapevolezza con Some Great REWARD, l’album dello scarto definitivo, quello che consegna ai Depeche Mode un qualche posto nella storia della musica moderna salvandoli dall’effimero. Se il disco precedente risultava ancora “scucito” e slegato, Some Great REWARD esibisce una compattezza fino a quel momento inedita per il gruppo inglese. Una coesione che non è tanto dettata da un’omogeneità di suono che di fatto non c’è bensì dalla percezione evidente, tangibile di trovarsi davanti ad un disco importante, ad un salto di statura artistica, ad una pregnante mutazione di pelle, alla definizione di un carattere simile a quello che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta che per i Depeche Mode si concretizza tra i suoni meccanici di pezzi come Master and Servant (con un geniale campionamento di scatarri a simulare lo schioccare delle fruste sadomaso), Something to Do, People Are People (realizzata con degli “scarti di lavorazione” dei Fad Gadget trovati negli studi Hansa) e Blasphemous Rumours e il decadente e cupo romanticismo di Somebody e It Doesn’t Matter che odorano di Mitteleuropa e di Berlino. In quest’ottica, lo scatto di copertina risulta incredibilmente azzeccato: l’immaginario industriale, già evocato su Construction Time Again con una silhouette che richiamava le pose operaie dei Test Dept, adesso diventa seducente e romantico.

Il sociale diventa scenografia indissociabile dal personale. I Depeche Mode salvano sé stessi e il synth pop dal termovalorizzatore degli anni Ottanta.       

 

Nel 1985 sono i singoli Shake the Disease e It’s Called a Heart a traghettare i Depeche Mode dalle fucine metallurgiche di Some Great REWARD al forcipe color canna di fucile di Black Celebration, la vetta più cupa toccata dal quartetto fino a quel momento.

Il tono del disco è quasi melodrammatico tanto che i synth sincopati di Here Is the House, l’unico momento che richiama i vecchi dischi, appaiono totalmente fuoriluogo e quasi sacrileghi dentro questa immensa cattedrale di oscura decadenza, questo viaggio alla ricerca del lato oscuro fitto di simbolismi e metafore carnali che sono mutilazioni inflitte al proprio ego, corpi sedotti dal dolore, impassibili davanti all’amore. E quando Dave Gahan alza la sua ostia insanguinata per dare inizio alla messa, tutti sono già inginocchiati.

La registrazione a 48 tracce consente al suono di “respirare”, anche se si tratta di aria con poche molecole di ossigeno e tutto sembra per la prima volta occupare un posto preciso, definito, strategico, come in un gioco geometrico perfetto dove anche le voci hanno un ruolo dinamico mai avuto in precedenza (Sometimes, che richiama alla mente quell’altra perla di solitudine incorporea che è Asleep degli Smiths e It Doesn’t Matter Two vivono praticamente solo degli incastri vocali che la band sta sperimentando da un po’ allontanandosi sempre più dal cliché del “gruppo con cantante” e inseguendo la formula dell’alchimia perfetta).

I Depeche Mode diventano i sopravvissuti del dark inglese, senza mai averne fatto parte.

 

Music for the Masses riapre un effimero squarcio nel cielo plumbeo dei Depeche Mode. Un temporaneo (e molto ironico) ritorno alla “musica per le masse” dopo la sferzante parentesi glaciale di Black Celebration che però segnava in qualche modo un punto di non ritorno e il cui ermetismo permane come un’armatura di metallo anche su queste nuove tracce, nonostante il basso funky di un pezzo come Sacred, la pulsante disco-music di Behind the Wheel, il (terribile) soul alla Eurythmics di I Want You Now, l’interludio pianistico di Pimpf, il ricorso alle vecchie marimba sintetiche di Nothing o l’appeal commerciale di brani come Never Let Me Down Again e Strangelove. Al di là di tutto però i Depeche Mode sembrano aver smarrito il bagaglio, voluminoso e pesante ma anche pieno di mistero, del disco precedente. Sembrano richiamare l’attenzione verso uno spettacolo che cerca il compromesso fra il fascino dark finalmente giunto a germogliazione e l’insopprimibile desiderio di mostrarsi permeabili ai bagni di folla. Da quel momento i Depeche Mode restano impiccati al confine fra art-rock e pop da stadio, finché morte non sopraggiunga.

 

Sulla soglia del decennio che sta per iniziare, i Depeche Mode sono in qualche modo i soli superstiti dell’ecatombe che ha scacciato il synth-pop dai gusti del pubblico e che ha costretto chi voleva sopravvivere a trovare vie di fuga alternative. Nel 1990, i Depeche Mode sono, di quella stagione, gli unici a credere ancora nella supremazia delle macchine e diventano l’ostinato baluardo di quel vecchio mondo che presagiva un progresso che poi aveva invece virato da un’altra parte. Ne pagano in qualche modo il prezzo sulla pelle e a rischio delle proprie vene. Ma per loro si aprono le porte del grande successo. Non più le nicchie dei dancefloor alternativi pieni di zombi ma i grandi stadi delle rockstar. Il processo graduale che li vede incorporare nel loro suono elementi industrial da una parte e strumentazione rock dall’altra giunge a piena consapevolezza con Violator, il disco che rappresenta l’ostinata adesione al genere ma anche l’affrancamento dalla sua prigione stilistica. La missione quasi eucaristica di Black Celebration giunge al suo compimento e con una compattezza che supera anche la statura di quel disco di cui adesso ci viene svelata la sua apocalittica profezia, con i suoni che giungono quasi ad una perfezione pinkfloydiana (la cui eco permea Clean). I Depeche Mode raggiungono la compiuta definizione del loro stile in una sorta di Aida contemporanea, con gli sfarzi del tempio di Vulcano e le oscure fauci della prigione di Radamès che si sovrappongono, come in un vorticoso proscenio mutante.

I Depeche Mode diventano in qualche modo i Michael Jackson del pop elettronico inglese, diventando come quello facili bersagli o idoli pagani. E lo fanno con un disco bellissimo.

 

Agli inizi degli anni Novanta il blues si infila dentro le macchine dei Depeche Mode.

E ha la forma di un diavolo, come sempre.

In cambio di una popolarità che si misura adesso con concerti sold-out e record di vendite, chiede di poter stare sul palco con loro.

Anche lui ha il suo ego da rockstar. E vuole provare quell’ebbrezza.

Ne parla col gruppo e trovano un compromesso: lui si trasformerà in una Gretsch White Falcon e Martin Gore lo terrà in braccio come un lattante.

Alla band sembra un buon affare.

Si stringono la mano, brindando al nuovo decennio.

Non sanno Martin, Dave, Alan e Andy che il Diavolo avanzerà pretese sempre più grosse, pur mantenendo l’accordo pattuito: i Depeche Mode diventano la band di synth-pop più popolare del mondo, valicano i confini della musica elettronica per trasformarsi di colpo nella band più influente sulle nuove generazioni di musicisti e fan del globo, dai Nine Inch Nails agli Here, dai Fear Factory a Marilyn Manson.

La loro vita artistica tocca vertici irraggiungibili, mentre le loro vite private precipitano rapidamente verso il baratro, in un preludio di Inferno che ha il gusto perverso di una ripicca diabolica.

Mai firmare una polizza sulla vita senza leggere tutte le clausole.

Quando esce Songs of Faith and Devotion, il 22 marzo 1993, la band ha già i nervi a pezzi, anche se il peggio deve ancora arrivare.

Sul disco lavorano tutti, per l’ultima volta.

Compreso il diavolo, sempre in braccio a Martin Gore.

Sarà quella presenza ingombrante che la band cercherà di esorcizzare con alcuni dei brani più intensi e spirituali che abbiano mai scritto ed interpretato.

Come Condemnation o Get Right with Me, veri e propri gospel dell’era digitale.

Il suono dei Depeche Mode, ormai sempre più lontano dalla dance sciocca ed ermafrodita di I Just Can‘t Get Enough si fa virile e truce e dilania il corpo del rock dall’interno, stravolgendo le sue matrici digitali, adattando la sua intelligenza artificiale, rimodellando il proprio scheletro di plexiglass, scoprendo che gli umani affidano le proprie sconfitte a una cosa chiamata fede e i propri successi a qualcosa che chiamano devozione.

Loro provano a guardare al cielo, alzando il capo da una fenditura della roccia che li ha inghiottiti fino al collo.

Tra le braccia di Martin Gore la Gretsch White Falcon ruggisce e latra come una chimera furiosa.

 

Se Violator era stato il disco di un drappello sopravvissuto (degnamente) all’affondamento della corazzata synth-pop degli anni Ottanta, Ultra è l’album dei Depeche Mode sopravvissuti a loro stessi e in parte resuscitati: Dave spreca nel giro di pochi mesi tre delle sue vite da gatto nero, Alan Wilder sfiora l’impatto con la morte che ha la forma di un aereo militare, Martin Gore è bruciato dalle crisi epilettiche, Andrew Fletcher dalle turbe depressive.

I labili equilibri privati si rispecchiano in un equilibrio precario collettivo con la dipartita di Alan Wilder rendendo il nuovo album orfano di una delle menti creative del gruppo. Il risultato finale è un lavoro che cerca in qualche modo di apparentarsi con le musiche dance e la decostruzione industrial dei Nine Inch Nails dall’altro. Un disco dalle atmosfere distopiche che suona come una Madchester senza l’ombra di un sorriso. Un album greve come la situazione morale richiede ma dal cui ascolto si esce stremati e moralmente devastati. Uno specchio nero che riflette le sagome pallide e ricurve dei suoi autori.

 

Dilatate le uscite, anche le atmosfere dei Depeche Mode si fanno rarefatte e a tratti carezzevoli. L’elettronica martellante lascia il posto a piccole punte di spillo, come un’agopuntura che possa curare la band dal dolore che ha attraversato e che sembra essere culminato, artisticamente, con Ultra. A volte però, capita che durante la seduta ci si possa addormentare. Ed è quello che succede, ahimè, all’ascolto di Exciter arrivati già alla quarta traccia a causa dell’anima quasi-ambient dei pezzi che seguono all’atmosferico singolo Dream On messo in apertura e che fanno tacitamente tesoro del glitch-pop che nel frattempo ha invaso il pianeta dopo le sperimentazioni dei Radiohead. A svegliarci dal torpore arriva The Dead of Night, robotizzata versione dei Depeche Mode più rumorosi cui però manca il gancio giusto per rinnovare il brand della band britannica. Poi, si precipita di nuovo in un sonno senza fine, appena turbato dall’incubo house di I Feel Loved e attraversato addirittura da oniriche immagini che ci fanno apparire in sogno gli Spandau Ballet vestiti come i pinguini di Burt Bacharach. Ma si tratta solo di Breathe, orribile piagnisteo romantico-orchestrale che inaugura l’ultima porzione di un album fatiscente.

 

Quando si ha difficoltà ad approcciarsi al futuro è spesso più conveniente tornare a guardare al passato per ritrovare la propria identità. E così dopo quell’Exciter che di eccitante aveva davvero poco, ecco i Depeche Mode riprendere in mano il vinile di Ultra e guardarlo con nostalgia. L’idea è dunque quella di tornare a quel tipo di sound ma con un ottimismo che all’epoca di quel disco era ovviamente impossibile da ottenere, nel loro laboratorio ormai devastato.

Playing the Angel riparte esattamente da quelle macerie, annunciato da un singolo come Precious che è DM al 100%. Forse riparte ancora qualche metro più indietro, dagli scintillanti anni Ottanta in cui le macchine elettroniche promettevano una libertà moderna ed infinita. La sensazione tuttavia è quella che i Depeche Mode tendano a disperdere la loro energia e a diluirla in dischi interminabili, rielaborando all’infinito formule ed idee che invece reggerebbero a malapena per la metà del tempo e che risultano sempre più slegate fra loro. Playing the Angel mostra una band imprigionata fra passato e futuro, in un presente che è una voragine incolmabile di noia ben apparecchiata.

 

Le pecche creative di Playing the Angel si fanno ancora più evidenti su Sounds of the Universe. Si tratta perlopiù di escamotage sonori che cercano di tenere a galla una creatività ormai poco lucida, un synth-pop nostalgico che si muove fra retro-futurismo e quella sorta di disco-music riprogettata in Italia dai Subsonica.

Nulla di più.

A tratti sembra di aprire una confezione scaduta dei Tears for Fears. Un vasetto di marmellata pieno di funghi e muffe che sembrano colonie di piccole creature aliene con le case a forma di ragnatela.

L’unica cosa che si salva è Hole to Feed, un piccolo mostro funk sulle stampelle che ricorda i Wolfgang Press e che mostra un briciolo di carnalità e di virulenza in questo asettico ultimo saluto all’uomo-macchina.

 

Delta Machine è lo sbocco creativo dei due dischi precedenti, il punto in cui le macchine inceppate di Playing the Angel e Sounds of the Universe in qualche modo si sbloccano. Un album che ha una sua compiutezza nonostante la compostezza formale che lo contraddistingue e il suo passo misurato. Non che non ci sia da scremare anche stavolta (pezzi come The Child Inside, Should Be Higher o quel rigurgito dell’album precedente che è Alone, per esempio, girano a vuoto inutilmente) ma complessivamente Delta Machine regge al compito che gli è stato assegnato: quello di tenere in vita con ventilazione meccanica un gruppo che ha astutamente mescolato il concetto di band con quello di brand e che dalla “moda passeggera” degli esordi si è trasformata in un marchio da atelier.

 

All’improvviso il mondo si è spostato e i Depeche Mode sono rimasti con una foglia di fico attaccata alle palle. Cercando di allungare i bordi per coprire il più possibile le loro nudità, come Adamo al cospetto di Dio.

Però, alla fine, una foglia è una foglia. E non può essere di più.

Spirit è quella foglia lì, costretta suo malgrado a camuffare la vulnerabilità di una band che tutto sommato ha realizzato il sogno yuppie degli anni Ottanta trovando un lavoro da dirigente d’azienda di tutto rispetto, riservandosi magari il sabato sera per poter fare un po’ di caciara e sudare senza l’apprensione di aver macchiato la camicia sotto le ascelle. Un “arrivismo” che è già “arrivato”, e dunque privo di sorprese se non quelle soprese grigie da ufficio. Qui ce ne giusto un paio, la migliore delle quali è So Much Love, che è summa di tutti i Depeche Mode dell’ultimo decennio, con le note sparute di chitarra, il motorik ritmico e una vaga aria da gospel western.

Il resto è roba da disbrigo pratiche, con il massimo dell’efficienza e il giusto rispetto delle scadenze. Chiacchiericcio politico da scrivania o da macchinetta del caffè. Per ingannare il tempo e, forse, anche noi.

 

La morte si è intrecciata spesso alla storia dei Depeche Mode, come un’edera selvaggia e predatrice. Fino a che è riuscita a portarsi via Fletch, il fusto che sembrava avere le radici più salde. A valle della dipartita di Andy Fletcher i due Depeche Mode superstiti si sono buttati nella realizzazione di Memento | iяoM annunciandone l’uscita con un video in cui citano la memorabile partita a scacchi de Il settimo sigillo e presentandolo in anteprima mondiale al Festival di Sanremo. Continuando dunque a giocare con la morte.

Ora, una volta ascoltato il disco per intero, mi sembra evidente che gran parte delle lodi piovute su un lavoro che è invece il paradigma di un synth-pop ormai agonizzante, sia dovuto alla suggestione generata proprio dalla dipartita del rosso Fletcher e dalla sensazione (errata) che l’album sia, per argomenti e atmosfere, una sorta di omaggio alla sua memoria. Successe anche con l’ultimo Bowie, per certi versi: molti cercarono di farselo piacere ad ogni costo, fino a riuscirci una volta deciso che era un testamento. Fosse stata una pergamena, molti lo avrebbero usato per altro. E così Memento | iяoM ti/ci costringe ad ascolti ripetuti pur di cavarne quel poco di buono che c’è (le frustate di Never Let Me Go e l’atmosfera Massive Attack di My Cosmos Is Mine ad esempio) e poter dire che “malgrado tutto” i Depeche Mode continuano a fare ottima musica, mentendo a noi stessi almeno quanto loro mentono a noi già da un po’ di anni. La musica della band in realtà si trascina sul pavimento come uno di quei cadaveri con le gambe mozzate in certi film horror, e fanno più ridere che paura.

E, si, ci ricordano che tutti dobbiamo morire.

O che in realtà siamo già morti e quelle che vagano sulla Terra sono solo le ombre delle nostre anime. E che noi stiamo assistendo ad uno spettacolo di Wayang Kulit.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

OSEES – Weirdo Heirdo (Castle Face)

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Gli Osees hanno creato la congiunzione perfetta fra kraut-rock e psichedelia, costruendo una musica onirica e spaziale, cinematica e delirante, disturbante e liberatoria. Avanza come un enorme scorpione robotico in marcia verso lo spazio, sollevando le polveri di Stonehenge e fendendo l’aria con enormi lame circolari.

Weirdo Heirdo è una lunga cavalcata cosmica spinta da un motorik crauto che si protrae per un’intera facciata del loro nuovo disco, lasciando all’annichilente dirottamento fuori orbita di Don’t Blow Your Mind degli Spiders e alla dolce e melliflua Tear Ducks che divaga e plana su grandissime distese di tastiere sci-fi il compito di riempire la seconda. Fino a che non posiamo nuovamente i piedi a terra, rimpiangendo già quell’incredibile viaggio fra le polveri stellari.   

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE rAts – In a Desperate Red (Whizeagle)

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Il numero di catalogo cresce, il countdown impresso sulla copertina decresce di pari passo: In a Desperate Red porta il conto alla rovescia dei rAts al numero 3 ma la corsa della band di Portland finisce qui, con questo album color rosso disperato che vede il suono del gruppo flettere verso il pop, sacrificando una buona dose di mordente ma scrivendo probabilmente le loro canzoni definitive che sono, in ordine decrescente come piace a loro: I Want You, Leave Me Alone, Deterioration, My Tragedy Behind, Never Say No. Sono pezzi che col punk convenzionale hanno poco a che spartire e che ricordano piuttosto certo proto-punk alla Modern Lovers mentre quando è Toody a prendere il comando delle operazioni sembra di avere davanti una versione amatoriale dei Pretenders e dei primissimi Blondie (Broken Wire Telephone e soprattutto Tremelo, forse l’apice melodico della loro produzione).

Consegnando alla storia In a Desperate Red i rAts consegnano loro stessi alla leggenda, affiancando i Wipers nella creazione del punk “fuori dal punk”, in una apoteosi del DIY eletto a legge di vita e a regola di libertà.

 

                                                                                         Franco “Lys” Dimauro

BOB MARLEY & THE WAILERS – Uprising (Tuff Gong)  

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A provare a penetrare il mercato americano con la musica reggae aveva tentato fra il ’71 e il ’73 Cool Herc, giamaicano trapiantato nel Bronx e padre dell’hip-hop tutto che l’avrebbero eletto tale per la sua “messa a fuoco” dei breakbeat della musica funk e latinoamericana cui aveva dovuto ripiegare visto l’assoluto disinteresse della comunità newyorkese verso la musica della sua terra madre. Marley avrebbe conquistato l’America a poco a poco, passo dopo passo, linea di basso dopo linea di basso, accordo skankin’ dopo accordo skankin’. Ora, con quello che sarà destinato a diventare il suo testamento spirituale, Bob Marley aveva davvero conquistato tutto e tutti. Con il ritmo pulsante di Could You Be Loved, anche le piste delle discoteche erano pronte ad abbassare il ponte levatoio e stendere un tappeto di palme sotto ai piedi del profeta dell’amore rasta.  

Uprising, ultimo atto di un Marley ormai ad un passo dalla morte, è il disco definitivo dell’artista giamaicano. E lo sarebbe stato con molta probabilità anche se non fosse stato l’ultimo in grado di registrare. Una mirabile summa della sua musica, del suo messaggio, della sua ambizione e dei suoi sogni destinati a rimanere tali. Non una sola canzone men che necessaria, nonostante le sue tante sfaccettature, con un conclusivo atto acustico, intimo e folk che ha davvero tutta l’aria di un atto di commiato definitivo ma ancora carico di speranza, di “good vibes”. Ogni canzone vibra di un amalgama unico, fiero, stiloso, drammatico ed accattivante assieme. Ogni canzone è rotonda e soda come le chiappe di una giovane donna dei caraibi che scende dalla spiaggia fin dentro le acque del mare delle Antille ma allo stesso tempo l’intreccio degli effetti applicati alle chitarre e l’utilizzo massiccio del Clavinet conferiscono a molte tracce quel suono “ferroso” che riesce ad imprigionare l’ascoltatore, ammanettandolo alla musica del Duppy Conqueror. Un piccolo scrigno di capolavori come Zion Train, Coming In from the Cold, Work, We and Dem, Could You Be Loved intrecciano i dreadlocks di Marley alle radici della sua terra in un’ultima profezia di risurrezione che impone come sacrificio necessario l’atto estremo che arriverà l’11 maggio del 1981.    

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

BREATHLESS – See Those Colours Fly (Tenor Vossa)

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L’incidente d’auto che ha portato in coma Tristam Latimer Sayer ha imposto ai Breathless di “ripensare” in corsa l’atteso disco del ritorno, con Ari Neufeld costretta a reinventarsi in qualche modo batterista, ovvero a sezionare frammenti di ritmo e a svilupparne il loop su macchina, in modo da fornire un seppur sparuto e labile gancio ritmico ai nove pezzi di See Those Colours Fly, l’album che a dieci anni da Green to  Blue arricchisce la tavola di colori della band inglese con qualche tonalità più accesa. Sintetiche e ripensate al laptop sono anche gran parte dei tappeti melodici creati e poi sviluppati da Ari durante il periodo del lockdown e della sua convalescenza medica che le ha impedito per lungo tempo di imbracciare uno strumento a corda.

Indipendentemente dalle sue peculiarità circostanziali, See Those Colours Fly è un disco che emana grande bellezza e che si muove dentro spazi infiniti e pinkfloydiani (come il fluire algido di The City Never Sleeps o quel lento meriggiare alla Red House Painters o alla Galaxie 500 che dilata il suo tempo dentro Somewhere Out of Reach), eterei e trascendenti. So Far from Love esplode invece come una sfera di pluriball che rilascia molecole di gas shoegaze decompresse ma la compostezza dei Breathless, la loro forza antigravitazionale rimane immutata. Sospesa a miglia e miglia dal suolo, la band inglese galleggia come una massa gassosa fra noi e il resto della galassia. Lasciandoci senza fiato, ça va sans dire.

                                                                                          Franco “Lys” Dimauro