COP SHOOT COP – Release (Interscope)

0

Dopo l’ecatombe industriale dei primi dischi i Cop Shoot Cop trovano una nuova forma di disciplina riadattando il loro suono catastrofico all’assetto classico di una rock band con Release, il primo (e ultimo) album del gruppo newyorkese in cui la chitarra elettrica assurge al ruolo di attrice protagonista dell’atto compositivo e non più come ulteriore elemento espressionista di disturbo dentro il caos immorale, facendo tesoro delle tecniche eversive ma funzionali di Duane Denison e Tom Morello.

Ne trae beneficio l’intero processo di scrittura che, in barba a quanti avrebbero voluto farne i paladini ad oltranza del terrorismo sonoro, si colora di mille sfumature (i contrasti fra il basso roboante e il picchiettìo del pianoforte di It Only Hurts When I Breathe sono fra le più belle architetture dell’alternative-rock degli anni Novanta) finendo anche per riesumare su Last Legs le vecchie ambientazioni da library-music italiane, immerse nella stessa dimensione plumbea ed urbana dei Naked City. Ambulance Song veste i colori sinistri tanto cari a The The, il crooner definitivo dell’era pre-atomica così come Lullaby sfoggia i toni epici della ballata decadente, Anyday Now la coda di pavone dell’anthem-punk, Suckerpunch le tumefazioni del noise-rock, The Divorce riadatta i racconti metropolitani di Jim Carroll alternando ad un malinconico giro di piano la festosità mariachi dei fiati, sotto lo sguardo severo e vigile di un basso implacabile, tipicamente anni Novanta.

E 90 fa paura, come suggerisce la Smorfia, anche quella dei Cop Shoot Cop.  

          Franco “Lys” Dimauro 

MINUTEMEN – “The Punch Line” (SST)

4

L’amore per le miniature, per gli schizzi, per le macchie di colore, per i singhiozzi, per le sincopi, per i tic, per tutto ciò che è veloce e disarticolato e che può essere riassunto nel famoso motto di Muhammad Alì “vola come una farfalla, pungi come un’ape” e per cui i californiani Minutemen sono ricordati a posteriori e con cui segmentano l’hardcore a loro contemporaneo viene rappresentato nei diciotto nodi scorsoi di “The Punch Line”, il posto dove punk e funk si scambiano l’iniziale tanto repentinamente che non riesci mai a cogliere il momento esatto in cui l’una ha avuto la meglio sull’altro e viceversa. Quello del terzetto di San Pedro è un suono tarantolato. Ogni round dura un minuto o poco meno. Qualcuno chiuso anzitempo per KO. Il diciannovesimo neppure giocato, per mancanza di avversari. Tutto l’incontro, continuando con le analogie boxistiche, si gioca e si registra in una sola notte. Anzi, in un solo quarto d’ora. Uno spicchio di orologio, e via.

Musicalmente parlando, in una sola session. Poco meno di otto spregiudicati minuti per ogni facciata.

Ad ogni canzone viene apposto un timbro altrettanto austero, spartano, severo: Ruins, Fanatics, Search, Issued, Games, Boiling, Static, Warfare, Gravity, Tension, Monuments, Disguises. Macchie di calda ceralacca a sigillare quegli sputi di un minuto che sono il tempo massimo concesso all’esposizione di un concetto in piena epoca hardcore.

Search ce li presenta già come dei Talking Heads con la schiuma alla bocca ma il disco, nella sua lettura più immediata, è una cornucopia di bocconi punk/funk che verranno rimasticati e diluiti in pietanze più digeribili da una miriade di band crossover negli anni Ottanta, primi fra tutti i Red Hot Chili Peppers degli esordi. Molto spesso per un pubblico che non sapeva neppure che i Minutemen erano mai esistiti.   

 

                                                                      Franco “Lys” Dimauro

VIEWS – Homo Dust and Bumps (autoproduzione)

0

Durante il 2020, con la pandemia che ha allentato ed inacidito i rapporti sociali, i Views hanno invece nuovamente annodato il loro vecchio legame. Al riparo per due mesi in sala prove e in uno studio di registrazione per un paio di settimane hanno prima provato e poi registrato i sette brani di Homo Dust and Bumps, il qui ed ora di una delle migliori band italiane degli anni Ottanta. Un guitar-rock aspro e sanguigno, che è in qualche modo erede della tradizione di Lou Reed, di Tom Verlaine, dei Rain Parade e dei Dream Syndicate senza essere schiavo di alcuna. Un disco che sin dall’introduttiva e apparente acquiescenza di Night So Dark mette in mostra una band dal suono compatto ma stratificato, onirico e perverso, caramellato al petrolio e voluttuoso. Blandamente oppiaceo come il papavero di copertina, passionale come il rosso che ha scelto fra la gamma dei colori possibili. Seducente come i vecchi dischi che stanno lì a prendere polvere sui nostri scaffali e a cui torniamo di tanto in tanto a chiedere una carezza.

Ottenendola.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE RIDICOLOUS TRIO – Plays The Stooges (Modern Harmonic)

0

Tuba, trombone, batteria e un set di canzoni degli Stooges. Che poi è, insomma, quella somma di cose che vedete in copertina. Ed il risultato è meno “ridicolo” di quanto il terzetto che ne è artefice voglia lasciar credere.

Certo, per nulla essenziale, questo si. Ma diciamo che francamente con gli Stooges c’è chi ha fatto roba più inutile pur usando il classico schieramento da rock band, pensando magari di far chissà cosa. Qui, si tratta di un divertissement che però non ha per nulla lo spirito della parodia o della destrutturazione feroce alla Naked City, se è quello cui state pensando. La struttura delle canzoni del terzetto di Detroit rimane praticamente intatta, però piegata alle esigenze strumentali del trio, in una replica perfettamente sovrapponibile alle originali, con il trombone impegnato in una divertente imitazione dei rantoli e dello “sfiato” della balenottera Iggy che sembrava dovesse morire da un momento all’altro e che invece si trasformò nella creatura immor(t)ale più longeva di sempre.     

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SCIENTISTS – Negativity (In the Red)

0

Nel laboratorio degli Scientists si lavora a pieno regime sulle malformazioni del blues e sull’infezione da carbonchio che ne viene. Senza guanti, senza mascherine, senza riserve di ossigeno, senza nessuna volontà di trovare una cura.  

Altre undici canzoni blues scritte fuori dai margini del foglio. Altre undici canzoni a loro modo inquietanti e deformate come la foto di copertina di Negativity. E negative come il titolo, va da sé.

Nelle mani degli Scientists il blues subisce lo stesso oltraggio che subiva nelle mani degli Stooges (andatevi qui a sentire, senza indugiare oltre, Safe, NdLYS) o di Martin Rev (la prima sagoma assassina che incontrate sull’iniziale Outsider ma in cui vi imbatterete anche in altre parti del disco). Un serpente dalla testa velenosa che si struscia sul seno di Lydia Lunch, fino a spurgarsi dal veleno spruzzando come un membro eretto nell’atto di eiaculare. Immagini feroci e neo-industriali da cui ci distoglie, a ¾ del disco, la sequenza di I Wasn’t Good at Picking Friends e di Moth-Eaten Velvet. Un dissociato garage-rock schiacciato tra due mura di suono, uno di stampo spectoriano, l’altro figlio diretto dei Sonic Youth il primo, una morbida ballata velvetiana la seconda che deve essere un po’ come aprire la finestra per cambiare l’aria e guardare uno spicchio di cielo blu fra le polveri di lana di vetro che ormai ci saturano gli occhi e le narici.

                                                                           

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

AFRICA UNITE – People Pie 2021 (Believe Digital)

0

In attesa di dare alle stampe ufficiali Numeri, il loro nuovo disco, gli Africa Unite celebrano il ventennale di People Pie sputando sulle piattaforme digitali la versione risuonata di quello che fu l’ultimo disco in lingua inglese della band di Torino che proprio con quel disco e con dieci anni di attività già sulle spalle, si affermava come la più importante realtà del reggae tricolore. Musicalmente non ci sono stravolgimenti, solo una potenza di suono decuplicata rispetto all’originale versione del ’91, e là dove sembrava di guardare l’orizzonte affascinante ma piatto delle isole caraibiche, qui sembra davvero di tuffarsi nel profondo blu delle sue acque, in virtù di una tridimensionalità che rende finalmente giustizia a pezzi come Mr. Racist o Madadub. Il lavoro di “ristrutturazione” si è ovviamente spostato dallo storico Spliff a Dada di Pinerolo al Dub the Demon Studio di Luserna San Giovanni, ormai da anni il nuovo tempio sonoro di Madaski. Per chi ha perso familiarità con gli Africa Unite(d) che cantavano ancora nella lingua di Marley un ripasso a Politics, U Man Right, Cheap Trash Trinkets, Rasta Soul è d’obbligo. Gli altri imparino in fretta.   

 

Franco “Lys” Dimauro 

MIGHTY CÆSARS – Thee Cæsars of Trash (Milkshakes!)

0

Da modesto batterista all’epoca del “reclutamento”, Graham Day assume in breve tempo il ruolo di polistrumentista, tanto da garantire a Thee Cæsars of Trash oltre che una solida, per quanto minimale, base ritmica, anche il vezzo di aggiungere armonica a bocca, organo elettrico e addirittura un flauto all’interno di strutture che rimangono tuttavia primitive ed essenziali come nella tradizione trash del Medway-sound di cui Billy Childish fu evangelico profeta. Il repertorio continua a masticare l’osso dei riff kinksiani su It’s You I Hate to Lose per poi rifare il verso alle/i versacci delle garage-bands su capolavori cisposi come Don’t Break My Laws, Devious Means e I’ve Been Waiting e anticipare, con True to You, il garage-rock malinconico e cagionevole degli Allah Las di cinque lustri buoni.

L’essenzialità e lo spirito più crudo del rock ‘n’ roll issati a vessillo dei Cesari.      

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro  

PAUL WELLER – Fat Pop (Volume 1) (Polydor)

0

Già all’annuncio dell’uscita, il titolo Fat Pop mi aveva portato alla mente gli Happy Mondays e devo dire che l’attacco del nuovo disco di Paul Weller ha confermato questo inspiegabile collegamento sinaptico, cui aggiungerei il Bowie degli anni Novanta, anche lui alla ricerca di un perenne rinnovamento stilistico e di un ostinato riadeguamento della sua cifra stilistica. Realizzato “a distanza” con i suoi musicisti, Fat Pop mette in mostra le mille anime del musicista inglese e i suoi svariati interessi musicali che lo portano a pisciare un po’ ovunque, per marcare il territorio anche dove non gli compet(irebb)e. L’atmosfera è scostante, con una meraviglia pop anni ’70 (con tanto di flauto alla stregua dei Jethro Tull) come Testify piazzata precisa in centro e tutt’intorno tanto soul, tanto ma proprio tanto Bowie come già detto, un paio di ballate gravi, un paio di rock ‘n’ roll quasi bubblegum e quell’irritante glam elettronico alla Dandy Warhols di Cosmic Fringes che resta fortunatamente orfano, schiacciato dal peso di questo pop grasso e dall’obbligo di sentirsi moderno ad ogni costo.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BOB DYLAN – Another Side of Bob Dylan (Columbia)

0

Se con The Times They Are a-Changin’ e The Freewheelin’ Dylan si era imposto come cronista della strada, abilissimo paroliere ecumenico e visionario profeta apocalittico con Another Side il chitarrista americano (che qui si accosta anche, timidamente, al pianoforte) scopre la dimensione personale che verrà sviscerata anche in altri passaggi successivi lungo la sua interminabile carriera. Lo fa appassionatamente ma senza prendersi troppo sul serio, tanto che lo si sente ridere mentre intona con un goffo tono yodel All I Really Want to Do, già in apertura di album. Come se stia prendendo in giro non solo la destinataria del suo messaggio ma pure noi spettatori della consegna. L’impianto sonoro rimane identico a quello dei dischi precedenti, anche se la voce sembra ancora più sgraziata del solito. Volutamente più sgraziata del solito.

Ma siamo già all’alba di un mutamento epocale: è come se Bob Dylan si volesse scansare da quel polo magnetico che aveva catalizzato su di se le attenzioni di un pubblico immenso che gli si era radunato addosso (l’ennesimo presagio, proprio un attimo prima del diluvio byrdsiano che stava per investirlo in pieno) ma che si scontrava stranamente con il polo affettivo la cui calotta andava in pezzi, lasciandolo sempre più solo e del cui tormento sente adesso l’esigenza di cantare (il lungo naufragio emotivo di Ballad in Plain D).    

  

                                                                       Franco “Lys” Dimauro

LEIGHTON KOIZUMI with TITO AND THE BRAINSUCKERS – Power Hits! (Improved Sequence)

0

La vicenda artistica dei Morlocks sfuma in almeno due fasi della carriera di Leighton Koizumi in quelle che sono le sue collaborazioni con Tito Fabio Macozzi e i suoi Brainsuckers. Sono incontri frequenti che spesso sfociano in qualche session in studio, talaltre no. Progetti discografici a volte realizzati, talvolta abortiti come nel caso dei Jaws of Terror o messi in piedi solo per girare qualche locale prosciugando le scorte di birra alla spina dei locali come nel caso dei Seducers (dal cui repertorio di cover acustiche proviene quasi certamente la bella If You Could Read My Mind di Gordon Lightfoot che chiude la scaletta).

Sodalizio umano prima che artistico che torna far friggere le casse in piena estate 2021 con Power Hits!, il doppio vinile che non potrete ascoltare in auto e neppure in spiaggia e che documenta le session che sfoceranno in When the Night Falls del 2004 e quelle che dieci anni dopo, a ridosso delle dodici date del When the Night Falls tour 2013 avrebbero dovuto rappresentare la seconda sortita discografica della ditta Koizumi/Brainsuckers. Sono canzoni scavate nel cuore di Leighton come graffiti nella selce: Born Loser, Get Out of My Life, Woman, You Mistreat MeCry in the Night e altre scritte per l’occasione (Teenage Thugs, I Know You Cried) o ripescate nella valigia delle cose essenziali del rock ‘n’ roll che i due si portano dietro da decenni, come nella cover di No No No che ci dà modo di ascoltare il cantante californiano alle prese con la nostra lingua o in quella nefanda versione dell’empia Good Times dei Nobody’s Children che da sola giustifica il prezzo di copertina o come la bellissima e originale versione di Touch degli Outsiders con un insolito sassofono frat-rock a barrire al posto dell’armonica a bocca di Wally Tax e Leighton a cantare in modalità crooner come un Iggy Pop appena uscito dalla caverna.

Voi uscite dalla vostra per toccare con mano l’ultima leggenda vivente del garage-punk.  

 

                                                                             Franco “Lys” Dimauro