THE CYNICS – Rock ‘n’ Roll (Get Hip)

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Era da tempo fuori stampa il terzo disco dei Cynics, veterani garage-punkers da Pittsburgh, Pennsylvania: quello che centrò la meta della perfezione estetica e sonora della band di Gregg Kostelich, dopo il debole debutto e il quasi-perfetto Twelve Flights ÜpRock ‘n’ Roll dosava alla perfezione il classico folked-punk del gruppo, con questo strumming impetuoso e tormentato dal fuzz che pure sembrava sgranarsi e respirare tra le sferzate di Farfisa e cimbali che gli straziavano la pelle. Bella e come sempre raffinata la scelta delle covers (Last Time Around dei Del-Vetts e Cry Cry Cry degli Unrelated Segments cui viene ora aggiunta ora Shot Down dei Sonics) e incredibile la sequenza degli originali, tra cui svettava la scattante Girl You‘re on My Mind scritta da Bernie Kugel dei Mystic Eyes. In attesa dell’incombente nuovo album, non perdetevi questa perla per nulla al mondo.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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CCCP FEDELI ALLA LINEA – Epica Etica Etnica Pathos (Virgin)  

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All’alba del nuovo decennio ecco arrivare Epica Etica Etnica Pathos che diventa l’epitaffio della band ed ha tutta l’aria di un disco di un “collettivo”, più ancora che quello di un gruppo.

Alla fine del secondo piano quinquennale, finita l’Unione Sovietica, i CCCP implodono su se stessi consegnando se stessi alla storia e firmando il proprio testamento che è in parte, anche umano. Ringo De Palma, il batterista trasfuga dei Litfiba che è stato accolto dai CCCP (come del resto Francesco Magnelli e Gianni Maroccolo, qui non solo comprimari ma autori, con Zamboni, di quasi tutte le quindici canzoni dell’album) per questo loro nuovo, elaborato, progetto, muore infatti solo pochi giorni dopo aver posato le sue bacchette sul rullante dopo la registrazione di Annarella, stroncato da una overdose.

Muore la Russia e con essa i CCCP e il punk filo-sovietico.

Epica Etica Etnica Pathos è il lavoro che converte definitivamente la musica dei CCCP alla tradizione, convergendo verso la forma-canzone che sarà poi glorificata nei C.S.I. (ma non solo, visto che Amandoti e Annarella verranno poi celebrate con grande successo da Gianna Nannini e La Crus).     

Un disco di musica popolare.

Nazional-popolare addirittura.

Nell’accezione dei CCCP Fedeli alla Linea, che citano Caterina Caselli e il Canto dei Sanfedisti e  rielaborano la musica tradizionale delle campagne italiane evocando le immagini e le ombre dei braccianti del Sud e delle mondine del Nord, che sposta il “sole nascente” ad Occidente e apre ai nuovi interessi del gruppo, che prenderanno forma compiuta proprio negli anni successivi nei progetti Maciste Contro Tutti, Matrilineare, C.S.I., Mondariso, P.G.R., Stazioni Lunari.

L’urgenza degli inizi è del tutto mitigata, “sfumata” dalla pace della vita rurale e contadina cui la band si abbandona durante le registrazioni.

Ora, in quella casa colonica perduta nella campagna reggiana, gli strumenti tornano a suonare come dei veri strumenti, senza svendere l’anima.

È un album doppio che di punk non ha più nulla se non nell’intenzione di frantumare il passato, di rompere gli argini, di uscire dagli striminziti limiti del punk “ortodosso”, con pezzi elaborati che sfiorano e a volte addirittura superano i dieci minuti.

Una raccolta di musica bucolica, pastorale, contadina, campestre, etnica e partigiana che se da un lato sembra tradire le iniziali e ormai lontane origini punk, dall’altro si riannoda in maniera abile e adulta alle tematiche da sempre care al gruppo padano (il “maledirai la Fininvest, maledirai i credit cards” rinnova l’immolato sacrificio al Dio capitalista già invocata al grido “Produci! Consuma! Crepa!”, il misticismo soave e gioioso di Paxo de Jerusalem torna alle preghiere di Libera Me Domine e Madre, l’individualismo amaro e disilluso riattualizza il sisma affettivo pre-apocalittico del “muore tutto, l’unica cosa che vive sei tu” declamato su Allarme, il pianto arabo di Al Ayam riconduce alle terre di mezzo già raccontate su Radio Kabul e al muezzin di È vero così come il “Cittadine, Cittadini” ricorrente su Aghia Sophia non può non richiamare alla mente le chiamate all’adunata sediziosa di Compagni, Cittadini, Fratelli, Partigiani, di CCCP e di Manifesto).

Ci lasciano senza lasciarci davvero, i bolscevici padani.

Un po’ più di carne.

Un po’ più vulnerabili.

Un po’ meno rossi.

Un po’ meno guerriglieri.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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THE BEATLES – Let It Be (Apple)

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Dopo aver affrontato insieme ogni rivoluzione degli anni Sessanta, i Beatles si affacciano al nuovo decennio da soli. La copertina di Let It Be li ritrae per la prima volta (ad eccezione della sequenza cinematografica di A Hard Day‘s Night) separati.

Infatti, quando il travagliatissimo parto giunge a compimento, l’8 maggio del 1970, i Beatles non esistono più. Ne’ come unità, ne’ come realtà disgiunta.

Concepito con l’intento di fare dietro front dalla ricerca musicale che aveva generato i capolavori della seconda metà degli anni Sessanta e tornare all’essenzialità delle origini, Let It Be è un disco in cui tutta l’urgenza giovanile dei primi dischi è ovviamente spenta, trasformata in una sequenza di musica rassicurante. Sedati ogni ardore, ogni veemenza, ogni sfacciataggine, i Beatles diventano definitivamente un affare per adulti. Ecco perché, ancora oggi, se chiedete a un cinquantenne quale sia l’album migliore dei dischi dei Beatles molto probabilmente vi risponderà indicandovi questo. Ecco perché un sedicenne non ve lo nominerebbe mai.

Non è un disco orfano di belle canzoni. Nessun disco dei Beatles lo è.

È un disco orfano dei Beatles.

Phil Spector, chiamato a sciogliere il bandolo della matassa di un disco che nella sua semplicità ha, paradossalmente, la complicatezza di un quadro di Escher, viene convocato in veste di produttore ma in realtà si trova a doversi improvvisare medico legale. Molto del materiale, soprattutto quello poi passato direttamente alla storia (Let It BeAcross the UniverseGet BackThe Long and Winding Road), ha infatti, nella sua maestosità tediosa, il respiro corto di un malato agonizzante.

Let It Be si concede con mesta rassegnazione all’ordinarietà fiacca dell’età adulta.

I fantastici quattro offrono il loro primo sacrificio alla morte.

Morendo da soli, in un giorno qualunque.

Lasciando che sia.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro   

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SLEATER-KINNEY – The Hot Rock (Matador)

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22 febbraio 1999: eludete appuntamenti ed impegni di lavoro, schivate potenziali contrattempo o compagnie sgradite, fate scorta dial vostro “benzinaio” di fiducia e mettetevi le calze pulite: riapre il ristorante Sleater-Kinney.

Attenti però: se state pensando di sedervi al tavolo sicuri che stavolta soddisferete solo il vostro olfatto ma non il palato rimarrete verosimilmente delusi, visto che il menù delle signorine Kinney ci riserva ancora delle eccellenti portate. Certo, dopo il ricco cenone di due anni fa, nel loro locale si sono seduti un po’ tutti e ai vecchi clienti si sono aggiunti anche loschi imprenditori convinti di poter trasformare quel localino ricco di odori ruspanti e selvaggina allo spiedo in un take away saturo di cibi precotti e bibite sgasate.

Ovvio che il timore che l’ufficio gestione del locale di Olympia si lasciasse abbindolare da certe promesse di facili guadagni fosse lecito ma vi assicuro che dopo 40 minuti di assaggi alzerete le vostre chiappe dalle sedie pienamente sazi ed appagati, pronti per il rito del caffè e dell’ammazzacaffè.

Poco o nulla è in realtà cambiato veramente: le cameriere sono ancora nervose ed isteriche (Memorize Your LivesThe End of You, Banned for the End of the World) se non addirittura epilettiche (Get Up) ma pronte a rimediare alle macchie di sugo sulle vostre cravatte (The Size of Your Love) con grande eleganza.

E anche se a volte si ha la sensazione di masticare un piatto riscaldato (Don’t Talk Like) non prendetevela con lo chef: quegli avventori in giacca e cravatta hanno lasciato il locale senza neanche fare un assaggio e tanta abbondanza non andava comunque sprecata.

 

Franco “Lys” Dimauro

THEE HEADCOATS – Headcoatitude (Shakin’ Street)  

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Arruolatosi negli Headcoats sotto il grado di Tenente Colonnello, il fu Billy Childish adesso Sir William Allucius St. John-Childish continua per tutti gli anni Novanta a bombardare il cielo di Londra con i suoi raid aerei, scaricando tonnellate di polvere da sparo garage-beat e facendo piovere dal cielo vecchie carcasse di carri armati e di artiglieria arrugginita prelevata da qualche deposito bellico ormai in disuso.

Headcoatitude è un eterno, infinito, appassionato omaggio al beat da due accordi dei Downliners Sect e dei primi Kinks. Nulla che vada oltre l’essenziale. Childish continua a non fare sconti sulla merce che ha nello sgabuzzino, fosse anche ormai buona solo per la discarica. Quel che gli avanza, lo usa per il riciclo: come nel caso della Our Little Rendezvous usata per My Dear Watson, con i mastini di Baskerville ad addentare i polpacci dei malcapitati o del riff di All Day and All of the Night utilizzato per puntellare il capannone degli attrezzi di It’s Gonna Hurt You.

Dopo la Regina, Sir Childish si conferma l’istituzione più duratura della storia d’Inghilterra.  

           

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

DANZIG – II: Lucifuge (Def American) 

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Egregiamente prodotto da Rick Rubin, Lucifuge è un disco di blues sabbathiano dove si rifugiano un po’ tutti, da chi è stato svegliato dal fragore di Appetite for Destruction e non è più riuscito a prendere sonno a chi, dopo Sonic Temple, si sente tradito dai Cult, da quelli che si ostinano a credere che Jim Morrison debba per forza di cose essersi reincarnato in qualche altro cazzo di cantante, a chi pensa che Elvis avesse stretto comunque col Diavolo l’analogo patto vergato dai bluesmen del Delta e debba dunque essere finito all’Inferno, da chi si aspettava che i Gun Club avrebbero alla fine suonato così, fieri e mascolini, una volta stinti i capelli ossigenati di Lee Pierce e da chi si aspettava che Nick Cave avrebbe salutato gli anni Ottanta con un disco di erezioni metal invece che con una saudade brasiliana.  

Nonostante la trucida corazza metallara e il cantato ridondante del leader, Lucifuge è un disco che mostra, oltre ai pettorali di Glenn, una sua attrattiva in virtù di uno stile potente e suggestivo, pregno di ogni richiamo alla musica “del diavolo”, dalle dodici battute del blues al gotico britannico di Cult e Sisters of Mercy passando per l’hard rock ossianico dei Sabbath e dei Black Widow (come pure dai Dictators, il cui memorabile riff di The Minnesota Strip viene letteralmente “scuoiato” per Snakes of Christ, NdLYS), le chitarre devote al Dio Caprone di Page (le slide di 777) e Hendrix (la dive bomb del boogie inaugurale Long Way Back to Hell), simbolismi esoterici, richiami al mondo dell’horror mai tradito da Glenn.

Esattamente dieci anni dopo Back in Black, si torna giù all’Inferno.

Prendete posto.

Tra un po’ arriva un nuovo carico di dannate, e allora si che ci si diverte.   

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE NOMADS – Big Sound 2000 (White Jazz)

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La seconda primavera dei Nomads prosegue con Big Sound 2000, uscito per l’etichetta che nel volgere di qualche stagione è diventata sinonimo di rock scandinavo, ovvero la White Jazz. Il nuovo lavoro della formazione di Solna è un disco che riannoda i legami con il garage punk più di quanto si possa immaginare. Pezzi come Going Down SlowAin’t Yet DeadAnother Man’s Cross sono totalmente imbevute di trielina sixties e uniscono i vapori elettrici degli Electric Prunes con quelli tossici degli Stooges mentre altri pezzi come Some Other CrimeWorst Case ScenarioThe Good StuffScreaming Don’t Pull My Strings coniugano in maniera esemplare il party-rock dei Fleshtones, lo street rock and roll dei Chesterfield Kings, il punk spectoriano dei Ramones e quello trasversale dei New Christs in una pastiglia di Lemmon 714 capace di rendere effervescente anche l’acqua stantia di una pozzanghera. 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

SOUTH FILTHY – Crackin’ Up (Licorice Tree)  

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Monsieur Jeffrey Evans è uno che ha posato le chiappe sui migliori dischi di roots music americana degli ultimi venti anni. E non parlo di mediocre country-rock da tappezzeria ma di hillbilly ispido e bastardo. ‘68 Comeback, Workdogs, Gibson Bros., Bassholes, Oblivians: Jeffrey ha flirtato praticamente con il meglio della scena country radicale lasciando gli aculei della sua barba sui palchi di mezza America. Uno che sa scrivere canzoni come The Searchers e Ran Out of Run andrebbe infilato nella storia della canzone americana con tutte le calze. Sono i due episodi migliori di questo disco di covers che coinvolge gente come Eugene Chadbourne e Earl Poole Ball (il primo piano honky tonk sui dischi di country rock fu il suo, studiate bambini…NdLYS) nel recupero di gemme sbieche di Doc Watson, Howlin’ Wolf, Bo Diddley ma anche gli Hickoids e Mott the Hoople. 

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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CHEAP WINE – Crime Stories (autoproduzione)

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Squadra che vince, non si cambia. Forti di questo adagio, e dell’orgoglio di aver conquistato l’America rivendendole la sua stessa merce (che è un po’ come se un rom facesse i miliardi da noi vendendo spaghetti sul suo camper, NdLYS), i Cheap Wine si ripresentano con un disco che è l’esatto proseguio di Ruby Shade, nonchè degli altri due che li hanno perceduti. Identica formazione, stessi studi di registrazione, analogo team, conforme scelta di autoproduzione, pari ostinazione nelle proprie scelte stilistiche. Eppure per la prima volta qualcosa sembra non funzionare a regime e si ha la sensazione che la band si sia un po’ adagiata, mostrando i limiti di un suono fin troppo ossequioso che, malgrado riservi ancora belle scosse (Coming Breakdown, con quell’attacco che mi ricorda i perduti Rebels Without a Cause, Waitin’ for a Fight, Castaway le migliori del lotto), si compiace un po’ troppo finendo per appiattirsi in un’omogeneità che non giova all’ascolto (Behind the Bars, Looking for a Crime, Tryin’ to Lend a Hand si riflettono un po’ troppo, Temptation sceglie un percorso criptico che non le si confà) e che alimenterà le critiche di chi già non vede di buon occhio la coerenza cocciuta e la passione autentica che alimentano il gruppo dei fratelli Diamantini. Se solo si fossero voluti un po’ meno bene…. 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

SWERVEDRIVER – Raise / Mezcal Head (Second Motion)

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La Creation fu l’etichetta-chiave del noise pop inglese, questo dovreste saperlo come la tabellina del due. Quelle furono le officine dove la musica inglese forgiò la sua estetica post-post-punk adattando le ombre lunghe della sbornia dark-wave allo scintillio delle chitarre, cercando di nascondere il nero con un sudario di rumore bianco. La Creation fu il primo approdo degli Swervedriver, venuti fuori da Oxford un secondo dopo i Ride e un attimo prima dei Radiohead. Il punto di partenza erano stati gli Stooges, visti attraverso i finestrini appannati dei vans di Dinosaur Jr, Hüsker Dü e Buffalo Tom. Il recinto shoegazing dove li costrinsero a rimanere mansueti in attesa di farli esibire in qualche rodeo era in realtà sono la vetrina più comoda per vendere un suono che si allattava ai capezzoli del rock sfregiato dall’elettricità e dalla distorsione, soprattutto in un periodo (il triennio 91/93) in cui i Nirvana erano i signori assoluti della scena mondiale e il rock inglese avrebbe dovuto aspettare gli Oasis per riaccendere su di sé i riflettori.

Resta l’amaro in bocca per quello che agli Swerves fu negato di diventare e il piacere di riscoprire il sapore di una band che sognava di infilare le My Bloody Valentine nel letto di Iggy Pop.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro