All’alba del nuovo decennio ecco arrivare Epica Etica Etnica Pathos che diventa l’epitaffio della band ed ha tutta l’aria di un disco di un “collettivo”, più ancora che quello di un gruppo.
Alla fine del secondo piano quinquennale, finita l’Unione Sovietica, i CCCP implodono su se stessi consegnando se stessi alla storia e firmando il proprio testamento che è in parte, anche umano. Ringo De Palma, il batterista trasfuga dei Litfiba che è stato accolto dai CCCP (come del resto Francesco Magnelli e Gianni Maroccolo, qui non solo comprimari ma autori, con Zamboni, di quasi tutte le quindici canzoni dell’album) per questo loro nuovo, elaborato, progetto, muore infatti solo pochi giorni dopo aver posato le sue bacchette sul rullante dopo la registrazione di Annarella, stroncato da una overdose.
Muore la Russia e con essa i CCCP e il punk filo-sovietico.
Epica Etica Etnica Pathos è il lavoro che converte definitivamente la musica dei CCCP alla tradizione, convergendo verso la forma-canzone che sarà poi glorificata nei C.S.I. (ma non solo, visto che Amandoti e Annarella verranno poi celebrate con grande successo da Gianna Nannini e La Crus).
Un disco di musica popolare.
Nazional-popolare addirittura.
Nell’accezione dei CCCP Fedeli alla Linea, che citano Caterina Caselli e il Canto dei Sanfedisti e rielaborano la musica tradizionale delle campagne italiane evocando le immagini e le ombre dei braccianti del Sud e delle mondine del Nord, che sposta il “sole nascente” ad Occidente e apre ai nuovi interessi del gruppo, che prenderanno forma compiuta proprio negli anni successivi nei progetti Maciste Contro Tutti, Matrilineare, C.S.I., Mondariso, P.G.R., Stazioni Lunari.
L’urgenza degli inizi è del tutto mitigata, “sfumata” dalla pace della vita rurale e contadina cui la band si abbandona durante le registrazioni.
Ora, in quella casa colonica perduta nella campagna reggiana, gli strumenti tornano a suonare come dei veri strumenti, senza svendere l’anima.
È un album doppio che di punk non ha più nulla se non nell’intenzione di frantumare il passato, di rompere gli argini, di uscire dagli striminziti limiti del punk “ortodosso”, con pezzi elaborati che sfiorano e a volte addirittura superano i dieci minuti.
Una raccolta di musica bucolica, pastorale, contadina, campestre, etnica e partigiana che se da un lato sembra tradire le iniziali e ormai lontane origini punk, dall’altro si riannoda in maniera abile e adulta alle tematiche da sempre care al gruppo padano (il “maledirai la Fininvest, maledirai i credit cards” rinnova l’immolato sacrificio al Dio capitalista già invocata al grido “Produci! Consuma! Crepa!”, il misticismo soave e gioioso di Paxo de Jerusalem torna alle preghiere di Libera Me Domine e Madre, l’individualismo amaro e disilluso riattualizza il sisma affettivo pre-apocalittico del “muore tutto, l’unica cosa che vive sei tu” declamato su Allarme, il pianto arabo di Al Ayam riconduce alle terre di mezzo già raccontate su Radio Kabul e al muezzin di È vero così come il “Cittadine, Cittadini” ricorrente su Aghia Sophia non può non richiamare alla mente le chiamate all’adunata sediziosa di Compagni, Cittadini, Fratelli, Partigiani, di CCCP e di Manifesto).
Ci lasciano senza lasciarci davvero, i bolscevici padani.
Un po’ più di carne.
Un po’ più vulnerabili.
Un po’ meno rossi.
Un po’ meno guerriglieri.
Franco “Lys” Dimauro