BREATHLESS – Three Times and Waving (Tenor Vossa)  

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Siamo nel 1987. L’anno in cui anche la vecchia guardia del post-punk inglese si è ormai compromessa abbondantemente con il mercato. L’anno dei Cure di Why Can’t I Be You? e Hot Hot Hot!!!, dei Banshees di The Passenger, dei New Order di True Faith. I Breathless, arroccati nel loro ancestrale castello privato, difendono invece le mura di un suono “a placche” con Three Times and Waving, con nove macchie di mercurio fuso che scivolano su un piano di vetro, seguendo le inclinazioni dell’asse, espandendosi e rimpicciolendosi a formare piccoli grumi molecolari pronti a scollarsi ad ogni nuovo sussulto.

Sono canzoni che rifiutano di farsi imprigionare, quelle dei Breathless. Canti pagani e sciamanici che ricordano la solenne grevezza dei Dead Can Dance. Ma c’è, in questo loro secondo disco, un’ispidezza che se non è del tutto nuova, è di certo più marcata (Say September Sings, Dizzy Life, Three Times and Waving) rispetto al passato. Come di un paradiso inquinato e invaso dalla gramigna, se riuscite a rendere concreta un’immagine simile. Perché in fondo nessun posto è del tutto refrattario alla barbarie.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Nick Cave Heard Them Here First (Ace)  

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L’idea non è del tutto nuova. Ci aveva già pensato la Rubber Records, più di quindici anni fa, a “setacciare” fra le canzoni che hanno ispirato le nefandezze di Nick Cave e dei suoi comprimari. La Ace Records torna adesso sull’argomento per il nuovo volume (il quarto) della sua collana Heard Them Here First. Nonostante la “replica”, i doppioni rispetto alla scaletta dei due volumi di Original Seeds sono limitati a meno di una dozzina di canzoni, due delle quali (Hey Joe e The Big Hurt) proposte qui peraltro in interpretazioni diverse. Il canzoniere spazia dalla John the Revelator di Blind Willie Johnson alla Disco 2000 dei Pulp coprendo più di sessantacinque anni di musica maledetta lungo ventidue tracce che Mr. Caverna ha avuto l’occasione di reintepretare in occasioni e con compagnie diverse anche se il nocciolo duro del disco è rappresentato dall’ormai trentennale album di cover Kicking Against the Pricks” dalla cui scaletta vengono qui scelte Muddy Waters, Hey Joe, Hammer Song, The Long Black Veil, Jesus Meets the Woman at the Well e Something‘s Gotten Hold of My Heart. Un lavoro di recupero che ha indubbiamente il suo fascino anche se sarebbe ancora più morboso e dunque patologicamente più affine all’autore australiano e ai suoi fanatici ascoltatori sparsi per il mondo poter avere fra le mani una mastodontica enciclopedia audio delle innumerevoli canzoni che Nick ha fatto sue lungo la sua sterminata discografia.   

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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ZAKARY THAKS – It‘s the End (Big Beat)  

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L’ennesima e definitiva raccolta degli Zakary Thaks, la leggenda garage-punk di Corpus Christi. Per il contenuto innanzi tutto visto che contiene tutti gli ormai straconosciuti (dai fanatici del Sixties-punk, si intende) classici della band (ma andando pure a pescare dal repertorio del Fabulous Michael Taylor, il leader dei rivali Bad Seeds che registrò queste tracce con i Thaks come band) ma pure per la bella intervista al gruppo illuminante su tutto il percorso artistico di una delle più gloriose formazioni texane dei mid-Sixties. Dalle origini surf alle ultime derive quasi Fogertyane del 1969 passando ovviamente per i formidabili singoli del biennio ‘66/’67 che li hanno eletti ad emblema del garage punk più insolente. Bad Girl e Won‘t Come Back sono due convulsioni da scarica elettrica pubblicate tra l’agosto del 1966 e il giugno dell’anno seguente.  

Da sole, valgono tutto il disco.

Da sole, valgono quanto molti dei dischi che avete in casa.

In mezzo ai due singoli, c’è Face to Face. Dall’andamento più ordinato ma satura di distorsioni. Nessuno pare crederci fino in fondo, finchè il pezzo non scalza Rolling Stones, Beatles, Supremes e Buffalo Springfield dalle charts locali regalando al gruppo la miglior soddisfazione artistica della propria carriera.

 

Il cambio ai vertici della J-Beck Records avvenuto nella primavera del 1967 coincide invece con la ricercatezza di arrangiamenti del quarto singolo, registrato ad Aprile e pubblicato alla fine dello stesso anno. Mirror of Yesterday è una ballata impreziosita dall’orchestrazione della Houston Simphony Orchestra mentre Can You Hear Your Daddy‘s Footsteps? ha un curioso andamento trionfale pur riesumando il suono fuzz dei primi singoli, amplificandolo ulteriormente con l’uso di condotte plastiche attaccate ai coni degli amplificatori. All’arrivo del nuovo anno Chris Gerniottis passa tra le fila dei Liberty Bell mentre Pete Stinson viene chiamato per il servizio di leva, cosicchè il singolo successivo vede i Thaks ridotti a trio, esibendosi in versione “light” anche a fianco degli Steppenwolf in uno dei gig che, a causa dei disastri tecnici, si rivelerà uno degli episodi peggiori della loro carriera.

Il rientro di Gerniottis tra le fila degli Zakary Thaks viene celebrato con un ultimo, trascurabile singolo e un nuovo look da bravi ragazzi che non porta tantissima fortuna agli ex-capelloni, tanto da decretarne la fine.

La storia, per intero, è ora qui. Aggiornata alla sua versione definitiva, ovvero fino alla  dipartita di Rex Gregory e Stan Moore. Recuperando per l’occasione, ovviamente, la bella She‘s Got You pubblicata come singolo proprio dalla Big Beat mesi fa. A suggello di una storia che non potrà tornare. Come tutte le storie migliori.    

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE MONSTERS – Youth Against Nature (Voodoo Rhythm)

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Youth Against Nature certifica l’avvenuta filiazione dei Monsters al garage-punk con parziale sconfessione dal vecchio psychobilly. Abiura che non può che essere parziale per un inevitabile sconfinamento dovuto al comune riferimento alla musica-spazzatura degli anni ‘50/’60 e alla sottocultura trash/horror cui i due generi, almeno nell’accezione dei Monsters, amano guardare con occhio ludico e perverso.

Ecco dunque che certi riverberi, certe “sgasature”, certi ritmi voodoo, gli accordi fuzzati ma anche l’irriverenza volgare e hooligan di molti pezzi finiscono per stare perfettamente al confine fra il vecchio suono e il “nuovo” sound dei Monsters, altrettanto sporco, approssimativo, nefando e molesto quanto il primo.

Beat-Man aggiunge altri demoni alati alla sua pinacoteca mentre i bambini giocano nei giardini luminosi e curati della soleggiata Svizzera.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PETE ROSS AND THE SAPPHIRE – The Boundless Expanse (Beast)  

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L’obiettivo probabilmente è spiazzare i fan. Oppure saziare il proprio incontenibile desiderio di ricerca. Fatto è che i Sapphire continuano a mutare pelle ad ogni disco. Stavolta in maniera davvero ambiziosa. 

The Boundless Expanse è, ne’ più ne’ meno (e in maniera manifesta), un concept album. Uno di quei dischi verbosi e prolissi di cui facemmo scorpacciata e indigestione tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio seguente. Qualcosa che ha più di un riferimento con piccole glorie prog della patria di Ross come Taman Shud, Autumn, Kahvas Jute e che riesce a scalare  vette di pacchianeria in qualche modo sublime (Gossamer). Va un po’ meglio quando Pete sembra voler riprovare a tirar fuori il lato più roots della sua indole (Are We Leaving? ad esempio ammazzata però da un bridge inconsistente e da un piano Rhodes che si crede un Hammond e invece avrebbe fatto bene a restare zitto) ma è un fuoco di paglia.

Quel che dovrebbe essere nelle intenzioni, ovvero un tentativo di confrontarsi con un modo di sperimentare con la musica libero dai compromessi della “pop-song”, crolla in un oceano di banalità e tedio di cui francamente non avvertivo alcun bisogno. Voi si?  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

  

THE 99th FLOOR – Teen Trash # 9 (Music Maniac)  

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Nel 1993, dopo aver pubblicato alcuni dischi seminali della scena neo-garage (il secondo sofferto album degli Unclaimed, gli album dei primi Fuzztones, i lavori dei Vietnam Veterans, la storica raccolta dei Droogs), la tedesca Music Maniac lancia sul mercato la sua collana Teen Trash, ovvero una sorta di Trans-World Punk Rave-Up dedicata ai gruppi che, in tutto il pianeta e nonostante il calo di interesse dovuto in larga parte all’emergere della scena grunge e crossover, difende ancora il verbo del sixties-punk. Ad avere l’onore di difendere la frangia tricolore vengono convocati, in ordine sequenziale, gli Others di Roma, i piemontesi 99th Floor e i toscani Strange Flowers.

Nati a Torino nel 1989 da un’idea di Paolo Messina e Marco Rambaud, i 99th Floor assumono l’assetto definitivo raccogliendo tra le proprie fila Luca Re che ha appena “ibernato” il progetto Sick Rose rifugiandosi in Germania per un decennio e che con Paolo ha l’opportunità di rispolverare il mai sopito amore per il garage degli anni Sessanta cui la sua vecchia band ha appena girato le spalle con Renaissance. Accanto a loro ci sono Simona Ghigo che poi seguirà Paolo nel progetto Acid Lemon e Walter Bruno che invece diventerà in seguito il bassista dei “rinati” Sick Rose. Quattordici i brani proposti sul loro volume di Teen Trash, di cui ben undici accreditati alla coppia Luca Re/Mario Scrivano. Nonostante l’ombra lunga del “Re” e malgrado l’omaggio reso dal nome della band a una delle leggende del punk texano, il repertorio dei 99th Floor risente solo marginalmente della lezione dei Sick Rose (il refrain di Stop & Try che pare voler esplodere in quello di Can You Find Me a Place o la Things They Told Me Yesterday che pare ricominciare dov’era finita Don’t Keep Me Out ad esempio, per tacere della “palestra” inaugurale affidata alla Bad Day Blues ma esclusa da questo album) andando a setacciare territori sfiorati solo marginalmente dall’altro gruppo piemontese come il folk-punk e il dutch-beat  e concedendosi spazio pure per un esilarante numero da primati come Jungle Stomp. I “must” del disco sono Better Follow My WayNever More, la The One Looking for di cui sarebbero andati orgogliosi i Thanes, la cover dei Tasmanians e l’inaugurale Too Many Times ma l’esordio dei 99th Floor, per intero, resta uno dei migliori dischi di debutto della scena neo-garage italiana dell’intero decennio.       

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

SIOUXSIE AND THE BANSHEES – Kaleidoscope (Polydor)

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Dopo essersi chiuso addosso la pietra tombale di Join Hands, quel che resta dei Banshees mette fuori un disco come Kaleidoscope, album che sin dal titolo rende manifesta l’idea di sbarazzarsi dalla greve e plumbea corazza del disco precedente e di cedere alla lusinga dei colori e della policromia stilistica. Una scelta parzialmente voluta ma in larga parte vincolata all’esigenza di dover supplire all’abbandono di Kenny Morris e di John McKay. Non avendo nessuna panchina degna di tale nome, il tour di supporto a Join Hands viene chiuso con l’aiuto zoppo di una drum-machine e della chitarra di Robert Smith dei Cure. Per il terzo album la formazione trova invece un nuovo assetto con l’ingresso di Budgie delle Slits e John McGeoch dei Magazine: poker!

Kaleidoscope è disco di rodaggio per la nuova formazione, e si sente. È un album frammentario, dove accanto a pezzi dalla fisionomia pop-dark definita (Happy House, Christine, Paradise Place) pare di incontrare degli abbozzi di canzoni non ancora sviluppati (Tenant, la lunga e piagnucolosa Hybrid, la gelida Lunar Camel dove pare di sentire i Banshees rifare i Nouvelle Vague e non viceversa, l’inconcludente Clockface su cui si sente pesante la mano di Nigel Gray, produttore dei primi tre album dei Police, la languida Desert Kisses).

Kaleidoscope è un disco sfiatato, un caleidoscopio di colori stinti.

Il tetro castello di Siouxsie non ispira più orrore e sgomento ma la compassione dolorosa di chi si trova davanti a una bellezza fatiscente e grottescamente restaurata per sobillare gli idioti.     

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro  

SONIC ASSASSIN – State Is Enemy, Forever!!! (Freak Show)

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Lungo e accidentato è il percorso artistico che segna la nascita dei Sonic Assassin. Un albero genealogico che affonda le radici negli A-10. Molte cose sono successe attorno a loro ma la loro fede nel più selvaggio Aussie-sound è incrollabile come documenta questo loro “ennesimo debutto”.

I santini sull’altare sono sempre gli stessi, così come i luoghi deputati al culto: Detroit e l’Australia dei primi anni Ottanta su tutti. Dalla loro i Sonic Assassin ci mettono una classe inarrivabile sviluppata attorno ad un suono potente e roccioso nella ritmica quanto supersaturo nelle orge chitarristiche, forgiato lungo anni di totale dedizione a questo tipo di patrimonio genetico.
Per chi non dorme la notte senza ascoltare prima un pezzo dei Birdman o degli MC5, un obbligo.

                                Franco “Lys” Dimauro

 

THE CURE – Japanese Whispers (Fiction)

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L’uscita dal tunnel nero della trilogia scura dei primi anni Ottanta ha per i Cure la luce abbagliante e stroboscopica della svolta dance e tenerona dei singoli pubblicati tra l’ottobre del 1982 e il novembre dell’anno successivo frutto delle strategie di mercato del deus-ex-machina della Fiction Chris Parry e della crisi artistica seguita alla rottura con Simon Gallup culminata con la cancellazione del 14 Explicit Moments Tour e il temporaneo split della band.

I tre singoli, poi raccolti dentro un unico album dalla copertina rassicurante, sono paradossalmente mille miglia distanti dai climi torbidi e raggelanti degli album precedenti, sono tre atti dissacratori e profanatori che come tale vengono accolti dai vecchi fan del gruppo e che invece sono i camuffamenti necessari a Smith e ai suoi soci per scappare via dagli angusti tunnel della depressione. Sono proprio canzoni sornione come The Lovecats e marce per synth come The Walk e Let’s Go to Bed a nascondere (sulle B-sides dei tre singoli) le bombole di ossigeno che servono alla band per non affondare nelle acque profonde di Faith e Pornography e riaffiorare in superficie.

Robert Smith, il salice piangente, sceglie di non morire vergine.

Anzi, di non morire affatto.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

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THE WILDEBEESTS – Gnuggets (Dirty Water)    

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Vi chiedevate quando sarebbe mai uscito il 13° volume delle Nuggets?

Be’, eccovelo: sono le Gnuggets.

Dodici anni di singoli infilati uno dietro l’altro come le perline delle collanine hippie per gli eredi naturali del trash rock dei Mighty Cæsars.

Dodici anni e sfido oGNUno di voi a datare correttamente ciascuno di questi 33 pezzi.

Nessun algoritmo vi verrà in aiuto, nessun indizio acustico potrà facilitarvi il compito.

I Wildebeests viaggiano dentro una capsula ermetica che il tempo non può neppure scalfire, una palla da bowling da sei libbre lanciata con misurata precisione sui loro bersagli preferiti: Link Wray, Willie Dixon, Eyes, Rolling Stones.

Ma qui dentro ci sono pure Stooges, Public Image, Devo, Heartbreakers, Clash e una bellissima cover di She Lives dei 13th Floor Elevators, tutti calpestati da questa mandria di GNU.

Pepite di garage rock ignorante, legnoso e fracassone, totalmente de-evoluto ed incivile. Roba che hai già avuto in mano cento volte ma che ogni volta ti fende le pareti dello stomaco come se inghiottissi una pietra lavica.

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

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