FEDERICO FIUMANI – Brindando coi demoni (Hellnation Libri)  

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Non so quanto sia voluto o quanto casuale ma ad un certo punto, a pagina 89, Federico Fiumani volge al femminile pure Italo Svevo.

Comunque sia, è sintomatico della sua passione/ossessione per l’altro sesso che è tratto dominante della sua poetica e, dunque, anche uno dei temi fondamentali della sua biografia, entrambe abitate da nomi, volti, cosce, tette, piedi e buchi del culo di donne. Sono alcuni dei “demoni” con cui Federico brinda su questo suo secondo libro pubblicato a suo tempo dalla defunta Coniglio Editore e appena ristampato e ampliato dalla Hellnation, divisione libri. Gli altri sono Fiumani padre e Fiumani figlio, che spesso Federico è il demone di se stesso. Ma anche Alberto Pirelli, Tom Verlaine, Mauro Valenti e tanti altri. Ci sono tutti coloro dei quali il leader dei Diaframma ha voluto raccontarci qualcosa, regalarci un ricordo o un aneddoto velenoso, rivelarci un segreto, ammonirci con una citazione, svelare un’ammirazione tacita o palese. I Litfiba, i Neon, Bigazzi, Miro Sassolini, i CCCP, Paolo Conte, la Contempo, Sanremo, l’auditorium FLOG, il MEI, Marco Masini, i Karma, i Mondo Candido, gli StudioDavoli, i Beach Boys, Cristina Donà e tantissimi altri. Buoni e cattivi o spesso entrambe le cose dentro lo stesso corpo.

L’autobiografia di Fiumani non è discorsiva ne’ cronologica ma è coerente con il suo percorso di musicista, con le sue scelte estetiche e con i tormenti personali che ne hanno ispirato la scrittura. Si muove a scatti, a brandelli di memoria, segmentata, spezzettata, confusa e sfacciata. Come i pensieri che anticipano il sonno e che a volte si trasformano in sogni. Sono pensieri a volte un po’ perversi e che dunque assecondano il bisogno del lettore, che in genere si avvicina alle autobiografie con lo sguardo del voyeur, cercando proprio di scrutare tra le perversioni e non certo fra il candore dei suoi miti.

E dunque si, potete avvicinare il vostro occhio al buco della serratura di casa Fiumani, con o senza l’ausilio dei suoi dischi, anche se sarebbe preferibile la prima opzione. Dipende spesso dal modo che scegliete per togliervi addosso la sporcizia. Doccia e bagno hanno la stessa identica funzione, dopotutto. Eppure, non sono per nulla la medesima cosa. E almeno questo dovreste saperlo anche senza trovarlo scritto da nessuna parte.     

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE ACID LEMON – Introducing (Teen Sound)

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Simona Ghigo e Paolo Messina dei 99th Floor si ritrovano a scodinzolare intorno alla salma del sixties-sound e a condividere l’effimero progetto degli Acid Lemon. Un disco passato quasi inosservato che è invece un miracolo di garage-punk made in Italy. Organo Farfisa a manetta e una sventagliata di suoni di chitarra effettata stringono il cerchio tra la psichedelia visionaria degli Electric Prunes, l’elettricità squilibrata delle band texane e il freakbeat di sartoria inglese. Aromi pungenti e canzoni dal tiro micidiale come No More, I’ll Be Gone e I Can See fanno di Introducing uno dei più bei dischi neo-garage di sempre e ci rendono ancora una volta fieri di essere italiani e orgogliosi di poterlo dimostrare al mondo sventolando un disco al posto di una bandiera.  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

shame – Songs of Praise (Dead Oceans)

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Ad un mese esatto dalle mediocri “songs of experience” degli U2, arrivano le rissose “songs of praise” degli shame a rincuorarci se non sulle sorti del rock, ormai inevitabilmente glissato in una sorta di infinito revival del revival, sul fatto che l’energia della giovinezza ne sia un elemento essenziale per veicolarne il linguaggio. Il debutto degli shame è un album di ottimo neo-post-punk, con la giusta dose di rabbia messa al servizio di chitarre che ricordano quelle apocalittiche dei Killing Joke e di un basso in vetroresina come quello dei Protomartyr, avvolta come una bobina rame attorno al nucleo toroidale dei Wire. Con molta enigmaticità in meno, cosa che potrebbe garantire al gruppo londinese, grazie a pezzi come One Rizla e Friction, la spinta giusta per farne una grande attrazione per i palchi dei festival di mezza Europa. E magari noi saremo nella metà giusta per cantarle assieme a centinaia di migliaia di altri giovani vecchi.

                                   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WEDGE – Killing Tongue (Heavy Psych Sounds)

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Il secondo disco dei tedeschi Wedge era uno degli album più attesi in ambito retro-rock degli ultimi anni in virtù di un debutto eccezionale e di un’attesa protratta fino alla soglia dei quattro anni e che ora viene finalmente saziata con un’uscita discografica preludio ad un nuovo tour europeo che toccherà generosamente anche il nostro paese. Rituali, quelli discografici e quelli concertistici, che sono un eterno, ossequioso ed esaltante omaggio all’epoca in cui il rock lanciava in aria fuochi d’artificio e tutti stavano a guardare col naso all’insù.

Gli anni dei Grand Funk, dei Free, dei Deep Purple, degli Atomic Rooster, dei Santana, dei Mountain, degli Who. Di quel rock maestoso che aveva ormai rotto la crosta rock ‘n’ roll che lo aveva protetto alla nascita e che adesso avanzava già con passi da rettile gigante. Un po’ come quello disegnato da Kiryk Drewinski (vocalist/chitarrista della band ma anche uno dei migliori grafici sulla piazza europea) sulla retro-copertina di questo Killing Tongue, lavoro che non delude quelle attese di cui parlavo in apertura.

I Wedge si confermano custodi di un’idea del rock sicuramente superata ma sempre vivida. Muoversi tra i loro riff è un po’ come aggirarsi fra le casse di un rigattiere, scivolare dentro il labirinto della memoria e attendere che l’adrenalina ne riempia il disegno come una striscia di mercurio. Oppure, se preferite gli ambienti all’aria aperta, è come camminare su un sentiero che costeggia le montagne più alte del rock aspettando che da un momento all’altro possano franarci addosso. Cosa che in effetti avviene, soprattutto quando nella seconda metà del disco massi hendrixiani (Alibi) e rocce sabbathiane (Who Am I?) si scaraventano dall’alto e si trascinano a valle.  

Per chi avesse bisogno di riferimenti più recenti, potremmo definire i margini della loro proposta chiamando alla mente i primi Wolfmother da un lato e la band dell’ex Corvo Nero Chris Robinson dall’altra e affiancando loro qualche colosso del giro Tee Pee come Kadavar o Atomic Bitchwax.

Ecco, se conoscete uno solo dei luoghi descritti, saprete trovarvi a vostro agio dentro la musica dei Wedge. Se invece inseguite a tutti i costi la novità per saziare il bisogno liquido di essere al passo coi tempi, è ovvio che questa non sarà la vostra crociera migliore.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

REFUSED – The Shape of Punk to Come: A Chimerical Bombination in 12 Bursts (Burning Heart)  

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La Svezia non vanta una tradizione punk eccellente e, nel genere, nessun disco imprescindibile eccetto uno: si intitola The Shape of Punk to Come, esce nel 1998 e lo realizzano i Refused, consegnandosi alla storia (non ho comprato nessuno dei libri sul punk di cui sono infestate le librerie e che sono stati osannati dai colleghi compiacenti ma sono certo che il loro nome, se quei libri valgono almeno la metà del prezzo che chiedono, sarà lì dentro, NdLYS).

Non so quanti di voi lo abbiano ascoltato, quel disco lì. Ma se avete amato alla follia Relationship of Command degli At the Drive-In che gli è successivo di un paio d’anni o se avete in casa l’intera discografia dei Fugazi, dovreste dargli un ascolto. Quelli successivi verranno da sé. Se invece per voi il punk degli anni Novanta erano i dischi di Green Day e Blink-182 beh, tenetevi quelli.

The Shape of Punk to Come riesce a contaminare l’hardcore più “canonico” dei primi due dischi dei Refused generando un grande capolavoro di punk progressivo. Che è un ossimoro messo lì proprio volutamente, non come le minchiate scritte senza cognizione di causa su Rockol. Senza rinnegare la vocazione al massacro, i Refused si rimettono in discussione, interrogandosi sul futuro allargano gli orizzonti del punk tutto con una risposta netta e decisa. Passano correndo su quel campo pieno di mine anti-uomo e si fanno saltare in aria.

Fregandosene dei cartelli di divieto imposti dalle comunità punk e hardcore, spesso più intransigenti ed inflessibili del bigottismo che vorrebbero combattere, i Refused fanno quel che vogliono e come vogliono. Prendono la parte viva del corpo punk e  gli innestano dentro filamenti elettronici, falangi jazz, placche di metallo e protesi rumoriste per creare un nuovo ominide capace di reggere adeguatamente il fardello del loro dissenso e del loro messaggio anticapitalista che poi verrà sviluppato in altre forme non meno appariscenti dagli (International) Noise Conspiracy, creando tra “le forme del punk a venire” una delle più credibili e sicuramente una delle più debordanti.

Sarà il sabotaggio a renderci liberi. Gettate un masso tra gli ingranaggi.         

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

NEGAZIONE – 100% (We Bite)  

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La Enne E la doppia Effe A. Ma in quel periodo è la J, la E e la doppia F.

Per 100% i Negazione cambiano l’ennesimo batterista e stavolta è il giovanissimo Jeff Pellino, poi diventato appunto Neffa. L’avamposto è coperto dal solito terzetto Tax/Zazzo/Marco Mathieu. Alla produzione, come per il disco precedente, Theo Van Rock. 100% mette a (ferro e) fuoco quanto già espresso su Little Dreamer e ancora una volta, mi si perdoni il provincialismo, esprime il meglio di sé nelle tracce cantate in italiano lasciando intendere come forse quello di “internazionalizzare” la loro musica sia stato un azzardo evitabile, un’ambizione legittima che però ha leggermente piegato la band verso un’omologazione ai canoni esteri che ne ha sfumato le caratteristiche. Che invece escono prorompenti su Parole e Brucia di vita, facendoceli sentire ancora “nostri”, pur senza amare i campanili e neppure i trofei. E sembra, ma potrei sbagliarmi, che la band medesima riconosca sé stessa in maniera più nitida, senza filtri, senza forzature, senza troppe devianze metal anch’esse necessarie per conquistare i campi elisi del rock d’oltralpe e che invece invadono il campo su gran parte del disco (Get Away, Yesterday Pain, Welcome (to my world)). Che è 100% Negazione ma anche in minima parte negazione dei Negazione.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE FALL – 458489 A Sides (Beggars Banquet)

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Magari avete voglia di partire alla scoperta dei Fall.

E magari, verosimilmente, non sapete da dove cazzo partire.  

Trentadue album in studio più annessi e connessi metterebbero soggezione a chiunque. Figurarsi se state partendo di corsa, perché i link sulla morte di Mark E. Smith vi impongono, se non l’amore, quantomeno la curiosità.

Perché non è vero che vanno via i migliori. Andiamo via proprio tutti, anche i peggiori. Anche quelli cui il culo piace ma non ne hanno mai leccato uno.

Quelli che non stringono la mano a nessuno, perché con le mani ci si pulisce il sedere e un po’ di quella merda, quando te le porgono, ti resta sempre appiccicata addosso.

Quelli che non ridono mai fuori dalle mura di casa. E quando lo fanno, hanno un’espressione buffa, mai divertita. Che il mondo merita una linguaccia, non una fossetta sulla guancia. Quelli come me, quelli come Mark Edward Smith. Morto nei pochi mesi che nella vita si è sempre concesso tra un disco e l’altro. Una piccolissima pausa che stavolta ha voluto regalare alla morte.

È morto mentre le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse toccano il punto di allerta più alta dal 1984, proprio l’anno da cui prende il via questa raccolta di singoli che si chiude nel 1989.

Gli anni in cui i Fall avrebbero potuto arrivare nelle classifiche, se solo Mark avesse sorriso di più. Se solo sua moglie Brix si fosse spogliata un po’ di più.

E invece non ci finirono. Nonostante canzoni come Big New Prinz o Hit the North e cover mostruose di pezzi come Mr. Pharmacist e Victoria. Nonostante una cosa sudicia ma vestita con gli abiti più puliti del guardaroba di casa Smith come Hey! Luciani, uno dei dieci singoli inglesi più belli di sempre.  

Non ci finirono allora e non ci finiranno adesso, nonostante le visualizzazioni su YouTube destinate a prosperare per qualche giorno a ridosso della sua morte, motivate da una nostalgia che a Mark farebbe ribrezzo, e che torneranno presto alla galleggiante indifferenza di sempre.   

Però voi potete davvero iniziare. Non è mai troppo tardi per conoscere i Fall, per conoscerli veramente. Cominciando da qui, che vi viene facile facile.

Ciao Mark. Insegna a Dio a non avere pietà.

                                                                                       Franco “Lys” Dimauro

THE BELLRAYS – Punk Funk Rock Soul Vol. 2 (U&Media)  

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Eccola, l’attesa portata dopo l’assaggino estivo dell’EP Punk Funk Rock Soul.

Ormai da anni i BellRays hanno fatto il “grande salto” che ha portato il loro nome dai magazine votati al rock ‘n’ roll più zozzo a recensioni entusiaste su un giornale per panzuti impiegati di banca col pallino del rock come Classic Rock sacrificando il loro lato più lurido per un soul/rock un po’ di maniera, rimanendo ciò nonostante un gruppo da salvare. Certo, col passare degli anni sono un po’ diventati i Blues Brothers di se stessi, con buona pace per i treni voodoo e i blues per Godzilla che infestavano i primi dischi, anche se il titolo sembra voler celebrare quella mistura già celebrata quasi venti anni fa sul bellissimo split con gli Streetwalkin’ Cheetahs.

Tanto per sgombrare subito il campo da eventuali dubbi su un ritorno alle radici, diciamo subito che del punk che apre la lista scelta come titolo non c’è neppure l’odore. Come del resto non si respira nessun puzzo funk. Si tratta dunque essenzialmente di soul music suonata con la classica, asciutta strumentazione rock “di base”: basso-chitarra-batteria e, ovviamente, la voce della Kekaula ormai così “avanzata” rispetto agli strumenti che sembra di vedersela girare per casa. E magari fosse. D’altro canto tutta l’intera infrastruttura è ormai così ben calibrata che i BellRays potrebbero benissimo passare in prima serata e far battere le manine a tre generazioni di familiari coi culi affiancati sul divano di casa.

Però i BellRays non oltrepassano mai la soglia del cattivo gusto e, lacca o meno, non si riesce a voler loro del male, anche perché alla fine qualche bel brano lo azzeccano sempre (in questo caso Bad Reaction, Man Enough, l’insolita Now ma anche lo spudorato soul-pop da classifica di Brand New Day che, se fossero state affidate alle mani di Rob Younger, Tim Kerr o Mike Mariconda sentireste scoppiarvi le micce nello sfintere) e alla fin fine familiari e vicini di casa non vengono a tirarti giù la porta di casa quando alzi il volume per sentirlo da sotto la doccia. Pensando alla carne di Lisa K, magari.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

HOODOO GURUS – Crank (Zoo Entertainment)

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La copertina anticipa di un lustro buono l’iconografia hot-rod di una label come la Gearhead tradendo il desiderio della band australiana di attirare l’attenzione di un pubblico affascinato dal suono roccioso e grasso di certo highway-rock.

La scelta di un sound più muscoloso inaugurata con Magnum Cum Louder e proseguita con Kinky’ è dunque più che uno sfizio temporaneo. Cosa ribadita dalla scelta di affidarsi, per Crank a un personal trainer come Ed Stasium. Roba come Form a Circle, I See You e il singolo Right Time sono in effetti quanto di più duro inciso fino a quel momento dai Gurus. Eppure, nonostante le alterazioni cui la band decide di sottoporre il proprio repertorio, la classe nello scrivere enormi power-songs dalla presa immediata rimane ineffabile così come solo deformati dai volumi risultano i riferimenti a band come Flamin’ Groovies, Fleshtones, Big Star piazzati lungo il disco e dentro piccole, meraviglie bubblegum come Crossed Wires, Gospel Train, Hypocrite Blues (con Steven dei Redd Kross alla voce), The Mountain.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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