MASSIMO VOLUME – Cattive abitudini (La Tempesta Dischi)

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Le cattive abitudini sono come i vizi per i lupi. Tornano, se non a conquistarti, ad irretirti e sedurti. Tornano pure, con la loro scorta di vecchie abitudini, i Massimo Volume. Con un disco pregnante e seducente che ci porta in dono la bellezza non deturpata dal tempo che è pregio della poesia e scudo alle bestemmie.

Sono canzoni di un’aspra dolcezza, quelle di Cattive abitudini. Un guanto di crine che nel tentativo di squamare la pelle vecchia, butta via anche la nuova. Canzoni col corpo di nutria, galleggianti in un rivolo di acque ingannevolmente placide, pronte ad inghiottirti alla minima frana subacquea.

E sono storie su cui l’ombra del disinganno si proietta sempre a forma di falce sui protagonisti grandi e piccini della loro narrazione, a volte solo evocati, a volte citati espressamente da un titolo o da una frase.

Il clima del disco è generalmente votato alla mitezza e alla cupezza da racconto noir, tanto da far risaltare ancora meglio le sferzate di Litio (un nuovo capolavoro di nostalgico rancore racchiuso dentro un’armatura math-rock) e di Fausto, che pure stringono la forbice che li separa dai Marlene Kuntz e il Santo Niente. E tuttavia, è un atto celebrativo pregno di fascino, di ammiccante inquietudine, di fecondo servizio alla memoria del passato e alle sevizie che ha lasciato in eredità al nostro presente.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PETER CASE – Wig! (Yep Roc)  

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Ci sono artisti che hanno sette vite come i gatti.

Peter Case, per quanto ne so, ne ha avute almeno tre.

E Wig! è l’inizio della terza.

Un disco bellissimo, ruvido e ruggente.

Realizzato assieme a Ron Franklin dei South Filthy e D.J. Bonebrake degli X, il primo album realizzato da Case dopo l’intervento a cuore aperto è un omaggio appassionato all’hoedown, al rock ‘n’ roll e al blues. Un disco quasi alla Tav Falco, per capirci. Suonato dal lato sbagliato della strada o sulla riva sbagliata del fiume se preferite.  

Pianoforti barrelhouse, chitarre riverberate e sordinate in stile Black Keys, armonica, qualche percussione alla New Orleans, qualche arpeggio alla Byrds come quello bellissimo di The World in Red e un drama-blues finale come House Rent Party rendono non solo giustizia alla storia di Peter Case ma a quella di tutta la musica americana. Alla prossima vita, Peter.   

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

PETER PAN SPEEDROCK – We Want Blood! (People Like You)

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Hanno fatto otto album credo, almeno tanti ne ho io.

E sono praticamente tutti uguali. Veloci, assordanti, violenti.

Qualcuno lo chiama rumore e storce il naso, altri la chiamano attitudine e li osannano. È sempre la stessa vecchia storia. Del resto con una band così non è che ci siano vie di mezzo. Se ti piace farti stordire da un’infernale valanga di riff suonati come se avessi la volante alle calcagna qui ci sguazzi che è un piacere e ti fai nemico tutto il vicinato.

Se viceversa il tuo modello sono le CocoRosie o anche la solita band di fighettini vestiti da Pignatelli già hai sbagliato recensione, cazzo ci faresti a comprarti un disco così?

Peter Pan Speedrock è una raffica di mitra sparata da tre balordi su un’auto in fuga.

Diretti da questo inferno a un altro. Del resto, come dicono loro in chiusura…Hell Is Where It‘s At. Per oggi mi sa che non vi conviene andare in Banca, babbioni. 

                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE CHESSMEN – Collection 1964-1966 (Regenerator)

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Non quelli texani (I Need You There) e neppure quelli di Forth Wayne (You Can’t Catch Me), non quelli di Baby Weemus e neppure quelli dell’Ontario, questi Chessmen qui venivano da Vancouver e realizzarono quattro singoli tra il dicembre del 1964 e l’aprile del ’66 che dalla locale CFUN venivano trasmessi in altissima rotazione accanto alle hit di Beatles, Stones, Presley, Manfred Mann e Dave Clark Five. Altrove invece i Chessmen rimasero degli emeriti sconosciuti nonostante aprissero per gli eroi dell’epoca come i Beach Boys o Roy Orbison.

Ma di gruppi capaci di infilare un bel numero alla Shadows (Meadowlands, ispirata a una polka russa), una ballata per lo struscio durante il ballo di fine anno (The Way You Fell, dal secondo singolo) o un energico beat alla Blues Magoos (Love Didn‘t Die) all’epoca ce ne sono davvero tanti e l’oblio alla fine ingoia tutti, Chessmen compresi. Un plauso comunque a Larry e Jamie della Regenerator per aver riaperto questi scrigni e avermi fatto scoprire un Gravedigger V vecchio di 45 anni come There‘s No Blood in Bone.

 

Franco “Lys” Dimauro

 

THE HENTCHMEN – The Hentchmen (Dirty Water)

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A Detroit non ci si annoia mai, anche mentre i grandi mammiferi della zona sembrano andati in letargo. Così, in attesa che White Stripes, Go e Dirtbombs tornino a dare segni di vita ecco riapparire gli Hentchmen, che incidevano già prima di tutti gli altri e che, tra un disco dei Paybacks e una collaborazione coi Detroit Cobras, sono arrivati al loro ottavo disco, forse il migliore in assoluto, quello che grazie all’ appeal pop di pezzi come Iron Pimp, Alladin‘s Castle, Bottled Up o Knocking at My Door potrebbe tranquillamente chiudere su loro la cerniera abbassata negli anni passati dalla Blues Explosion o dai Black Lips facendoli approdare alla corte di Pitchfork e dei blog che fanno tendenza senza di fatto tradire l’originale spirito garage che scorre copioso dentro ogni loro canzone. Qua dentro ne trovate dodici per cui vale ancora la pena alzare il volume.  

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

MY SLEEPING KARMA – Tri (Elektrohasch)

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Raccontare la Bhagavad Gita per immagini mute. È un po’ la missione dei My Sleeping Karma e dei loro esercizi di yoga musicali. Uno space-rock da allucinazione mistica, circolare e odoroso di incenso.

Li immagini coi capelli fino alla schiena e dei camicioni di lino e invece scopri che fisicamente sembrano una band math-rock di Chicago. Però hanno questo suono che sembra scorrere sul letto del Gange e di cui la lunga Brahama, nei suoi inaugurali 7’37” di trasformazioni, racchiude già tutto il magico mistero.

Ora liquido, ora roccioso, il suono dei MSK agisce come un’enorme calamita mesmerica concedendosi a scorci di quieta contemplazione meditativa (Parvati, Vishnu, le folate di synth di Sattva) vicine al rigore dell’Holger Czukay di Plight and Premonition e liberandosi altrove in crescendo elettrici memori delle stratificazioni sassose di Explosions in the Sky, Isis e Warlocks così come dei deserti kyussiani.

Una shaarika che lancia folgori e siede sul tetto del mondo.

           

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

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THE HANGEE V – Minus One/Old Shadow (Groovie) / THE LIARS – Salvation/Can’t Stay Away from You (Area Pirata) / THE ROUTES – Do What‘s Right by You/Love Like Glue (Dirty Water) / THE DUSTAPHONICS – Burlesque Queen/Tornado (Dirty Water) / AA. VV. – The Wildest Things in the World (Boss Hoss) / THEE PIATCIONS – Time E.P. (A Giant Leap) / ROLLERCOASTER – Unfinished Business E.P. (A Giant Leap) / THE MAHARAJAS – Sucked into the 70‘s (Crusher) / THE FLIGHT REACTION – Flying Colours/A Broken Heart – Won’t Give In/I Lost You (CopaseDisques)

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Mi piacciono i singoli. Dentro c’è spesso quella miccia che, allungata e stiracchiata per i “metraggi” degli album, perde a volte tutto il suo livore. 

E poi, ti obbliga a frequentare il tuo stereo. Un singolo non lo metti lì “a ruota” mentre fai le faccende di casa o cerchi di aggiustare la tua casa che va a pezzi come la tua vita. Non ti permette di andare a grattarti le palle. Devi stare lì, nei pressi.

Perché dopo due o tre minuti dovrai essere pronto a rigirare il tuo bel dischetto e rimettere a posto la puntina. Ai tanti che vogliono evitarsi questa fatica, cerchiamo di dare qualche motivo in più per tirare su le panze dalle scrivanie e dalle poltrone andando a spulciare tra le ultime uscite europee in formato ridotto.

È la spagnola Groovie Records di Lisbona a mettere il timbro sul nuovo 7” degli italiani Hangee Five, ormai da anni una garanzia per la custodia dei suoni sixties più criptici e riverberati.

Minus One è uno strumentale dalla classica progressione surf sullo stile degli Chantays con un tocco spiritato sullo stile dei Roemans o degli Enchanters 4.

Sul lato B Old Shadow si muove tra frustate di fuzz, urla isteriche e mazzate di batteria mostrando l’altra faccia del gruppo sardo, quella più legata al sixties punk maledetto e demente. Le analogie con la Judgement Day degli Esquires sono evidenti e non taciute.

Dalla sponda opposta del Tirreno, esattamente da Pisa, provengono i Liars.

Alessandro Ansani e Pierpaolo Morini fanno musica, questa musica, da quando molti di voi si ciucciavano il dito. Andrea Salani, il “nuovo” batterista, da quando vostra madre ciucciava altro, prima di addomesticarsi alla vita coniugale.

Se i nomi di Putrid Fever e CCM vi dicono qualcosa, dovreste aver capito.

Ora che tornano tutti ma proprio tutti, tornano anche loro e onestamente mi sembrano molto più motivati di tanti altri. Salvation e Can‘t Stay Away from You sono due belle canzoni (eccezionale la prima, semplicemente bellissima la seconda) che mostrano come si possa suonare del rock moderno senza abusare dei luoghi comuni che i nostri ascolti spesso ci impongono.

Negli anni Ottanta lo facevano i Plan 9, gli Hidden Peace, i Things, gli Electric Peace.

E lo facevano i Liars. Grazie a Dio sono tornati a farlo.

Merdosissimo garage punk per il nuovo 45rpm dei giapponesi Routes, il primo ad essere pubblicato per una label del Vecchio Continente, la meravigliosa Dirty Water.

Non un singolo qualsiasi ma il migliore di questo 2010 che molti ricorderanno per i dischi di xx, Vampire Weekend, Crystal Castles o Wavves.

A nessuno di loro consiglio l’ascolto di una cosa infima come Do What‘s Right by You, elementare e volgarissimo beat punk che pare suonato da allucinati figli di capelloni come Missing Links o Outsiders.

Love Like Glue fa anche peggio: sembra una copia graffiata del primo album degli Shadows of Knight. Roba che non comprereste mai nel negozietto di dischi usati, figurarsi se lo comprerete al prezzo di uno nuovo.

E fate bene.

Ne abbiamo fin sopra i coglioni dei vostri dischi pieni di elettronica come un disco degli A-ha che volete per forza spacciarci come nuova e alternativa.

Ognuno stia nel proprio recinto, che la promiscuità ha fatto più danni che altro.

Sempre da casa Dirty Water arriva un’altra cosa lurida come il 7” dei Dustaphonics.

Hanno questa cantante, Aina Westlye, che canta come se le stessero praticando un fisting rettale e un chitarrista che ha memorizzato ogni cosa di quelle che da anni si diverte a passare nei club dove lavora come DJ: blues, funky, surf, rockabilly.

Il risultato è Burlesque Queen, un delirio tarantiniano con tanto di sassofono bavoso e cori da privè su un testo scritto nientemeno che da Miss Tura Satana.

Roba da eiaculazione precoce, manco a dirlo.

Sul lato B c’è Tornado, un classico di Dale Hawkins.

Diddley sound martoriato dalle maracas e dal tremolo e canto da pantera soul.

Sono invece quattro le band a spartirsi i pollici dell’ultima uscita Boss Hoss: viene un pollice e 75 a testa, ma ne valeva la pena. Anche perché il mio idraulico per montare un tubo da mezzo pollice chiede molto ma molto di più.

I Barbacans sono italiani e con Cut Your Head G.S. (Giancarlo Susanna?, Gwen Stefani? Non ci è dato sapere…NdLYS) confermano quanto di buono fatto col disco di esordio: un suono sporchissimo e denso di catrame fuzz e scorie di organo Vox.

I Vicars fanno altrettanto con una Can‘t See Me scopiazzata sulla imbastitura di He‘s Waitin’ dei Sonics. Sull’altro lato due band dal Sudamerica: Los Peyotes con Pintalo de Maron con un organo demente e chitarre che fanno l’acqua-planning sull’Oceano Atlantico. Triviale e squilibrato. Los Explosivos invece ci accomiatano con l’ennesima cover di I Can Only Give You Everything che certo non ci fa più l’effetto che ci fece quando la sentimmo la prima volta ma è sempre un bel sentire.

Del resto la prima pompa è indimenticabile, ma non è che quelle successive siano da buttare.

Chi invece sacrifica i beatle-boots per un paio qualsiasi di scarpe purchè siano belle da guardare sono i Piatcions. Non credo che imparerò a scrivere il loro nome correttamente senza guardarlo sulla copertina prima di essere pronto per il boia ma questo non vi riguarda. Il ridicolo giro di parole serviva solo per dire che dopo il singolo capellone dello scorso anno il quartetto di Domodossola si mette al lavoro per educare il proprio suono a quello della generazione shoegaze.

Chitarre stratificate e voci fluttuanti come nei dischi dei Darkside o degli Spiritualized sulla Time che occupa prima facciata di questo nuovo singolo che esce per la A Giant Leap mentre Singapore Mon Amour è un trip di cinque minuti su una linea di basso martellante e curve algide di sintetizzatori, sferzati da folate di vento cosmico.

Come prendere un trip mentre stai atterrando sulla luna assieme ai Krisma.

È sempre la A Giant Leap che si fa peso di portare in Italia quanto hanno registrato i Rollercoaster (italiani ormai naturalizzati americani, NdLYS) in California.

Ne viene fuori un bellissimo EP di quattro pezzi fulminanti. Dall’iniziale Change Is Due che pare una cover di Dead Souls dei Joy Division suonata da Jesus and Mary Chain fino alla bellissima trama di chitarre paisley e piano elettrico di Unfinished Business passando per il nodoso rock detroitiano di Between Seeing and Not Seeing e quello fangoso di Soul on Fire figlio degli Hypnotics è tutto, davvero, un bel sentire. Magari ce ne fossero di band così.

Smettetela di comprare i dischi de Le Vibrazioni e andate a cercare questa roba.

Tornano un po’ a sorpresa anche i Maharajas. Lo avevo già detto qui: http://www.facebook.com/note.php?note_id=77561044279 un po’ di anni fa che il gruppo svedese mi sembrava voler sempre più prendere le distanze dal suono garage degli esordi per lanciarsi nel recupero di certo power-pop di scuola Flamin’ Groovies e questo Sucked into the 70’s conferma i miei sospetti: Down at the Pub richiama subito alla memoria la Down at the Night Club di altri svedesi ma solo dal titolo: ci troviamo infatti davanti ad un pub-rock scattante e pieno di belle melodie alla Plimsouls. Una nuova direzione confermata anche dagli altri tre pezzi, tra i quali mi pare distinguersi la Stickers and Pins posta in chiusura, tutta carica di vecchi ricordi epoca Shake Some Action (Flamin’ Groovies) e Triangle (Beau Brummels) e delle cartoline estive di Stems, Hoodoo Gurus e ultimi Sick Rose.

I vecchi estimatori del suono in H-Minor rimarranno delusi, gli altri prendano la sdraio e si mettano al sole, prego.

E a proposito di Maharajas. Forse non tutti sanni che Jens Lindberg, il leader della band svedese, era negli anni Ottanta dentro quella cricca di perdigiorno dei Crimson Shadows. Jens era quello con il medaglione al collo e la faccia da schiaffi. Accanto a lui, oltre ai fratelli Maniette e a Henrik Orrje c’era pure Måns Månsson, più avanti alla guida dei grandi Maggots, ufficialmente sciolti il 13 aprile del 2010 ma in realtà già sfatti da un po’. Sentendo odore di bruciato il buon Måns ha tirato su una band assieme a Mats Brigell e Sebastian Braun dei Giljoteens e al chitarrista degli Artyfacts, qui relegato al basso. La band si battezza The Mystic Ways con l’intento “religioso” di tornare a suonare vecchie cose dal cuore sixties. Tradita la visione mistica ma non la missione, i quattro si ribattezzano Flight Reaction come un vecchio pezzo dei Calico Wall e debuttano ora con un doppio 7″ per la CopaseDisques: Flying Colours/A Broken Heart e Won’t Give In/I Lost You risuonano di vecchie spezie anni sessanta in classico stile Crude Pa. o New England Teen Scene: suono abrasivo ma anche pieno di ricami folk malinconici e delicati. Un sound che dietro la sua apparente semplicità nasconde un groviglio di suoni ricercati e caleidoscopici colori retroattivi (ascoltate come suona il solo di I Lost You, NdLYS).

La Svezia, si sa, è sempre una spanna sugli altri.

E non credo sia soltanto una questione di paralleli.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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The Flight Reaction - Won't Give In 7'' [CopaseDisques 2010]

THE JAYBIRDS – Naked as The Jaybirds (Time for Action)

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Proprio mentre scrivo i Jaybirds stanno suonando alla 5° edizione del Go Sinner Go! Festival. Accanto a Standells, Gravedigger V e ai Birds di Ron Wood.

Non è la prima volta che suonano a fianco a grandi nomi, perché lo hanno fatto in passato anche per Rolling Stones e Yardbirds, tra gli altri.

Eppure da noi li conoscono ancora in pochissimi, fuori da Piazza Statuto.

Perché, nonostante la Music Maniac ne abbia “forzato” anni fa l’ingresso nel giro neo-garage, i Jaybirds sono rimasti soprattutto un fatto per mod. Una band elegante che quando suona apre una valigia piena di belle cose e le sistema sul palco: freak beat, psichedelia, folk-rock, blues elettrico, enormi pupazzoni di cartone con le sagome di Eyes, Wimple Winch, Birds, Blossom Toes ma che non ha fatto ancora un disco che convinca in pieno.

Nemmeno stavolta.

Soprattutto per i limiti vocali di BJ Gold, a volte sull’orlo del disastro (Anything You Do) ma anche per una scrittura non sempre eccezionale che, quando parte il giro di Quanno chiove di Pino Daniele su A Big Thing ci strappa anche un sorriso.

 

                                                                                           Franco “Lys” Dimauro

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THE SADIES – Darker Circles (Yep Roc)

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Fossero nati dieci anni prima, i Sadies sarebbero probabilmente diventati una delle band più amate del Paisley Underground e di tutti i suoi annessi e connessi (ovvero quel larghissimo spettro di band che dai Plasticland portava ai R.E.M. e dai Tell-Tale Hearts ai Long Ryders). Non è andata così e oggi, sebbene possano vantare già quindici anni di carriera, i Sadies sono uno di quei gruppi amati e seguiti soprattutto da chi si è avvicinato al roots-rock attraverso la “mediazione” dei gruppi affiliati alla scena no-depression e Americana nata a valle del successo degli Uncle Tupelo. Considerati quasi un gruppo-cartolina, insomma e non un astro di prima grandezza. Darker Circles, il disco che colma la dozzina di produzioni dal loro insediamento nel firmamento del new country canadese, abbonda di fasci di luci byrdsiane, galoppanti country figli degli Eagles di Desperado, miraggi psichedelici che ricordano la parabola dei Quicksilver Messenger Service nel deserto quando in fuga da San Francisco videro apparire Bo Diddley in una nuvola di fumo e si prostrarono ai suoi piedi per trenta minuti, fino a che la luna non si spostò nella costellazione del Cancro. Placidissime ballate e avventurose fughe alle luci del jingle-jangle morning si susseguono senza soluzione di continuità, fino ad infrangersi nel country-surf di Ten More Songs e lasciarci con il desiderio di un tuffo in qualsiasi sfumatura di blu, anche quella della malinconia.     

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ULLI LOMMEL – Blank Generation (MVD Visual)

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Non è il film di Ivan Kral sulla scena punk di NY ma l’omonima pellicola di quattro anni più giovane consegnata agli annali più per le performance dei Voidoids che per la partecipazione di Richard Hell in qualità di modesto attore.

Hell fu molto critico sul film allora e lo è ancora oggi ma, ora che in qualche modo ha deciso di rimettere ordine nella cantina di casa, assiste a questa riedizione in DVD seguendo il processo di digitalizzazione e lasciandosi intervistare da Luc Sante nel making of stipato in fondo al dischetto. E il fatto di aver acquistato un DVD di cui parlano male gli stessi protagonisti subito dopo essertelo sucato per 80 minuti, ti fa sentire un idiota. Blank, appunto.

Che dire? Il film è osceno. Non nel senso che si tratta di un pornazzo ma in quanto manca del minimo richiesto ad un film: una sceneggiatura passabile e una recitazione che vada oltre l’approssimazione da dilettante. Blank Generation non ha ne’ l’una ne’ l’altra cosa e soffre, anche dopo il restauro, di una vivacità di colori e di audio praticamente vicina a quella del viso di Nosferatu.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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