PEARL JAM – Dark Matter (Monkeywrench)

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Discutibile, come sempre, già dalla copertina, Dark Matter ribadisce una sola, grande verità: i Pearl Jam hanno fatto solo tre album veramente belli, tutti nella prima metà degli anni Novanta. Tutto il resto, da trent’anni a questa parte, è un tentativo disperato di sopravvivere a sé stessi. Infilando di tanto in tanto un pezzo giusto ma mai un album “a tenuta stagna” come erano stati Ten, Vs. e Vitalogy.

Il risultato più clamoroso ed imprevedibile è stato però che, alla luce dei dischi successivi, in molti si sono sentiti di abbracciare la fertile fede del revisionismo (la stessa che ha avvelenato le sorti di band come Smashing Pumpkins, R.E.M., U2 e, se Cobain non si fosse sparato in bocca, avrebbe contagiato pure i Nirvana, potete starne certi, NdLYS) e rivalutare in negativo anche quelli, che invece erano e rimangono dei dischi di grande valore e con molte cose da dire. Da No Code in poi invece è come se le luci si fossero spente, proprio mentre si accendevano i riflettori delle grandi arene.

Dei Pearl Jam è rimasto poco più che un guscio vuoto, un barattolo che ogni tanto risuona come quello del brano di Gianni Meccia.

Sono, in fin dei conti, la cover band dei Pearl Jam.

Canzoni che sono rimasticature infinite di quanto già scritto, fatto, detto e suonato da decenni.

Roba da campionario.

Loro, dei piazzisti.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Sub Pop 200 (Sub Pop)

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Con l’arrivo di Jonathan Poneman a dare manforte a Bruce Pavitt il “regno” della Sub Pop si è ormai insediato definitivamente nella geografia della storia del rock imprimendo da questo momento in avanti un marchio indelebile che per qualche anno assumerà quasi i contorni di un’egemonia culturale. Sub Pop 200 è il momento che fotografa l’inizio dell’ascesa dell’etichetta, il suo insediamento al trono.

Tad, Soundgarden, Mudhoney, Nirvana, Green River, Swallow, Fluid, Screaming Trees, Blood Circus vengono coinvolti assieme ad altri rodati gruppi dell’etichetta come Girl Trouble, Fastbacks, Walkabouts, Cat Butt, Beat Happening, Thrown Ups nella scaletta di una compilation EPOCALE.

Le band vengono suddivise a grappoli: tre/quattro chicchi acidi per facciata, su un totale di sei sides, pubblicate il 28 dicembre del 1988 in una confezione di tre dodici pollici che diventa uno dei regali più ricercati a cavallo delle festività di fine anno.

A differenza del “volume” precedente (Sub Pop 100) ci troviamo qui di fronte ad uno spostamento di prospettiva e di sguardo dalle “vetrine” altrui alla propria. Pavitt e Poneman sono coinvolti in prima persona, con i Soundgarden (complici nella vita reale dell’incontro fra i due) che inscenano una telefonata con entrambi nel manifesto programmatico del disco, Sub Pop Rock CitySub Pop 200 infligge al rock un’accelerazione con pochi precedenti, costringendolo a muoversi dal suo pantano creativo e ad incamminarsi verso lo Space Needle, come pellegrini che hanno trovato il loro nuovo totem.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SCREAMING TREES – Uncle Anesthesia (Epic)

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Il passaggio alla Epic e il nuovo assetto della band con Chris Cornell alla produzione e ai cori viene testato in sordina nel 1990 con l’EP Something About Today ed esplode nel 1991 con Uncle Anesthesia, l’album con cui il sound degli Screaming Trees assume la forma che li porterà al successo, con le chitarre pastose e piene di grinze e la voce di Mark Lanegan sciamanica come quella di un Jim Morrison dai capelli lunghi il doppio e sporchi il triplo. Il suono borderline del gruppo ha trovato una sua dimensione (oltre che una collocazione sonora arbitrariamente decisa dai giornali e dalla casa discografica, pur senza appartenerle in toto), una sua precisa identità, un canovaccio espressivo che è adesso aderente al gusto del pubblico ma è anche coerente con le affinate capacità di scrittura del gruppo, ormai lanciato verso un suono altamente manovrabile in ogni contesto, dalla ballata torva all’acid-rock epico, dal grungey-folk polveroso al desert-rock.

Il sound di Uncle Anesthesia sa di gomma pesante, come certi copertoni per bulldozer con il battistrada che schiaccia la polvere e la compatta, lasciandole sopra dei solchi spezzettati e regolari, tracciando il solco che dal deserto porta fin dentro le città. Bruciando i copertoni all’ingresso delle periferie, perché il fumo nero le avvolga in un abbraccio disperato.

                                                                                                             Franco “Lys” Dimauro   

                                                                     

THE YOUNG FRESH FELLOWS – The Men Who Loved Music (Frontier)

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La musica la amano per davvero, gli Young Fresh Fellows. E, apparentemente, l’amano tutta. The Men Who Loved Music conferma quanto la band di Seattle sia una versione appena appena più seria e musicalmente molto più preparata dei They Might Be Giants con i quali condividono il morbo onnivoro per qualsiasi cosa sia riproducibile musicalmente, tenendo il buonumore come unica discriminante e collante fra i generi. Power pop trionfale alla stregua degli Hoodoo Gurus, ritmi ska, sorridente musica da rodeo le vie più praticate lungo il lunghissimo percorso del loro terzo album.

Una babele che la band governa sprigionando una perizia tecnica mastodontica da rock band navigata (si ascolti l’assolo di My Friend Ringo o i dialoghi strumentali di I Don’t Let the Little Things Get Me Down).

Fulmini e saette su una festa di paese, fino a che tutto non venga bruciato nella più grande epifania della contea di Seattle.       

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

LOVE BATTERY – Dayglo (Sub Pop)

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Dayglo è la sublimazione del grunge liquido dei Love Battery, ideale prosecuzione del vitriolage già perpetrato sulla psichedelia aggredita dei sixties da parte degli Screaming Trees. Le chitarre sono immerse in quella terra elettrica abitata da Neil Young ma suonate con un’approssimazione da garage-band che lo rende ancora più sfasato, stranito e malsano, finendo per suonare in Cool School (Trane of Thought) come i Sonic Youth coevi di Goo e diRty.

Le limitate abilità tecniche complessive vengono “mascherate” da un assordante volume degli strumenti che ne accentua l’effetto straniante ma i pezzi non hanno in realtà alcun valore intrinseco (basti ascoltare quella sorta di nastro smagnetizzato di Helios Creed di Blonde o il rumore gratuito della title-track con cui cercano di assaltare la fortezza dell’acid-rock con rottami inadeguati all’impresa).

I Love Battery, animati dalle migliori intenzioni, non sembrano adeguati all’impresa. La batteria scarica a terra.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MUDHONEY – Plastic Eternity (Sub Pop)

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Il fatto che ormai riesca ad appassionarmi davvero poco alle nuove uscite delle band che hanno segnato in qualche modo la mia vita è un problema mio, che oggettivamente non dovrebbe intaccare il giudizio su quanto arriva alle mie orecchie. Eppure, essendo i miei organi sensoriali non un semplice imbuto dentro cui versare qualsiasi liquido organico come si fa con un serbatoio a corto di carburante, potrebbe essere un problema non solo mio. Questa disagevole sensazione mi porta a fare i conti col mio metro di giudizio, cercando di trovare un punto di equilibrio che non necessariamente coincide col mio baricentro emozionale ma che si colloca leggermente fuori asse, cercando di intercettare da un lato le aspettative collettive e dall’altro le reali urgenze espressive che determinano quello che io chiamo il “salto del delfino”, ovvero la necessità più o meno fisiologica che molti vecchi cetacei sentono di dover emergere periodicamente dalle acque e mostrare la loro schiena, tornando a nuotare al nostro fianco per un certo tratto e poi inabissarsi nuovamente. E non è impresa facile, ecco perché in sede di recensione trovate sempre la solita mappazza di pasta filata spacciata per mozzarella.

Dunque, Plastic Eternity si trova a dover allungare di un altro po’ la storia discografica dei Mudhoney cercando di mediare fra la storia già fatta e quella ancora da scrivere, tentando di prolungare ancora quell’ultimo fascio di luce che rischiara l’orizzonte, ma ad occidente, lì dove prende il nome di tramonto. Cerca di farlo in maniera dignitosa, in modo che i vecchi fan non si sentano traditi ma che allo stesso tempo percepiscano, oltre ad una tempra non del tutto arrugginita, anche la volontà di dire qualcosa di leggermente nuovo, bluffando in modo che non si accorgano che Severed Dreams in the Sleeper Cell e Tom Herman’s Hermits sono la stessa canzone e che entrambe sono identiche a decine di altre incise in precedenza e che tutto sommato, avremmo potuto tranquillamente fare a meno di ogni sua canzone semplicemente andando a riascoltarci i loro vecchi dischi. Giocando sul fatto che, anche se nessuno ve lo dirà mai, il fatto di saperli vivi (così come il fatto di sapere vive tutte le band che hanno segnato la nostra adolescenza) attiva un entusiasmo dettato solo dal fatto di saperci vivi noi medesimi. E l’applauso fatto a loro è un applauso fatto a noi. Una promessa, un patto di eternità.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TRULY – Fast Stories…from Kid Coma (Bang!)

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La seconda vita artistica di Hiro Yamamoto, il primo bassista dei Soundgarden, non fu una vita di grandi successi: i Truly rimasero ai margini del cono di luce della scena del northwest americano, in parte a causa del ritardo con cui dopo due extended play erano arrivati al traguardo dell’agognato album in un 1995 dove l’occhio di bue di critica e pubblico si era già girato altrove, lasciando Seattle al buio. Fast Stories…from Kid Coma la rischiarava solo parzialmente, col suo post-grunge diluito in un’addensante dose di psichedelia vischiosa e una tendenza a “strafare” che costringe la Columbia a tagliare dalla scaletta la Aliens on Alcohol onde evitare di dover patrocinare un doppio cd per una band esordiente e che all’epoca solo la versione in doppio vinile della Sub Pop, che è quella su cui è stata fotocopiata questa nuova ristampa, permise di ascoltare solo agli appassionati di un formato che nel 1995 languiva nei negozi specializzati.

Il debutto dei Truly è tendenzialmente diviso in due parti complementari, con una prima sezione (indubbiamente più bella) fortemente dinamica e maggiormente strutturata su quel patrimonio grunge dei tre membri del gruppo che in qualche modo connette il suono degli Screaming Trees a quello dei futuri QotSA e una seconda più votata all’onirismo di certo psych-rock e di certo prog accentuato dall’uso anche parecchio ingombrante delle tastiere e dai movimenti stratificati delle chitarre che sinceramente si fa fatica ad ascoltare più del necessario.

Non tutte le storie raccontate sono veloci come promesso, insomma. E non tutte belle. Ma ancora oggi Fast Stories conserva il suo carisma di disco di culto che lo perseguita da quasi trent’anni.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SCREAMING TREES – Oggi soffia un vento crudele

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Nel 1985, l’anno delle registrazioni di Clairvoyance, gli Screaming Trees sono una sorta di “affare di famiglia”. I fratelli Gary Lee e Van Conner sono due ragazzi (ventitreenne il primo, appena diciottenne il secondo) che suonano già da un po’ sotto il nome di Explosive Generation assieme all’amico Mark Pickerel e all’appena reclutato Mark Lanegan.

Non sanno ancora cosa diventeranno.

E a dirla tutta, non sanno ancora dove dirigere il timone.

Così, nuotano un po’ a braccio, solcando il mare con un’eco sottile, latente e trasversale di quella sorta di psichedelia metallica e acerba di band come Wipers, Miracle Workers o Plan 9 che la formazione rielaborerà con efficacia su Dust, con la voce di Mark ancora flebile ed incerta e le chitarre di Lee Conner ancora prive degli slanci visionari che prenderanno quota nei dischi seguenti. Nessun presagio di futuri capolavori come Grey Diamond Desert Nearly Lost You pure se brani come Standing on the Edge, I See Stars Orange Airplane (con il fratellino più piccolo della nidiata Conner impegnato ai cori) mostrano, pur dietro un vetro opacizzato, la via che la band di Seattle percorrerà fino al ’96 con mezzi e capacità sempre più potenti e che qui è invece ancora approcciata in maniera borderline ed artigianale.

 

Una sorta di prato di spilli.

Così era la musica degli Screaming Trees di Even If and Especially When, l’anello di congiunzione fra un garage rock tutto sdrucito e tagliato storto della metà degli anni Ottanta con quello che sarebbe fioccato da lì a poco come grunge, prodotto quasi per osmosi da quello che è a tutti gli effetti un acido lievitare oltre soglia della psichedelia (Other Days and Different Planets, In the Forest, Girl Behind the Mask, Flying, World Painted, The Pathway, You Know Where It’s At), quasi fosse un disco della Moxie lasciato troppe ore al sole, fino a deformarsi. Su Don’t Look Down il suono sembra precipitare, come trascinato giù da un campo magnetico che è lo stesso a rendere il riff di Cold Rain una sorta di orologio molle alla Dalì, con le chitarre leggermente fuori fase a rendere obliqua la distorsione chitarristica fino a determinare una sorta di ubriacatura acustica. Il disco però piace solo a quelli della SST che spingono la band ad affrontare qualche data (tre concerti in tutto) per promuovere questa miscela che fatica ad incendiare il pubblico, che si accorgerà degli Screaming Trees solo quando i riflettori si accenderanno su Seattle e non certo per merito loro. Nel 1987 la band del Northwest è ancora una formazione di outsiders, indigesta ai puristi del suono garage nonostante questo pugno di canzoni ne rappresenti una buona degenerazione e leggermente in anticipo sui tempi rispetto a quella che sarà la forma definitiva del suono del Nord-Ovest dei cinque/sei anni successivi.

Ecco, “forse, se” fosse arrivato dopo, “specialmente quando” le pattumiere grunge sarebbero state aperte per invadere il mondo del tanfo di spazzatura di Seattle, Mark Lanegan e soci avrebbero raccolto prima quello che già pendeva copioso dai loro rami urlanti.     

 

Prima che la Epic costringesse Mark Lanegan a lavorare sui toni melodrammatici della sua voce per farne il Jim Morrison del rock del northwest, gli Screaming Trees consegnano alle stampe quella meraviglia che è Invisible Lantern, rampicante velenoso che cinge i muri di Seattle disperdendo i pollini della psichedelia più acida dentro un fiume di watt che scorre lungo brani recalcitranti come la progressione stoogesiana di Ivy, gli Experience amatoriali, imprecisi, dozzinali di The Second I Awake, gli Elevators soffocati con un fardello di plastica di Shadow Song, l’acid-rock texano che cola da Direction of the Sun, l’hard-rock stopposo di Lines & Circles, Invisible Lantern, Even If, She Knows tutti aggrediti dalla tipica distorsione “dilaniante” del pedale per chitarra da cui la band ha preso il nome (anche se pare che si tratti solo di omonimia e che non ci sia stata una relazione voluta all’effettistica da studio nella scelta battesimale, NdLYS) e, appena ammansiti, sotto quel sudario di Grey Diamond Desert che anticipa già i Miracle Workers di Primary Domain. Il rock degli Screaming Trees è di quello che ama scarabocchiare ai margini dei generi, spesso bruciando i bordi come a volerne ulteriormente confondere le tracce. Come spiriti malvagi in grado di comandare sulle nuvole, soffiano sulla città quella che diventerà in pochi mesi la tempesta perfetta.  

Come per il TIR guidato dai fratelli Gary Lee e Van Connor, se sfogliate un qualsiasi catalogo illustrato della musica rock sulla carrozzeria degli Screaming Trees troverete appiccati un sacco di adesivi: psichedelia, grunge, hard-rock, punk.  

Poi magari, aperti i portelloni, dentro ci trovate solo una gran confusione.

Perché il TIR degli Screaming Trees viaggiava lungo il confine. Raccoglieva e caricava ad ogni fermata quello che voleva. E continuava la sua marcia, mostrando il dito medio ai posti di blocco.

Per Buzz Factory si erano fermati nelle officine Reciprocal, per una messa a punto del motore. Si erano affidati alle mani di Jack Endino, il meccanico che aveva sistemato il superfuzz scassato dei Mudhoney e i coglioni di Dio che gli avevano portato i Tad. Quando ripartono, il motore ruggisce. Mastro Endino ha lasciato intatte le incrostature della carrozzeria ma ha messo tra i pistoni un fluido miracoloso. Il suono crespo e grezzo delle chitarre che si agitano inquiete su Flower Web, Subtle Poison, Where the Twain Shall Meet, Revelation Revolution, Windows, Too Far Away, Wish Bringer, Black Sun Morning, Too Far Away sembra un rigurgito acido del punk dei Wipers e del desert-rock dei Thin White Rope. A volte, come abbagliate dal lampeggiare del crybaby, sembrano andare leggermente fuori tono, ovalizzarsi attorno alle note del basso e alla splendida voce di Mark Lanegan. Poi rientrano in carreggiata.

Fino alla prossima fermata.

Fino al prossimo carico.          

 

Il passaggio alla Epic e il nuovo assetto della band con Chris Cornell alla produzione e ai cori viene testato in sordina nel 1990 con l’EP Something About Today ed esplode nel 1991 con Uncle Anesthesia, l’album con cui il sound degli Screaming Trees assume la forma che li porterà al successo, con le chitarre pastose e piene di grinze e la voce di Mark Lanegan sciamanica come quella di un Jim Morrison dai capelli lunghi il doppio e sporchi il triplo. Il suono borderline del gruppo ha trovato una sua dimensione (oltre che una collocazione sonora arbitrariamente decisa dai giornali e dalla casa discografica, pur senza appartenerle in toto), una sua precisa identità, un canovaccio espressivo che è adesso aderente al gusto del pubblico ma è anche coerente con le affinate capacità di scrittura del gruppo, ormai lanciato verso un suono altamente manovrabile in ogni contesto, dalla ballata torva all’acid-rock epico, dal grungey-folk polveroso al desert-rock.

Il sound di Uncle Anesthesia sa di gomma pesante, come certi copertoni per bulldozer con il battistrada che schiaccia la polvere e la compatta, lasciandole sopra dei solchi spezzettati e regolari, tracciando il solco che dal deserto porta fin dentro le città. Bruciando i copertoni all’ingresso delle periferie, perché il fumo nero le avvolga in un abbraccio disperato.

 

L’occasione mancata della Sub Pop.

Che pure qualcosa, una piccola cosa in formato sette pollici, aveva stampato tre anni prima con gli alberi urlanti in copertina.

Alla fine, persa la battaglia con la Epic, Bruce Pavitt si limiterà ad accogliere il Mark Lanegan solista che ai tempi non convince ancora gli A&R delle major. Ma questa è un’altra storia (che però, all’epoca dell’uscita di Sweet Oblivion, ha già preso il via). Quella degli Screaming Trees è iniziata un po’ di anni prima proprio dalle parti di Seattle, quando l’attenzione della stampa e del pubblico è rivolta verso la California, Minneapolis e Athens.

Del loro rock psichedelico ed obliquo durante gli anni Ottanta non interessa quasi a nessuno. Finchè il vortice del grunge non risucchia dentro anche loro forse più per questioni geografiche che di stile. La scelta della Epic di inserire Nearly Lost You dentro la colonna sonora del filmettino Singles si rivela però un trionfo. Quando Sweet Oblivion arriva sui tavoli dei giornalisti, nel maggio del 1992, l’album non ha ancora un titolo ne’ una scaletta definitiva (verrà poi spurgata di tre brani) ma rivela da subito un carattere vincente.

Il suono è denso, vischioso, uterino. La voce di Lanegan pastosa e calda è permeata di quell’indole confidenziale che verrà poi esaltata nella sua discografia solista.

E le canzoni, tutte, sembrano davvero possedere quella dose di incanto e suggestione che era mancata al vecchio canzoniere del gruppo.

La diga sonora costruita dei fratelli Conner (che hanno elaborato, riadattandola, la formula di Crazy Horse, Creedence Clearwater Revival, MC5, Lynyrd Skynyrd) sembra contenere a fatica una creatività straripante e donare quel senso di meraviglia inquieta che trasuda da canzoni come ButterflySecret KindShadow of the SunTroubled TimesFor Celebration PastNearly Lost You, cariche di un pathos solenne e minaccioso. Salici piangenti mossi dal vento dell’Hurricane Ridge.

 

Dopo il meritato successo di Sweet Oblivion gli Screaming Trees sono costretti ad assistere impassibili ed inermi alla fine del grunge.

Le dipendenze di Mark Lanegan hanno costretto la band ad una immobilità paralizzante, tanto che quando alla fine, dopo aver cambiato produttore, decide di andare in studio a registrare quello che sarà il su canto del cigno (nero), Gary Lee Conner ha da scegliere da una cornucopia di oltre duecento canzoni.

E resta il dubbio che abbia scelto le migliori.

O, per essere più precisi, è costretto a scegliere quelle che meglio si adattano alle stanche corde vocali del cantante, quelle che lo possono fare sentire più a suo agio, che possono ridurre il suo stress.

Nel 1996, e la band lo capisce subito, il fuoco degli Screaming Trees si sta spegnendo e non può più essere riacceso, neppure chiamando in soccorso vecchi amici come Chris Goss, Mike McCready e Josh Homme, arrivati più a celebrare un funerale che a partecipare ad una festa. Il risultato è un album meno spontaneo, con un lavoro di pre-produzione e di “calibratura” che da un lato arricchisce le tessiture musicali, dall’altro non riesce a creare quella dinamica esplosiva che tutti si aspetterebbero, finendo per complicare progressivamente il suono fino a quell’orgia di psichedelia moderna che è Dime Western e a quella mini-suite irrisolta che è Gospel Plow ricca di colori orientali alla George Harrison che chiudono il cerchio aperto dal raga-rock di Halo of Ashes e, a ben vedere, l’intero moto di rivoluzione iniziato dieci anni prima con Clairvoyance.

L’appannamento di Lanegan non ha tutto sommato esiti nefasti su Dust, anche se il risultato finale sembra essere una versione di Mistery Lane, il disco registrato dai fratelli Conner, ma con un cantante vero. Fuori dal ciclone grunge che essi stessi avevano inconsapevolmente provocato e in cui rischiavano di essere intrappolati, gli Screaming Trees trovano una via di fuga psichedelica per tornare in posizione fetale. Desiderosi di riposo.

Polvere alla polvere.

Cenere fra la cenere.   

 

Ogni giorno è un buon giorno per gli Screaming Trees.

Anche se sono passati più di dieci anni dall’ultimo giorno e le camicie di flanella sono rose dai tarli dentro le panche delle cose smesse, accanto ai pantaloni in pelle che non ci entrano più e le cinture borchiate che sembrano rubate al Museo dell’Inquisizione di Siviglia.

Last Words sono le “ultime parole” pronunciate dalla band, poi rimaste taciute per un decennio vista l’impossibilità di trovare un’etichetta che, dopo il recesso del contratto da parte della Epic, investisse su una band che era stata insignita del titolo di prime-mover di un movimento che adesso non interessava più a nessuno. Realizzate con l’apporto esterno di Josh Homme e Peter Buck le dieci tracce di Last Words si muovono sullo stesso terreno di Dust, recuperando quella visione psichedelica che era stata una delle loro ispirazioni iniziali e rielaborandola stavolta secondo i dettami stilistici che avevano caratterizzato il Paisley della metà degli anni Ottanta, con un Lanegan meno opaco che sul disco precedente, tanto da innalzare con i suoi artigli Ash Gray Sunday e Anita Grey fin sulle vette ormai inviolabili dei loro pezzi migliori. Salvo poi lasciarli cadere tra la merda delle iene che hanno fatto a pezzi quel che restava di loro.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE GITS – Frenching the Bully (C/Z)

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Si chiamava Gesù, ma aveva la faccia come la merda.

Il suo nome completo era Jesus Mezquia e la notte del 7 luglio del 1993 violentò a morte Mia Zapata, la regina di Seattle, da dove era arrivata col suo gruppo quando le prime colonne del fumo grunge erano state avvistate fino in Ohio.  

Nessuno era brava come lei, da quelle parti. E il disco che avevano registrato, l’unico che Mia era riuscita a completare, è un monolite che ancora oggi mette soggezione. Robaccia tosta, quella dei Gits di Frenching the Bully. Con un muro di chitarre alto come quello di un carcere di sicurezza.

Figlio del punk.

Anzi, punk anch’esso.

Se vi passa sopra Spear and Magic Helmet, per dire, non riuscirete più ad alzarvi da terra. E magari quel treno fosse passato dalle parti di Pike Street quella sera, offrendo un posto sicuro a Mia o travolgendo quel Gesù dalla faccia di merda. Invece no. Perché i treni passano una volta sola, e spesso nel momento sbagliato.

Quello di Mia era passato prima, l’aveva portato dalla sua città ai margini dell’Impero fin nel posto “dove accadono le cose”. Anche quelle brutte. Anche quelle che un Gesù qualsiasi decide di lasciare che accadano.

Ora e sempre… Viva Mia! Viva Zapata!

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro