THE AR-KAICS – See the World on Fire (Dig!)

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Il suono degli Ar-Kaics si allontana sempre più, forse definitivamente, dalle coordinate garage rock iniziali (più promesse che reali) per farsi fogliame folk, sfiorando a volti toni da predicatori apocalittici (Land of the Blind) e concedendo poco spazio alla leggerezza (Stone Love, unico pezzo “cantabile” della raccolta).

L’idea di iniziare il “viaggio” con un disco per nulla semplice come Chains, sorta di invocazione voodoo-folk la dice lunga sulla volontà del gruppo di estraniarsi da qualsiasi contesto musicale, di appartarsi volontariamente in un mondo per pochi intimi fatto di poche lusinghe.

Un mondo spregiudicato e anticonformista, quello della band di Richmond, che sembra voltare perennemente le spalle alle aspettative del pubblico, deluderne l’orizzonte di attesa, attraendo a sé nugoli di curiosi più che piccole folle di gente vociante e distratta. Votandosi in qualche modo all’”arte per l’arte”.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MADNESS – Keep Moving (Stiff)

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Keep Moving torna all’idea dinamica che è cara all’iconografia della band.

Ma è soprattutto il disco che conferma i Madness come la migliore compagnia di caratteristi del microcosmo londinese.

Ogni frammento di canzone, uno scorcio di Londra.

Ad ogni passaggio, un salottino allestito per l’ora del tè, una corsa ordinata ed elegante al parco, un odore di brodo a buon mercato che si diffonde dalle imposte di un ostello per barboni, un lampeggiare di semafori, una combriccola di mendicanti che improvvisa un ballo sotto il Tower Bridge, un Bobby che ammonisce un borseggiatore, un hooligan che aiuta una vecchietta ad attraversare, prima di andare a naufragare in una rissa da pub.    

Un album ancora una volta ricco di intuizioni, genio e sregolatezza.

Come Victoria Gardens o Samantha che sembrano un provino dei Blur, dei Suede o dei Kaiser Chiefs. Con molti anni di anticipo. E con molto, molto più ritmo.

O come quelle piccole gocce di vapore inglese che colano giù da ogni singola nota di One Better Day.

Poi le tende si spostano con fare gentile, per spiare la corsa di questi sette giullari che sfilano sotto i tetti rossi della città.

Non più uno un passo dietro l’altro ma uno a fianco all’altro.

Ancora una volta a piedi, come Oliver Twist.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

kepmovin

THE PRISONERS – Morning Star (Own-Up)

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La line-up è quella di sempre: Allan Crockford, James Taylor, Graham Day, Johnny Symons e l’etichetta, quella storica della band: la Own-Up. Tanto basterebbe per fare del ritorno dei Prisoners uno degli eventi del 2024.

A smorzare un po’ gli entusiasmi è però arrivato un singolo come Going Back che è, praticamente, una sputata rilettura dei Who di Who’s Next, Won’t Get Fooled Again in particolare che però resta fra gli intoccabili della storia, e non andava toccata. Anche se, va detto, loro sarebbero fra i pochi legittimati a farlo.  

Un episodio che tuttavia resta più o meno isolato all’interno di un disco che si muove nel più classico stile Prisoners riattivando l’effetto nostalgia che operazioni simili prevedono. In virtù di quello, Morning Star godrà del plauso che merita, toccando un po’ tutte le “essenze” che la band inglese ha sprigionato durante gli anni d’oro, dal northern soul all’Hammond-beat, dal garage rock alle tinte da spy-movies e a quelle memori delle eruzioni di Deep Purple e Hendrix.

La novità è una maggiore, forse anche eccessiva attenzione alla cura delle parti vocali, con i cori protagonisti a scena aperta in molti episodi (If I Had Been Drinking, My Wife, This Road Is Too Long, Break This Chain) e la voce solista (notevolmente ammansita rispetto al passato, sebbene sia ora maggiormente in grado di manovrare un’espressività e una modulazione calda e soul-oriented) in prepotente primo piano rispetto agli strumenti. I Prisoners restano dunque inattaccabili, dalle critiche quanto dall’ossido.

L’uragano però, quello vero, è retrocesso a tempesta.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BASSHOLES – When My Blue Moon Turns Red Again (In the Red)

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Mamma mia, cosa sono diventati i Bassholes!

Invertendo il processo di scarnificazione del blues avviato ad inizio carriera e procedendo adesso per aggiunta (organo, blues-harp, sassofono e tantissima elettricità), When My Blue Moon Turns Red Again sfiora anzi raggiunge il capolavoro. Determinante, in questo senso, è l’arrivo di Jon Wahl dei Claw Hammer ma anche del nuovo batterista Lamont Dozier che ha sostituito dietro le pelli la ritmica essenziale di Rich Lillash dando una carica dinamitarda al sound della band dell’Ohio (Florida Bus o Letter sono sintomatiche del suo incredibile apporto, NdLYS).

Insomma, una piccola rivoluzione, come se attorno al caratteristico “osso” che era la struttura unica e portante del loro garage-blues scheletrico ed impenitente si fossero formati muscoli e nervi. Una dinamicità sorprendente che stavolta coinvolge direttamente i Joy Division, altra formazione che in diverso contesto rivendicava una sua forma ossuta e minimale, facendo della loro Interzone, una delle tre cover di questo doppio album, un incredibile fuoco d’artificio blues-punk. Ventuno canzoni da cui riparte la storia artistica di Don Howland. Sbrigatevi ad allacciarvi le scarpe, se volete corrergli dietro.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PUNISHMENT OF LUXURY – Laughing Academy (United Artists)

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Fra la scia di eredi dei Roxy Music i Punishment of Luxury furono fra i più creativi e tra i meno fortunati: Laughing Academy sarebbe diventato “semplicemente” uno dei più grandi cult-records della new wave inglese, sorpassato in visibilità da dischi di gran lunga meno originali e fantasiosi. Un suono spericolato e babelico, quello del quartetto di Newcastle, che macina, inghiotte, mastica, risputa di tutto con un approccio quasi progressive pur restando impiantato su chiare matrici new-wave a art-rock.

Le canzoni dei Punishment of Luxury decidono spesso di deragliare dalle normali traiettorie, diventano altro, si sviluppano in forme stravaganti anche quando partono dalla stazione del punk, come nella fenomenale Babalon.

Rigore e anima circense creano mix stupefacenti come Puppet Life nel cui ventre si agita già il feto dei Franz Ferdinand, Excess Bleeding Heart, Funk Me, All White Jack dove la nevrosi contemporanea assume spesso movenze meccaniche, salvo poi riannodarsi all’umana psicosi.

Laughing Academy è la terra delle opportunità.

A noi saperle cogliere.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE GUN CLUB – Death Party (Animal)

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Death Party è una delle tappe intermedie nell’autostrada fra Miami e Las Vegas.

Breve che quasi non te ne dovresti accorgere.

E invece te ne accorgi eccome.

Un EP che richiama sin dal titolo le feste-tributo organizzate a Los Angeles da Phast Phreddie e che documenta il breve periodo di Jim Duckworth (ex-Panther Burns) alla chitarra.

Un EP snello e veloce che contiene una delle più belle canzoni di Jeffrey e di TUTTO IL CANZONIERE AMERICANO (House on Highland Ave., NdLYS) e raccoglie nuovi proseliti, malgrado il successo, quello vero, non arrivi ne’ adesso ne’ poi. Ma è un disco di una bellezza assoluta, forse la vetta artistica e poetica dei Gun Club, un sunto di tutto il loro immaginario in una manciata di canzoni che sono un melodramma urbano del tutto speculare a quello contadino del blues che si agita dentro Pierce da quando l’ha incontrato la prima volta.

La formazione è a ranghi ridotti, con Jim Duckworth alla chitarra e Dimitri dei Bush Tetras alla batteria. Jimmy Joe Uliana, che si occupa del basso, non è ufficialmente nella line-up, così come Texacala Jones. Eppure, forse anche per questa sua natura spuria, estemporanea, precaria, Death Party è mosso da una ispirazione febbricitante che percorre tutte e cinque i pezzi, con una prestazione vocale e un apporto strumentale che ne fanno uno dei capisaldi di tutto il roots-rock degli anni Ottanta.

Un motel sporco di grasso e di sperma lungo l’autostrada che unisce la Florida al Nevada.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

RADIO BIRDMAN – Live at Paddington Town Hall Dec 12th ’77 (Citadel)

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Il prezzo è proibitivo, ma la ristampa necessaria: Live at Paddington Town Hall Dec 12th ’77 è l’ultima diapositiva scattata a Sydney dai Radio Birdman prima di imbarcarsi nel tour britannico per promuovere il loro album.

Uno sconcertante flusso di energia quello documentato da questo doppio album “catturato” dallo stesso Charles Fisher che ha prodotto il debutto della formazione e che suona incredibilmente bene, come se i Radio Birdman fossero qui davanti a noi, a demolirci casa. Stooges e 13th Floor Elevators mancano dalla scaletta, ma sono presenti in spirito più di quanto possiate immaginare, affiorando come Nessie dalle acque del suo lago, mostrando le squame.

Una scaletta colossale con tutti i pezzi già diventati stimmate del rock and roll più viscerale, crudo, potente, depravatamente libertario dai tempi di Raw Power: Man with Golden Helmet, What Gives?, Do the Pop, New Race, More Fun, Anglo Girl Desire, More Fun, Murder City Nights, I-94, Monday Morning Gluck, Non Stop Girls e tre cover suonate anche quelle col ferro rovente sulla carne.

Venite a leccare queste pustole infette, ORA.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE LEMON TWIGS – A Dream Is All We Know (Captured Tracks)

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Ancora una volta, come fu già per i Redd Kross, a riportare in auge il suono del power-pop ci si affida a dei fratelli, stavolta peraltro figli d’arte. Destinatari di un’attenzione inaspettata e forse in parte immotivata da parte dei media i fratelli D’Addario hanno visto un’impennata delle aspettative rispetto a questo loro nuovo album, aspettative affatto tradite dalla pubblicazione di una dozzina di canzoni che tengono fede a quanto da loro già espresso in termini di stupefacente “adattabilità” ad un suono retrò che sembrava in realtà essere odiato da tutti. Non stupirà pertanto vedere, sul mio modesto blog, le visualizzazioni delle recensioni relative a band come Turtles, di Simon & Garfunkel, degli stessi Beatles (statisticamente le meno lette in assoluto) o dei Reaction restare piattamente ferme a pochissime, sparute unità e veder lievitare questa in virtù della sovraesposizione cui i Lemon Twigs sono sottoposti da un po’ e che fa effetto sui boomer più che sulle nuove generazioni, anche se i vecchietti miei coetanei non lo ammetteranno mai.

Dunque a cinquant’anni ci si riscopre, un po’ a sorpresa, innamorati di canzoni come In the Eyes of the Girl, un cheek-to-cheek da pellicoletta che ci avrebbe dato il voltastomaco solo tre anni fa.

Di tutto ciò i Lemon Twigs non hanno però alcuna colpa, o merito: loro fanno egregiamente il loro lavoro e portano avanti la loro missione, riportandoci in casa le armonie dei Byrds (quanta bellezza c’è su If You and I Are Not Wise?), dei Turtles, dei Beach Boys, dei Mamas and Papas, degli Zombies (How Can I Love Her More? è quasi un plagio) e facendole sembrare la cosa più figa del mondo. Tutto ciò cui ci si proclamava allergici è adesso terapico. Ciò che era parte della malattia, è adesso parte della cura.

Vai a vedere come gira il mondo. E a vedere come girano le palle a me.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STABBING JABS – Stabbing Jabs (Beast)

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Due quarti dei Chrome Cranks, un quarto dei Gang Green, un sesto dei Savages.

E anche se a volte il curriculum non conta, molte altre volte invece si, ed è proprio questo il caso degli Stabbing Jabs.

Mettendo a fattor comune l’amore per il suono stordente degli Stooges, Peter Aaron, William G. Weber, Chris Donnelly, Tim Moore e Andrew Jody mettono su un album che spacca le ossa, da quelli del cranio giù fino a quello sacro.

Si comincia con Broken Brain e l’immagine che ci si staglia in mente è quella dei Dead Boys, in una versione ancora più criminale e feroce. Bad Slime è invece una colata di metallo quasi post-core, come lo facevano negli anni ’90 formazioni come i Quicksand, dimenticati anch’essi. Un afflato, quello post-core, che è la vera matrice del gruppo, ciò che li differenzia sostanzialmente dai Chrome Cranks cui verranno per ovvi motivi paragonati e che invece qui affiorano solo raramente, per chi è capace di ascoltare senza giudizio a priori. Alle radici del punk si avvitano del resto le due cover del disco, recuperate dalle macerie dei bombardamenti su Cincinnati (Little in Doubt e Go-Go Wah-Wah dei Verbs e Dennis the Menace).

La band ha la forza esplosiva che le premesse lasciavano intuire, con pezzi clamorosi come Little Lamb, Drowning Girls, Radiation Love e il delirante cingolato noise di You’re a Drag a fare il vuoto attorno, ora che tutti sembrano affascinati dalle buone maniere e ammansiti dalla loro pensione da pompieri dimenticando di quando si professavano incendiari.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CESARE BASILE – Saracena (Viceversa)

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La musica e la voce di Cesare Basile sono arse come questa terra su cui non piove più. Una terra dove il vento soffia come fosse una lama di rasoio e i tronchi d’albero diventano armature, cortecce contorte come budella di legno che ardono al sole e che urlano di dolore come pinocchi mai diventati bambino. Giganti ultracentenari, Matusalemme verdeggianti che possono raccontarti storie formidabili, se riesci a farli parlare. E Cesare riesce a farli parlare. Prende i loro arti e dona loro la parola. Poi, si fa albero anche lui. E sembra invocare la pioggia. E piove.

Saracena è il più viscerale fra i dischi realizzati dal musicista catanese.

Ombra che non rinfresca, acqua che non ristora. La Sicilia come ventre che accoglie ma anche come ventre stuprato. La Sicilia che guarda i santi passare, sfilare sotto le sue case diroccate, dentro i suoi intestini che sono labirintiche vuccirie gentrificate alla bell’e meglio e poi rinchiudersi in chiesa. La Sicilia che l’hanno comandata tutti e non l’ha ammaestrata nessuno. La Sicilia cui hanno tagliato il cordone ombelicale dal resto d’Italia e cui adesso hanno promesso di farne uno in cemento.

Saracena apre il suo sipario su una casa diroccata di Noto, il paese dei caminanti che hanno dato il nome al gruppo che ha accompagnato Basile negli ultimi anni. Stavolta però, Cesare è in uscita solitaria, come un pastore cui è scappato il gregge. Con lui, i suoi mille strumenti dai nomi improbabili che sanno di ruggine prima ancora di essersi ossidati, a volte immersi in una ghirlanda di campi elettromagnetici come quelli già sperimentati in Pulicane Tape (Ciuri i cutugnu, U iornu ro Signuri, Prisenti Assenti), a volte in semplice risonanza/assonanza con gli elementi naturali, come la corona di spine di Cristo falciata dal vento sul Golgota.

Saracena è un disco di spettrale musica desertica e di stoppa ferrosa.

Cesare Basile si ferma al centro della piazza, tira fuori la sua panchetta da sciuscià e invece di lustrare le scarpe ai padroni, cura le ferite sui piedi scalzi dei passanti.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro