YO LA TENGO – Painful (Matador)

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Nell’estate del 1992 gli Yo La Tengo affiancano i My Bloody Valentine e i Buffalo Tom per quattro date fra Canada e Stati Uniti.

Il set della band di Hoboken si apre con una lunghissima jam strumentale di mezz’ora, lasciando interdetti i suoi fans. I Heard You Looking è un pezzo che, sin dal suo titolo sibillino che ancora nessuno conosce, sembra voler portare il pubblico da qualche altra parte, probabilmente proprio sulle braccia dei My Bloody Valentine. La destinazione apparirà più chiara quando, l’anno seguente, uscirà Painful, il disco con cui Yo La Tengo abdicano da sé stessi e si spostano verso un’altra galassia. I Heard You Looking vi appare come traccia conclusiva, ridimensionata ad un terzo della sua durata live. Ad introdurre il viaggio è invece la languida Big Day Coming, lunga uguale, languidissima e appoggiata ad un loop di organo, appena appena accarezzata da un arpeggio di chitarra e qualche borbottio delle valvole che aspettano il loro momento di gloria nella loro gabbia amplificata. Quel momento arriva molto più tardi, nella versione elettrica del pezzo che chiude su un solo accordo l’intera storia del Paisley.

Painful si dibatte fra queste due anime, nello stridente contrasto tra la volontà di allargare a dismisura le maglie del suono fino a renderlo filigranato (Nowhere Near, A Worryng Thing, The Whole of the Law) e quello di identificarsi come dei moderni Efesto in grado di governare un urticante calor bianco che si fa largo sottoforma di lingue mefistofeliche su brani come I Was the Fool Beside You Too Long o Double Dare. La sterzata è netta in direzione shoegaze ma il margine di manovra è ampissimo e produce piccoli capolavori trasversali come Sudden Organ, From a Motel 6 o le due versioni speculari di Big Day Coming, fra le altre.

Gli Yo La Tengo saltano il fossato. Grande quanto tutto l’oceano.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DURUTTI COLUMN – Another Setting (Factory)

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Nel 1982 Simon Topping lascia gli A Certain Ratio per raggiungere Vini Reilly e i suoi Durutti Column, con tromba al seguito.

E trova ad attenderlo una cosa come Prayer che è quel che dice il titolo: una preghiera. Ma muta. Che però ti solleva in alto fino ai piedi del Padreterno, in modo che tu possa chiedergli quello che vuoi faccia a faccia, senza dover affidare le tue parole al vento, che non sempre è ambasciatore affidabile. E lui, scende ad abbracciarti. E la sua risposta è una risposta muta, che però dura la metà del tempo.  

Dopo, i Durutti Column riprendono in mano il loro vecchio abbecedario, che è metà atlante stellare, metà almanacco delle stagioni. E un po’ anche l’eco delle piante grasse nel deserto, quando soffia qualche folata di Simùn.  

Un astrolabio che se stavolta sembra funzionare in maniera appena meno precisa rispetto ai due dischi precedenti, è solo perché ci siamo abituati alla meraviglia e abbiamo avuto la stoltezza di pretendere da lei quel che ci è dato in dono, reclamandola invece come nostro diritto.


Durruti, da qualche parte, continua a scrivere.   

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

BLONDE REDHEAD – Sit Down for Dinner (Section 1)

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Dopo averci lasciati a lungo fuori casa per un bel po’, i Blonde Redhead ci invitano ad entrare e a sederci per cena. Probabilmente sulle loro stesse ginocchia, visto che col passare degli anni i loro malleoli si sono fatti sempre più morbidi ed accoglienti e la loro musica è stata affidata ad una sorta di bolla di sapone che, inglobandola nel suo moto ascensionale e anti-gravitazionale, ha definitivamente reciso ogni forma di legame con la loro “vita violenta”, oramai del tutto placata.

I Blonde Redhead ci servono per cena dei marshmellow sofficissimi, vestiti con tessuti leggerissimi e con le pattine ai piedi. Vassoi di musica garbatissima ma mai scontata e mai del tutto leggera nel modo in cui potreste intenderla. Fermandosi sempre un attimo prima di diventare epigoni dei Mazzy Star o di qualsiasi altra band dream-pop o accelerando il passo quando sembra incombere su di loro la mano uncinata degli EbtG.

Perché, pur calpestando un giardino limitrofo, i Blonde Redhead di Sit Down for Dinner affermano di provenire da un’altra scuola, che è fondamentalmente quella della musica da cinema (provate ad isolare dal cantato un pezzo come Kiss Her Kiss Her oppure la conclusiva Via Savona) e delle prelibatezze al caramello prodotte da chef come Joe Meek, Lee Hazlewood, Phil Spector. Rivestendo con quel caramello un cuore d’assenzio fatto di liriche profondamente drammatiche.

Catapultandoci nell’abisso con una carezza.   

 

                                                                                       Franco “Lys” Dimauro

BREATHLESS – Behind the Light (Tenor Vossa)  

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Un organo cerimoniale introduce Behind the Light (unico disco dei Breathless ad uscire solamente su supporto digitale) facendo da tappeto ad After All These Years, un brano liquido e sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, carico di una placida malinconia consolatoria.

Poi i Breathless accendono i motori. Che stavolta sono macchine tedesche in sfilata. And So the Dream Goes On è un motorik che ci sveglia dal torpore, con le sue ruote dentate che marciano inesorabili.

Le atmosfere mutano di nuovo con Stay Beside You per trasformarsi in piccolissime guglie di cristallo. Poi anche questo scampanellio si ferma: Nobody Knows è solo il soffio di vento artico che le faceva tintinnare e nulla più. Tutto resta come sospeso, in una immobile catarsi leggermente ascendente. È il momento propedeutico per la fase più psichedelica del disco, inaugurata con una Rising che discende direttamente dai Pink Floyd di Live at Pompeii, protratta dal lungo volo cosmico di Behind the Light e chiusa dall’ambient strumentale di Fade in cui un pallone aerostatico equivale ad un paracadute.

Dipende da dove volete dirigervi. Perché la mente è tutto.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

COCTEAU TWINS – Head Over Heels (4AD)

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Delay lunghissimi, basso carico di sustain e batteria reverberata per creare il tappeto elastico di nuvole dentro cui far galleggiare la voce di Elizabeth Fraser. Quello che sarà il marchio di fabbrica del suono dei Cocteau Twins parte da qui, esibito in tutta la sua potenza angelica sui cinque minuti di Five Ten Fiftyold.

Con i Cocteau Twins di Head Over Heels la musica gotico-romantica di dischi come Join Hands e Pornography si alza come un aquilone, anche se le piace di tanto in tanto precipitare giù come una lama affilata a decapitare le teste proprio mentre stanno col naso all’insù, sacrificando la sua maestosa voluttà di marmo oppure poggiare i piedi al suolo in balia delle intemperie, lasciandosi schiaffeggiare dal vento e sferzare dalla pioggia, come succede in Glass Candle Grenades, In Our Angelhood o nella giostra valpurgica di Multifoiled.

La band scozzese libera la scena dark dall’immaginario scomodo e ambiguo della simbologia estrema delle dittature mitteleuropee e lo imprigionano in qualche modo ad un mondo fatato dove anche le parole si muovono dentro un dedalo di impenetrabile mistero, di pluralismo linguistico figlio dei giochi lessicali di Wittgenstein.  

 

                                                                           Franco “Lys” Dimauro

THE TELESCOPES – The Telescopes of Tomorrow (Tapete)

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I Telescopes di domani non sono molto diversi dai Telescopes del passato, fatto salvo che la struttura della band è collassata sul solo Stephen Lawrie: un solitario, enorme cannocchiale cosmico che ci avverte sul movimento delle galassie. Anzi, ce ne fa sentire il rumore.

A volte scuro, densissimo. Altre volte inquietante e indecifrabile. Stavolta carezzevole, come di un folk-rock cosmico ed ellitticamente psichedelico, come di un sogno shoegaze schiacciato da un masso di granito.

Quello che emerge è il lato più song-oriented di Lawrie, senza tradire la sua natura opprimente ed “immersiva”, a tratti narcotizzante (Only Lovers Know è una sorta di grumo alla Spain, Down by the Sea indugia in un psych-rock al ralenti) ed essenzialmente sognante e onirica.

I marziani intercettati dai telescopi hanno facce simili alle nostre. La sera, dopo aver acceso il calumet della pace per rabberciare tutto l’odio che ci siamo tirati addosso durante il giorno.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

COCTEAU TWINS – Victorialand (4AD)

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Sempre più filiforme, la musica dei Cocteau Twins lambisce i ghiacciai nordici con Victorialand, album costruito esclusivamente sugli arpeggi espansi di Robin Guthrie e sul canto esoterico di Liz Fraser.

Il paesaggio si fa incantato ed evanescente, ricordando le “ghost stories” dell’epoca gotico-vittoriana ma il gioco feerico lascia presto il posto ad una assuefazione soporifera ai vapori stregati emanati dagli alambicchi del duo, che si espandono e scivolano da un canale all’altro dello spettro audio avvolgendo l’ascoltatore in una sorta di sindone spiritica. Un leggero ma ostinato vento glaciale sembra scuotere enormi salici piangenti fino a farne piovere una gelida pioggia di affilate stalattiti che penetrano il suolo. Le canzoni del duo scozzese esibiscono la loro filigrana, come sottilissime banconote perlacee in controluce.  

L’ovatta e le nuvole shoegaze dei due dischi precedenti sono evaporate lasciando canzoni come OomingmakLazy CalmWhales TailsThe Thinner the AirLittle Spacey esposte in una nudità larvale. I Cocteau Twins sembrano perdere aderenza al suolo e sganciarsi verso l’alto come bolle di elio fino ad attraversare l’iperuranio.    

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE CHAMELEONS – Strange Times (Geffen)

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Tony Fletcher camminava sull’acqua.

Così raccontano le cronache e così racconteranno i Chameleons quando, ancora sconvolti per la morte improvvisa del loro manager, si vedranno costretti a stampare in proprio il disco che doveva rinsaldare il legame con la Geffen pur di sostenere le spese e pagare i debiti prima di rompere le righe. Tony era l’uomo che dentro quegli uffici, quelli della Geffen, ce li aveva portati tenendoli per mano, i Chameleons promettendo di dare un’affrescata agli intonaci già sfaldati del post-punk. Il risultato era stato Strange Times, il disco più elaborato della band, quello dal colorito meno pallido, quello in cui si infilano anche dentro qualche bizzarra tuta prog pur di togliersi di dosso l’etichetta di dark band che, passata la metà degli anni Ottanta, rischia di diventare un boomerang o una mannaia.

E così la formazione finisce per guardarsi intorno e provare a pescare un po’ ovunque, dal rock epico di marca Lillywhite (l’uomo dietro i primi U2, Big Country, Psychedelic Furs e ai Simple Minds di Sparkle in the Rain) fino alla psichedelia da salici piangenti dei Bunnymen e dei Mission, fino al dream-pop (I’ll Remember) e alla musica acustica qui lambita per la prima volta con Tears e usata addirittura come avamposto all’intero album. Ne esce fuori un disco variegato nelle intenzioni e forse un po’ dispersivo nei risultati ma ancora una volta pieno di fascino, pur con tutta la fuliggine dark-wave che ancora si porta addosso. O, forse, proprio per quello.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DURUTTI COLUMN – LC (Factory)

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Il mondo a chiazze dei Durutti Column, dove anche la politica trascolora in qualcosa di evanescente e fluido (dopo la storpiatura del nome dell’anarchico Buenaventura Durruti operata seguendo l’esempio degli Scritti Politti, siamo qui all’acronimo di Lotta Continua, senza che nessuno ne abbia il minimo sentore, NdLYS), virato seppia.

LC, con le sue chitarre oscillanti (che è una ma sembrano tre) e il suo pianoforte pigiato come se si volesse prendere a martellate la tristezza per vederla sanguinare, restituisce una sorta di paesaggio lacustre dentro cui, all’improvviso, prende fuoco la pira funebre dell’amico Ian Curtis cui è dedicata The Missing Boy.

Siamo in una casa delle farfalle. Dentro cui piove ma dalla quale è sempre possibile scorgere una sorta di luminosità avvolgente, un’aura salvifica che potrebbe asciugarci il cuore, laddove non dovesse riuscire ad asciugarci i capelli.

Chissà che anche lui, il nostro muscolo cardiaco, non riesca a prendere il volo. Come un Icaro audace e sprovveduto.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

FELT – Ignite the Seven Cannons and Set Sail for the Sun (Cherry Red)

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Con Ignite the Seven Cannons i Felt coprono la loro musica con un nuovo mantello: l’ingresso in formazione di un tastierista in pianta stabile accresce le ambizioni dei Felt e la produzione pastosa di Robin Guthrie ne potenzia l’appeal riempendo le porosità del loro suono, fungendo entrambi da amalgama e da dinamo per pezzi come The Day the Rain Came Down, Textile Ranch, Caspian Sea e per il successone di Primitive Painters con Elizabeth Frazer alla voce. Il pezzo più bello del lotto è però una immensa e strumentale Elegance of an Only Dream, smagliante episodio di incantata psichedelia byrdsiana dove Maurice Deebank riconquista la scena e lascia la sua mastodontica eredità prima di lasciare la band, prima di lasciare la firma su quell’altra meraviglia che è la Southern State Tapestry che chiude il disco.

La musica dei Felt diventa traslucida, pronta a riflettere la luce del sole, pur restando nel buio di cui sono signori.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro