IGGY POP – Naughty Little Doggie (Virgin) 

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La ridefinizione del proprio stile avvenuta con American Caesar prosegue dando frutti eccellenti su Naughty Little Doggie, un altro disco dove Iggy gioca a fare Iggy. Prendendoci per il culo come meritiamo.

“Mi volevate più punk?”, sembra dire. “Mi volevate più metal?”, “Mi volevate adeguato ai tempi? Più tenebroso?”, “Più crooner romantico? O piuttosto sudicio come un preservativo sfilato dal cazzo di Lux Interior?”. E dimostra che, se vuole, può fare tutto questo e altro ancora.

Anche se la copertina sembra l’esatta negazione della precedente, con un corpo privo di ogni vigore che pare sgonfiarsi come un pneumatico sotto il peso di un semplice elmetto, Naughty Little Doggie è il disco rock che in molti si aspettano dopo il robusto ma dispersivo American Caesar, l’Iggy Pop tascabile da potersi mettere in auto facendo il ghigno cattivo che immaginiamo dipinto sulla sua faccia mentre canta cose come I Wanna Live, To Belong, Pussy Walk, Heart Is Saved. Che sono anche banali esercizi da mano sinistra ma condotti con chi del mestiere conosce i trucchi e della fica ogni sfumatura di sapore. Quindi finitela di fare gli schizzinosi, quando zio Iggy sputa i suoi torsoli nel piatto e vi invita a leccare la ciotola come dei cani bastardi.   

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

JACK O’ FIRE – Forever (Sympathy for the Record Industry)

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La soul music secondo Tim Kerr e secondo Long Gone John, l’uomo della Sympathy for the Record Industry che gliel’ha commissionata. “Spalmate” prima su quattro separati singoletti, le cover della formazione vengono ora assemblate su un unico, lurido, disco affinché non abbiate tempo di pulirvi il culo fra l’uno e l’altro.

Quella del gruppo texano è musica che sa di ruggine. Ruggine rovente, col demone Walter Davies a soffiarci sopra il suo soffio mefistofelico. Il “trattamento” è analogo per tutti: da Booker T and The M.G.’s a Link Wray, dai Minutemen ai Fall-Outs, da Willie Dixon alle Mothers of Invention, dagli Headcoats a Sonny Boy Williams, dai Fall ad Hound Dog Taylor, tutti riportati a fattor comune cosicché non riuscirete a riconoscere gli uni dagli altri e a distinguere il vostro impianto hi-fi dal rottame di un fonografo a manovella. Jack-O’-Lantern sorride malefico dopo il suo ennesimo peccato.

Cacciato dal paradiso.   

Cacciato dall’Inferno.

Costretto a vagare nelle paludi per l’eternità.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE POGUES – Pogue Mahone (WEA)

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Pogue Mahone, sin dal titolo, è il tentativo dei Pogues di ritornare alle origini. Ed è un tentativo che, per quanto possa adesso suonare stereotipato, risulta in gran parte riuscito. Rispetto al passo falso di Waiting for Herb si torna su territori più sicuri e le nuove canzoni risultano più convinte e convincenti. Il registro vocale adottato da Spider Stacy è stavolta lo stesso di Mr. MacGowan e l’impianto musicale è strettamente legato a quello della loro terra d’origine.

L’album si apre curiosamente con una cover di How Come?, il pezzo che aveva inaugurato la carriera solista di Ronnie Lane dopo le avventure con gli Small Faces e i Faces subito dopo e che già all’epoca, nel 1973, col suo mandolino in bella evidenza sembrava “un pezzo dei Pogues”. Il resto, ad eccezione di una versione a rotta di collo di When the Ship Comes in di Dylan, è tutta farina del loro sacco, anche quando si tratta di mettere in musica i testi di Apollinaire. Ed è ancora farina buona, nonostante la rimacinatura e qualche biscotto poco cotto (Love You ‘Till the End, Four O’Clock in the Morning, Oretown).

Il passaggio di consegne alla nuova compagine di gruppi celtic-punk come Dropkick Murphys, Flogging Molly o Filthy Thieving Bastards costretti a “baciare il culo” ai Pogues per sempre si consuma qui, con l’ultima levata di boccali.  

Se dovessi uscire dalla grazia di Dio, dove nessun dottore possa più sollevarmi, lasciatemi andare, fratelli. Lì dove tutti i fiumi diventano secchi.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ASTEROID B-612 – Not Meant for This World! (Au-go-go.)

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Allontanandosi, senza mai perderla di vista, dalla strada tracciata da Radio Birdman e affini (Visitors e New Christs in primis) gli Asteroid B-612 di Not Meant for This World! deviano ora verso un punk più crudo ma anche più ortodosso (Emotional Tattoo, Not Meant for This World), ora colando in picchiata verso i Mudhoney (True Romance), ora in una sorta di versione esacerbata e hardcore degli MC5 (Farewell to the Cosmic Commander, You Always Got Something to Lose), ora in un omaggio tacito al garage-rock dei Nomads (Where Has All the Fun Gone?).

Scrollandosi di dosso l’etichetta di epigoni degli zii australiani i “mostri” di Sydney finiscono insomma per correre il rischio di perdere un po’ di fascino. Rischio evitato dal grandissimo carattere che continua a pervadere le loro canzoni (la marcia ballata di Thanks for Nuthin’ e i feroci assalti di Straight Back to You e Destination Blues, il virulento giro di Believe It’s True sopra tutte le altre) le cui radici affondano nel terriccio fertile del miglior r ‘n’ r australe generando una cornucopia di frutti avvelenati.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

dEUS – In a Bar, Under the Sea (Island)

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Ancora un disco di meraviglie, dall’Olimpo belga. Dopo il fenomenale esordio e la raccolta di stracci My Sister = My Clock, il secondo album dei dEUS arricchisce ulteriormente il lessico e la grammatica musicale del sestetto di Antwerp che dal bancone del suo bar subacqueo porge a centinaia di musicisti il bicchiere per apprendere a fare la O di pop in maniera perfetta. Colmo. Anzi, stracolmo.

Sovrapponendo come antichi operai egiziani fumose atmosfere noir, vapori jazz, soffici tappeti acustici, funky rampanti, coliche waitsiane, unghiate punk, vecchie arie da grammofono, ballate da fellatio, sonnecchianti ninne nanne etiliche per soldati assopiti in trincea, violini dalle ali di colibrì, polimorfiche ballate da appuntamenti falliti, musichette per carillon inceppati, traiettorie storte come quelle di un pallone sgonfiato e canestri da cestisti provetti i dEUS costruiscono una piramide di grandissimo art-pop, ingigantito dall’alternanza di più voci che si materializzano dallo spettro audio imprigionando l’ascoltatore come dentro il cono di un caleidoscopio.

Giù, nel mondo di Spongebob, la vita marina pullula di sirene squamose che seducono i marinai che solcano il Mare del Nord.

I balani infestano la carena delle navi che vi passano sopra.        

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HEADS – Relaxing with… (Headhunter)

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Verso la metà degli anni Novanta gli Heads di Bristol tornarono a seminare il campo di erbacce abbandonato troppo presto dagli Hypnotics e dagli Spacemen 3, calando il secchio dentro un pozzo artesiano colmo di fango stoogesiano e di avanzi decomposti degli Hawkwind e tirando su questo abbeveratoio immondo fatto di stoner e space-rock che in America vedeva nei primi Monster Magnet i maestri viventi indiscussi. Ne viene fuori una babele di lamiere contorte, un tripudio di distorsioni cataclismiche che raramente cede il passo a qualche riff sfrondato dagli eccessi (Television, Taken Too Much), solo per accanirsi subito dopo con maggior veemenza. Mentre la loro città diventa capitale del suono elettronico e delle contaminazioni delle sue tribù urbane, gli Heads riscoprono la forza dell’elettricità brada dell’epoca analogica, dell’esibizione virile del cock rock e del rumore bianco e innalzano attorno a Bristol un’invalicabile recinzione di cavi elettrici.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

THE DELTA 72 – The R&B of Membership (Touch and Go)

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Nel passaggio dalla Kill Rock Stars alla Touch and Go hanno perso l’apostrofo ma giusto quello i washingtoniani Delta 72. Per il resto la miscela di umori garage/soul e virulenza noise-punk rimane quel che era nel singolo di debutto: sensuale ed esplosiva. I richiami sono quelli al drumming sincopato del primo James Brown, ai colli di bottiglia della tradizione blues, al pittoresco groove dell’R&B acido dei tardi anni Sessanta, agli sbuffi dell’autoharp degli Yardbirds ma alle traiettorie lineari i quattro ragazzi di Washington preferiscono quelle più impervie del noise degli anni Novanta, di cui sono peculiare sintesi soprattutto On the Lam, Rich Girls Like to Steal e Trick Baby. Lo sferragliare di pezzi come Get Down, 7&7, Satellite e On the Rocks ricordano invece lo sguaiato blues a propulsione dei Boss Hog e un Alexis Korner con i rollerblade ai piedi.

Con i Delta 72 e i Make-Up Washington diventa la capitale bianca della musica nera.     

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

EVERYTHING BUT THE GIRL – Walking Wounded (Virgin)

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Appena pochi mesi dopo la pubblicazione di Amplified Heart il sogno d’amore fra gli Everything but the Girl e la loro etichetta storica si interrompe.

Siamo nella metà degli anni Novanta e per stare sulla breccia occorre entrare in sintonia con i suoni elettronici che impazzano un po’ ovunque: house, jungle, drum ‘n’ bass, big beat, trip-hop. Ed occorre prendere possesso dei “club”, i posti dove accadono le cose.

Ben Watt e soprattutto Tracey Thorn ne sono consapevoli ma non hanno l’audacia giusta per provare. Così, in attesa di trovare il coraggio (ma anche la tecnica necessaria a Ben per passare dalla chitarra al laptop) e un nuovo contratto, affidano a mani altrui una traccia del loro ultimo album. Risultato: Missing diventa, nelle mani di Chris & James, Ultramarine, Little Joey e soprattutto in quelle Todd Terry, una delle canzoni che domina radio e locali per tutto il 1995. Forte di un successo inimmaginabile (Missing la si sente ancora oggi nelle “serate ‘90” dei disco-club di tutto il mondo, Italia compresa, in qualche spot o serie tv oppure rivisitata da altri, ultimi in ordine di tempo i Level 42, NdLYS) il duo può ricevere un buon anticipo dalla Virgin per produrre il nuovo disco, che si intitola Walking Wounded ed è di nuovo un piccolo giardino di delizie (Mirrorball su tutte). Ben è impegnato oltre che a costruire le linee melodiche e un paio di testi, anche la maglia di beat elettronici che sorreggono tutto il disco.

Che è ancora una volta immalinconito dalla pioggia, anche se stavolta è gelida come quella che bagna Roy Batty su Blade Runner. Se i paesaggi sonori possono risultare alieni, la voce di Tracey rappresenta la “comfort zone” dove i vecchi fan del gruppo possono sentirsi a casa, godendo dell’abbraccio dei “vecchi” EbtG. Che sono ancora, dopo una dozzina di anni, un gruppo che sa abbracciarti.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

OBLIVIANS – Sympathy Sessions (Sympathy for the Record Industry)

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I due 10” e il singoletto per la Sympathy usciti tra il ’94 e il ’96 messi in fila uno dopo l’altro sono una striscia di carta vetrata su cui sfregare il vostro culo finché non si accende come una capocchia allo zolfo. Che poi la procace pin-up che ci porge il menù vi invogli a sfregare altro, poco aggiunge alla sporca lascivia degli Oblivians che si respira nelle diciotto tracce delle Sympathy Sessions, cristallizzando per sempre il momento in cui Elvis scosse il bacino la prima volta, rendendolo immor(t)ale. Animate da un nichilismo assoluto, espresso nel manifesto di un minuto e mezzo di What RockNRoll Is All About, nel garage convertito a capannone industriale di Kick Your Ass, nella fogna blues di Show Me Again o in quel debosciato sputo punk alla Crime di Memphis Creep, le canzoni del terzetto di Memphis restano a testimonianza di un’attitudine priva di compromessi col buon gusto e con le moine. Se ne avete timore volgete lo sguardo altrove.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

FLESHTONES – Favorites (autoproduzione)

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Un barista che versa il cocktail (immaginiamo, preferito) al suo cliente è il disegno che i Fleshtones mettono come immagine di copertina di un disco stampato in proprio e da vendere ai concerti e via Web dal gennaio del 1997. Un disco che appare sin da subito tirato su senza grosse pretese e che invece è assolutamente necessario a far ritrovare alla band lo zoccolo duro della sua fan-base e per riannodarsi, tecnicamente e attitudinalmente, al rock ‘n’ roll delle origini che i Fleshtones sembrano aver smarrito da un po’. Obbligati non solo a confrontarsi con un repertorio di “oldies but goldies” ma a registrare senza l’ausilio di produttori esterni e di apparecchiature sofisticate e multitraccia, con Favorites (ristampato l’anno successivo per il mercato internazionale dalla Telstar come Hitsburg USA!, NdLYS) i Fleshtones sembrano tornare nella giungla che avevano progressivamente abbandonato riempendo dischi fatti più che con le rovine di Roma, con la sua polvere.

Il repertorio sprofonda nel mondo delle novelty songs, del boogie-woogie, della soul music, del jumpin’ seguendo oltre alle proprie inclinazioni, lo stile della collana “popular favorites” dedicata proprio alla musica popolare americana (Broadway, country, musiche natalizie, ecc.) cui i Fleshtones si ispirano in maniera dichiarata sulle note di copertina. Favorites rappresenta un nuovo anno zero nella storia della garage-band più longeva della storia.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro