THE KWYET KINGS – Firebeat (That’s Entertainment)

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L’amore di Arne Thelin per il sixties-punk è insopprimibile.

E così, dopo i forfait di Joyful Tears, Cosmic Dropouts e Lust-O-Rama, decide di provarci ancora. La band ha un potenziale enorme: il suo album di debutto stampato in contemporanea anche dalla Screaming Apple è una bomba deflagrante dove ad esplodere sono, oltre al classico garage-punk pure il maximum R ‘n B e il dutch-beat (come nelle formidabili e accesissime Gonna Make You Smile Again e In Love with You).

La sequenza di cover di Richard and The Young Lions, Sevens e dei Firebeats, Inc. (la seminale band norvegese cui Arne deve gran parte del suo amore per la musica beat-punk) dimostra grandissima adesione ai canoni originali ma sono i pezzi scritti dai Kwyet Kings, in particolare Ain’t Nobody’s Business, Need You Baby e I Say Yeah oltre a quelle citate, a fare la differenza. Un disco fulminante da cui però la band prenderà parzialmente le distanze coi dischi successivi, spostandosi verso il power-pop con risultati meno entusiasmanti e, di certo, meno urticanti.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE HELLACOPTERS – Grande Rock (White Jazz)

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Al terzo album gli Hellacopters sono ormai un’istituzione dell’hard-rock europeo. Grande Rock resta fondamentalmente attaccato agli stessi modelli, pur spostando gradualmente lo sguardo verso un suono più stereotipato che tuttavia non riesce ad esplodere con la straripante virulenza nugentiana che pare voglia esprimere “in potenza” (la versione “riveduta e corretta” pubblicata venticinque anni dopo sarà, a confronto, davvero incendiaria, NdLYS) e che resta in qualche modo “imprigionata” fra i solchi. Il tiro del gruppo svedese rimane comunque formidabile, una doccia fredda di chitarre che si ricompatta creando un sostegno tenace, ruvido a linee vocali limitate spesso a poche strofe e sempre pensate per i grandi bagni di folla e l’adrenalina collettiva. Pezzi come The Electric Index Eel, Action de Grâce, The Devil Stole the Beat from the Lord, Move Right Out of Here, 5 Vs. 7 sono classici al primo ascolto, punture d’imenottero che arrossano la pelle, rock che non conosce le redini.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PIRATE LOVE – Black Vodoun Space Blues (Voodoo Rhythm)

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Sixties-punk spiritato, deragliante, caustico e nero come il corvo. Un disco che parte “precipitando”, con una Shake It! che sembra essere stata spinta giù dal decimo piano quello dei Pirate Love, passeri solitari norvegesi che sono andati a svernare in Svizzera, sulla grondaia di Beat Zeller. Questa urgenza si stempera solo episodicamente, come nel bellissimo esercizio tipicamente neo-garage di You Don’t Break My Heart, nella tenebrosissima e super-gloomy Death Trip e nel rock and roll di Ain’t Nothing to Do (A Kiss Hello). Il resto è invece animato da una furia devastante, come se i Morlocks avessero deciso di diseppellirsi con le proprie unghie e poi si fossero avventati sugli strumenti con quelle stesse dita ancora sporche di fango e liquami. E quindi sul nostro collo.    

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

UNION CARBIDE PRODUCTIONS – From Influence to Ignorance (Radium 226.05)

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Nonostante la perdita di qualche ingranaggio (il chitarrista Björn Olsson si è già tuffato nelle acque del Göta älv per aspettare i compagni dall’altra sponda, NdLYS) la ruota dentata degli Union Carbide Productions non conosce pausa ma qualche macchia di ruggine forse si. Colpa probabilmente di una navigazione a paratoie alzate che ha finito per annacquare gran parte della stiva. Nulla di preoccupante, per carità di Dio, sulla corazzata svedese si naviga ancora una meraviglia. A bordo di un rock corposo che ha trovato la quadra in una distorsione chitarristica controllata, come in una fioritura estrema del folk-rock, che diventa il marchio di fabbrica della band.

Gli Stooges si muovono sottotraccia, abbinati ad una sorta di groove pastoso alla Humble Pie.

Senza più superare la soglia del buon gusto, gli Union Carbide Productions ridefiniscono le coordinate del classic-rock misurando i graffi e allestendo una versione domestica del virulento spettacolo del rock ‘n’ roll.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE HIVES – The Death of Randy Fitzsimmons (Disques Hives)

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Trent’anni di Hives rendono bene l’idea di quanto siamo invecchiati, noi e loro. C’è poco da fare: i numeri, a leggerli da soli, sono spietati. Che poi gli Hives si ostinino a portare avanti un’idea musicale che non è mutata se non di pochissimo rispetto agli esordi e che dunque preservi lo spirito primordiale della musica teen, è tutto un altro discorso, che poco ha a che fare con i numeri puri e molto con l’etica del rock and roll. Perché, strano a dirsi, anch’egli ne ha una. Io dal canto mio vado ancora oltre giudicando moralmente accettabile solo la musica teen fatta da chi è giovane davvero, dentro e fuori, ma mi rendo conto che col progressivo “invecchiamento della specie” nessuno pretende più che chi è sul palco abbia venti anni, i capelli incolti e il fuoco dentro. Basta che la recita sia quantomeno credibile, e per gli Hives lo è ancora. Il “rigor mortis” di cui parlano in uno dei pezzi di The Death of Randy Fitzsimmons è solo simulato e la band svedese può ancora posare da becchina e non da cadavere.

Nella fossa pare ci sia Randy Fitzsimmons, che anche da morto firma le canzoni del gruppo, dodici in tutto, che costituiscono la mezz’oretta di punk-rock con cui gli Hives tornano sul mercato dopo più di dieci anni, più in forma di quando avevano tirato su la scaletta di Lex Hives.

Il gruppo si prende pochissime licenze dal suo classico rock ‘n’ roll e il ritorno di fiamma del pubblico è assicurato da pezzi come Countdown to Shutdown, The Bomb, Smoke & Mirrors, Bogus Operandi, Crash into the Weekend cui in pochi sapranno resistere.

Gli Hives trovano un mondo già pronto a riaccoglierli. Come non fossero mai andati via.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MOTORPSYCHO? – Yay! (Stickman)

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A dieci mesi esatti dal precedente, ecco il nuovo album dei mastodontici signori del Nord. Vestiti di ghirlande e con le criniere al vento, a portarci “gioia” nonostante le condizioni di isolamento (cui fa chiara allusione il sottotitolo di Real Again, NdLYS) e che hanno generato queste oasi di suoni perlopiù acustici e neo-folk.

Yay! è disco dalla bellezza abbagliante e dalla purezza ancestrale. Un lavoro che anche iconograficamente spezza con l’immaginario classico del gruppo, concedendosi un riferimento alla grafica del terzo disco dei Pavement e che gioca dunque con l’ironia cercando di sgravare il meno possibile l’atmosfera plumbea del periodo della sua genesi. Una rilassatezza che si riflette in tutte le dieci nuove tracce, compresa quella Hotel Daedalus che è la più complessa del lotto con le sue aperture orchestrali che rimandano a Let Them Eat Cake e le sue navate monumentali come una cattedrale del Seicento e che a tratti sfiora la placida lievitazione del miglior Robert Wyatt.

Yay! è l’album che più di ogni altro nella discografia infinita dei Motorpsycho riesce ad arrivare tanto in alto da toccare i piedi degli Dei, come un vortice ascensionale uguale a quello meraviglioso ed avvolgente delle cupole del Correggio. Incantevole e magnetico anch’esso.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE MAHARAJAS – In a frenzymental mood

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Pare che nel 1995 Jens Lindberg abbia lasciato di proposito la fredda casa di Stoccolma per andare in Grecia a conoscere minuscole glorie locali come i Cardinals e i Frantic V per carpire il segreto del loro suono intriso di malinconico folk/punk e che ne sia rimasto talmente colpito da voler subito provare a rielaborare egli stesso quel tipo di sound. Radunati Patrik Sjökvist, Ragnar Sjörén e Stefan Hellström mette dunque in piedi gli Hymen of Tounges. Tra il loro unico singolo e l’avvio dei Maharajas col solo Ragnar a seguirlo nella metamorfosi passano pochissimi mesi.

Quel passaggio è documentato da Something Moody…& Groovy!, otto tracce che mostrano le due facce della moneta usata alla corte dei marajà: spiccioli sonanti di garage-punk come I’m Gonna Leave, The Only Thing to Do o I’m the Greatest Lover  e qualche banconota “moody” come How Can I Go On? e It Has Happened to Me Before dove a farla da padrone è l’organo suonato su accordi lunghissimi e spesso in tonalità minore dallo stesso Jens o ancora I Still Believe o I Tried for a While, pieni di fosche tinte fuzz e cembali come nelle prime registrazioni dei Turtles. Come ai tempi dei Backdoor Men la tundra svedese vede sbocciare qualche salice piangente. Sotto, qualcuno si prodiga a raccogliere quelle 96 lacrime.

L’esordio “adulto” dei Maharajas ha attirato da un bel po’ di tempo le attenzioni dei più affezionati e attenti sixties-maniacs e questo per più di un motivo tangibile: la storia di Jens Lindberg anzitutto che dovrebbe ormai esservi nota ma che qui potremmo riassumere citando nel mucchio Crimson Shadows, Stomachmouths, Maggots; le attese cresciute con gli aperitivi delle precendenti uscite su Teen Sound e Loser Records; la curiosità di rivedere Mathias Lilja inserito in uno nuovo contesto dopo lo split degli Strollers, gli altri svedesi a cui va gran parte del merito di aver riportato l’attenzione di pubblico e critica verso un suono e una scena che sembravano sepolti dalle macerie.

E poi la necessità di confermare l’impressione di trovarsi di fronte ad un gruppo dalle capacità non comuni.

Impressioni ribadite invece da questo H-Minor che fin dal titolo è una celebrazione della dimensione più malinconica, mesta, intimista del suono anni ’60.

La qualità migliore di un disco come H-Minor è di non essere per nulla facile ne’ superficiale: la visione dei sixties offertaci dai marajà non è per nulla assimilabile a quella delle bands della scena neo-garage degli eighties, per intenderci. Ed è comunque distante da parecchia roba attuale pur presentando spesso ispirazioni analoghe a bands come Giljoteens o Frantic Five (o a bands tutte nostre come Head + The Hares e Others, NdLYS). Provate a prestare i timpani allo srotolarsi di Broken Heart e ditemi se non è una delle melodie più complesse ed intense in cui vi siete mai imbattuti. H-Minor mostra però anche un avvicinamento alle classiche armonizzazioni dei Beatles o degli Hollies in più di un punto, il che li rende forse più appetibili ai vecchi beats che ai moderni capelloni in cerca di suoni aggressivi, fuzz guitars e Vox in gran spolvero.

Ma queste sono CANZONI, non pantomime.

 

Jens Lindberg è un personaggio che ha attraversato tutta la storia del neogarage svedese senza perdere un briciolo del suo entusiasmo e trasformando in stile quello che era prima puro, brutale istinto teen. Eppure, malgrado sia stato coinvolto in venti anni di belle storie e scappatelle, il nuovo, secondo album dei Maharajas credo possa essere considerato per lui un passo cruciale. E lo è invece CERTAMENTE per la musica di matrice sixties.

Unrelated Statements è infatti il disco del ritrovato vigore per Jens che qualche anno fa aveva abbandonato i Maggots perché stanco del rock ‘n’ roll rumoroso, totalmente invaghito di un suono più moody, screziato di malinconie folk rock e di beat dall’impronta Mersey. E H-Minor, il disco dell’anno precedente, era fin dal titolo una celebrazione della dimensione più malinconica, mesta, intimista del suono anni ’60.

Un disco particolarissimo, figlio di un suono raffinato e per palati fini. Questo nuovo albo è invece un disco molto più “bilanciato”. Se infatti rimane certamente traccia di quel suono un po’ malinconico che tanto ha affascinato Jens negli ultimi anni (DeadTaste of TearsNice Guys Finish Last), ad esplodergli accanto sono alcune delle più belle garage songs dell’ultimo decennio: MedicationPlease Leave a MessageMaggot MockerYou for PresidentI Won‘t Die. Jens ha lasciato quindi che venissero fuori le due facce (ma andiamo per macrosistemi, perché a ben vedere le sfaccettature sono molto più complesse e basterebbe ascoltare qui pezzi come Alright! o Papas Dead per sincerarsene, NdLYS) della sua scrittura senza scartare nulla e a tirar fuori assieme ai suoi fidi compari un disco intrinsecamente sixties, nella forma e nel contenuto. Bravi Maharajas!

 

A Third Opinion conferma la Svezia come erede e custode del miglior suono neogarage. Se H-Minor era un disco immerso nella dimensione più malinconica, mesta, intimista del suono anni ’60, Unrelated Statements aveva celebrato il ritrovato il vigore r ‘n’ r dei giorni migliori per Jens Lindberg. Questo nuovo albo è, come quello, un disco molto “bilanciato”. Se infatti resta traccia di quel suono malinconico che tanto ha affascinato Jens negli ultimi anni (FlyingSunday GirlNight Has Come Today) ad esplodergli accanto sono alcune delle più belle garage songs dell’ultimo decennio come I‘m Crackin’ UpA Girl Instead of Me o Since You‘ve Been Away. Completo, sfaccettato, dinamico. Da quanto non ascoltavamo dischi così? Pensateci, quando vi rifileranno l’ultima pacchianata sotto l’effige del rock ‘n’ roll.

 

Gli svedesi hanno sempre mostrato gran classe nel rivoltare il 60s-sound. Discorso valido anche per i Maharajas che giungono al quarto album ribadendo la destrezza della band nel maneggiare la sua materia che non è il garage canonico della nave-scuola Crimson Shadows ma una sorta di sixties-punk “spurio” che potrebbe essere, oggi, un riadattamento del suono bastardo dei Flamin’ Groovies (un’eredità palese nel boogie di Repo Man e negli incalzanti retro rock di One Man Team, Yeah Yeah o Split Personality). Il meglio è tuttavia custodito nella zona centrale di In Pure Spite, soprattutto nei feroci assalti di Suckerpunch e New Sensation. Curiosa e banale l’impronta di Night of the Phantom su cui è ricalcata una canzone come The Boy Inside ma la citazione è funzionale al clima del disco. Ormai da anni, una certezza. 

 

Il sospetto che la band di Råcksta voglia disincagliarsi dal suono garage degli esordi per lanciarsi nel recupero di certo power-pop di scuola Flamin’ Groovies viene confermato dal singolo Sucked into the 70’s, pubblicato quasi a sorpresa tre anni dopo: Down at the Pub richiama subito alla memoria la Down at the Night Club di altri svedesi ma solo dal titolo: ci troviamo infatti davanti ad un pub-rock scattante e pieno di belle melodie alla Plimsouls. Una nuova direzione confermata anche dagli altri tre pezzi, tra i quali mi pare distinguersi la Stickers and Pins posta in chiusura, tutta carica di vecchi ricordi epoca Shake Some Action (Flamin’ Groovies) e Triangle (Beau Brummels) e delle cartoline estive di Stems, Hoodoo Gurus e ultimi Sick Rose.

I vecchi estimatori del suono in H-Minor rimarranno delusi, gli altri prendano la sdraio e si mettano al sole, prego.

Un’attesa lunghissima. Poi, di colpo, rientrano in pista i Maharajas. Con un disco, e un suono, nuovi. Stendendo un po’ di lucido power-pop sulla patina di malinconico folk-rock che era il tratto tipico dei loro dischi precedenti e che qui espande i suoi vapori su pezzi come

Hands of Tyme e Water to Wine, Yesterday Always Knew dà nuova verve al proprio song-writing. Canzoni come It Doesn‘t Matter AnymoreAre You Ready to ShopFamily ProviderTake Me HomeInto the UnknownNine-One-OneNothing in ReturnYesterday Always Knew danno la nuova misura di questo ritrovato gusto per la melodia a presa rapida e le chitarre scintillanti che vola tra Beatles, Raspberries e Hoodoo Gurus e che porterà sicuramente nuovi adepti alla corte dei marajà. Se le riviste che vendono ancora qualche copia riusciranno a fare il loro lavoro. E se chi le compra saprà leggere a dispetto di una copertina che forse meritava un po’ di cura in più.

Nonostante siano gli ultimi reduci della gloriosa tradizione neo-sixties svedese che infiammò l’Europa negli anni Ottanta, certificata dalla militanza di due di loro tra le fila di band come Crimson Shadows, Stomachmouths, Maggots e Strollers che ne convalida il pedigree, la storia dei Maharajas, non ha però mai riscosso grosse attenzioni anche se un nocciolo duro d’affezionati ha sempre drizzato le orecchie a ogni loro nuova uscita.

You Can’t Beat Youth è il sesto album della serie ed è un gradito ritorno al garage screziato di folk-punk delle prime uscite, “tradite” qualche anno fa per un leggero cambio di traiettoria in direzione power-pop. Episodi come Don’t Do It Again, Walk with Me, Everything O’Clock, Action Denied e la cover di How Many Times (non quella dei Rovin’ Flames ma bensì quella degli svedesi e contemporanei Satans), abilmente disseminati dentro i consueti territori malinconici della band svedese (Hurt Me Please, Dark Places, Too Late to Repent) sconfinano addirittura nei rovinosi giorni del garage-punk dei Crimson Shadows e sono tra le cose migliori del solito disco che ascolteremo in venti.

I rubini sui turbanti dei mahārāja svedesi sono innumerevoli. La Chaputa! ne raccoglie quattordici su Floor Killers. Che sono, di fatto, quelli rimasti esclusi dall’ottima Plug Sides uscita qualche anno prima in doppio vinile e che rappresentano il lato più meditabondo del loro garage sound che è sempre stato uno dei loro tratti distintivi e che qui esplode in tutta la sua bellezza su pezzi come What More Can I Do?Hang Out(Take a) Look at Yourself e What We Had tra arpeggi filigranati, un filo appena di organetto Farfisa e cori degni di Beau Brummels e Turtles. L’uniformità dell’insieme potrebbe alla lunga rivelarsi un difetto penalizzando il lato più groovy della formazione e ravvivando solo sporadicamente (Tell MeYou’ve Gone Your WayJust Let Him Go) il passo un po’ troppo contemplativo dell’intero lavoro, un po’ sulla falsariga di H-Minor (l’archetipo delle loro garage song in “minore” piene di muschi e licheni) o del recente E.P. delle “moody garage series” della Back to Beat Records, motivo per cui continuo a preferirgli il più “robusto” Plug Sides. Se invece preferite contemplare gli alberi spogli che come enormi stuzzicadenti tengono attaccati il cielo d’autunno alla terra, questo disco farà la vostra (malinconica) gioia.     

 

E alla fine, arriva la laurea. Dunque, via il turbante e giù coi tocchi.

Nel giorno del Natale 2022, con gli atenei chiusi, i Maharajas si laureano definitivamente alla magistrale di garage-rock svedese con 110 e lode e pubblicazione della tesi. Con grande merito, perché Rock ‘n’ Roll Graduates è forse il miglior disco realizzato dai Maharajas nella loro ormai lunga carriera discografica. Another Lover apre alla grande, con un suono cisposo autenticamente sixties nell’accezione che ne diedero le band di R ‘n B bianco di quel decennio e che è forse, nell’ambito settoriale in cui si muove il gruppo scandinavo, il più bel pezzo di questo 2022. Poi, la vertigine retroattiva ci cattura completamente facendoci precipitare in un cono di luce che ci imprigiona in una sequenziale catena che alterna potenti riff monoaurali (come quello che “inghiotte” You Know He Did degli Hollies, il wall of sound di distorsioni texane e organo elettrico di Never Coming Back o quello mastodontico di Don’t Need You Baby) ad altre pietre preziose (sono pur sempre dei marajà, NdLYS) come Bad Boy che è puro distillato della Summer of Love, le sinistre fumigazioni di I’m on My Way e gli scarti di beat psichedelico con cui ricoprono la pista di go-kart dei Banana Split su Stranger Everywhere.

I laureandi si avvicinino, affinché ricevano il bacio in fronte.  

                 

                                                                                         Franco “Lys” Dimauro

BABY WOODROSE – Love Comes Down (Spinello/Playground)  

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I Baby Woodrose escono fuori dalla boccia di liquidi sixties-punk di Dropout! ancora profondamente impregnati di quelle essenze: Love Comes Down è più arroventato dei dischi precedenti. Una scena del crimine dove le nitide tracce di folk-psichedelico in stile Lollipop Shoppe/Love ben si mischiano a chiare, evidenti impronte garage messe in evidenza già nel trittico d’apertura e poi ancora più avanti sui dardi di All Over Now, Chemical Buzz, Christine, Do Right, Born to Lose che si spinge fin dalle parti degli MC5.

Il risultato è un disco ancora una volta bellissimo, con piccole ragnatele folk come Nobody Knows e Lights Are Changing in grado di imprigionare le crisalidi della psichedelia di quarant’anni prima e regalargli il volo nel nuovo secolo.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE LUST-O-RAMA – Twenty-Six Screams (That’s Entertainment)

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Il primo ed unico album dei Lust-O-Rama, gloriosa formazione scandinava che per una breve stagione illuminò le notti boreali nei primi anni Novanta.

Non so se le urla sono realmente ventisei come dichiarato dal titolo ma ci sono eccome e, assieme all’uso invadente dell’organo, rappresentano l’impronta stilistica del combo di Oslo, mutuata direttamente dai progenitori Cosmic Dropouts e al cui trattamento sottopongono anche un pezzo come Run from Her dei Wylde Mammoths, assieme a vecchi classici di Larry and The Blue Notes come In and Out e Night of the Sadist cui in questa re-edition si aggiungono 1-2-5 degli Haunted e She Just Left dei Crawdaddys che sarebbe bella anche vestita di amianto. Il resto è tutta farina buona del sacco della formazione, in particolare di Arne Thelin che continuerà per tutta la vita ad inseguire il suo sogno retro-rock, diventando un cult-hero della scena neo-Sixties europea.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STOMACH MOUTHS – Speed Freak (Busy Bee)

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Raccolta striminzita, quella dedicata ai Signori del garage-punk scandinavo: dodici pezzi, tutti già editi, a fronte di quella monumentale Born Losers pubblicata venti anni fa e che, approfittando dello spazio offerto dal supporto compact, ne includeva ben ventitre. Questi compresi. Niente roba recuperata dai fondi dei cassetti dunque, ma solo un rapido excursus su episodi anche trascurabili (Eegah!, per esempio) che chi come me visse con trasporto quegli anni ricorda praticamente a memoria. Certo, quando ti passano sopra i cingoli uncinati di pezzi come Dr. Syn, Don’t Put Me Down, R&B No. 65, Don’t Mess with My Mind, Cry o quando assisti per l’ennesima volta alla scuoiatura a carne viva di un pezzo come Almost There non puoi non pensare che in fondo, nonostante ci abbiano detto che siamo fatti ad immagine di Dio, restiamo fondamentalmente prossimi alle scimmie e ai primati.

E non vorremmo essere in nessun altro posto se non qui, sui rami come loro.

Ad urlare come bertucce.

Come quarant’anni fa.

Come nella notte dei tempi.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro