DROOGS – Collection (Plug ‘n Socket)    

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Si avvertiva il bisogno di dare un bel ripasso al libro dei drughi, siccome l’ultima raccolta, quella storica della Music Maniac, risale a 18 anni fa. Questa nuova, curata direttamente dal gruppo, riparte praticamente da dove quella terminava: i Droogs, smessi i panni di prime-movers della scena neo-sixties (non scordiamoci che il loro primo 7” con covers di Sonics e Shadows of Knight uscì nel ’72, con Lenny Kaye ancora intento a riporre sugli scaffali i 45 giri usati per allestire Nuggets, NdLYS) diventano una band dal suono più articolato, che lambisce i Flamin’ Groovies e gli Stooges e flirta con gente come Steve Wynn e Jeffrey Lee Pierce il quale regalerà loro Call Off Your Dogs. La gente continuerà a pulirsi il culo coi loro dischi e a negarsi il piacere di canzoni come Set My Love on You, Webster Field e Jack of Trades e loro continueranno a non salire sul palco dell’Heineken Jammin’ Festival e ad ignorare chi siano i Finley e Omar Pedrini. Stone cold world….Stone cold world!

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

BLACK LIPS – Live @ WFMU (Dusty Medical)

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I Black Lips sono tutte le garage songs del mondo. Del tutto imperfetti. E quindi, completamente perfetti. Inutile scorrere i titoli di questo loro live registrato per il radio show di Dave the Spazz. Potete tranquillamente metterci i titoli che volete voi. Prendeteli da qualunque compilation di lerciume sixties punk e appiccicateceli sopra.

Alzate il volume e sentirete scorrere i Tamrons, le Pleasure Seekers, gli Huns, i Rats.

Li sentirete fare a brandelli. Non corpi, ma scheletri del rock ‘n’ roll. Come gli Stooges sulla carcassa di Louie Louie, mentre le bottiglie scavavano il petto di Iggy. Questo è il Metallic KO del garage rock, perchè nasce dalla stessa strafottenza, dallo stesso fottuto bisogno orgasmico di rovinare tutto, dalla stessa miscela drogata di frustrazione e orgoglio generate dalla consapevolezza di essere soli contro il mondo.

 

Franco “Lys” Dimauro

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R.E.M. – Dead Letter Office (I.R.S.)

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Un disco dei R.E.M. è indispensabile per sopravvivere all’estate. Come i ghiaccioli al limone o le minigonne (per chi le indossa e per chi si limita a guardarci sotto).

Un disco dei R.E.M. ma non uno qualsiasi, visto che ne hanno fatto di buoni per ogni stagione. Green o Out of Time starebbero bene in canotta e bermuda, è vero. Non fosse che qualche vezzo ne appesantisce la pingue. Tanto vale allora andare ancora indietro, ai R.E.M. “minori” e quasi clandestini di un disco sbieco come Dead Letter Office: la polaroid dei R.E.M. a un passo dal grande salto commerciale, ancora essenziali, ispirati dalla country music, dal minimalismo nervoso di Velvet e Feelies, dal jingle jangle cristallino di Roger McGuinn. E molto, molto svagati (come quando Stipe si diverte a leggere le note di copertina di un disco gospel trovato in studio sulla musica di 7 Chinese Brothers, o nella Walter’s Theme registrata durante una sbronza al Walter‘s Bar di Athens, NdLYS)  Sono i R.E.M. che rendono omaggio ai loro maestri e ai loro compagni meno fortunati come i Pylon la cui Crazy inaugura la raccolta e diventa, in tutto e per tutto, un pezzo di Michael Stipe e Peter Buck.

Un album di bonus tracks. Non messe in coda, ma a calcificare l’intera ossatura del disco, come “Hatful of Hollow” era stato per gli Smiths. E sono anche i R.E.M. più solari e spensierati che si siano mai sentiti, con la chitarra di Buck impastata col lievito byrdsiano e la voce di Stipe che biascica parole ancora appiccicate al palato (anche in italiano, come su Bandwagon) e quell’aria da college band che la band perderà proprio allora, alla soglia del contratto milionario con la Warner. Nessuna grande hit e nessuna guest star d’eccezione: KRS One, Patti Smith, gli U2, Thurston Moore, Kate Pierson, Q-Tip e le altre amicizie ingombranti hanno ancora troppi zeri di distacco sui loro conto-correnti. Dead Letter Office è un disco che non incute soggezione e che non chiede venerazione, non ha una calibratura da best-seller, nessuna orchestrazione ad effetto e zero voglia di stupire. È un disco messo su per salutare una band indie pronta al grande salto, motivata da Peter Buck con il proprio amore per i 45giri:

“mi sono sempre piaciuti molto di più i singoli degli album. Un singolo è più corto, conciso e ficcante, tutti valori che sembrano volare dalla finestra tanto più lontano quando si pensa agli album; ma la cosa che mi piace ancora di più dei singoli, è la loro funzione di discarica. Nessun problema riguardo alla confezione, nessuna attenzione ai dettagli, un 45 giri è ancora essenzialmente una crosta comprata solitamente dagli adolescenti. Questo è il motivo per cui i musicisti si sentono liberi di incidere qualsiasi cosa sul lato B; nessuno comunque l’ascolterà, perché non è così divertente. Puoi ripulire il cassetto degli esperimenti falliti, canzoni venute male, giochi di ubriachi e occasionalmente, una canzone compiuta che non si adattava allo spirito di un album. Questa compilazione contiene, come minimo, almeno una canzone per ognuna di questa categorie. Non è un disco da prendere troppo seriamente. Ascoltare questo disco dovrebbe essere come curiosare in un negozio di cianfrusaglie”.

Ecco, è quest’inclinazione al fun-fun-fun che lo rende così inevitabilmente estivo, così magistralmente pieno di quel vapore condensato che si respira nelle notti di mezza estate. Così necessario. Ora scusate, vado ad infilarmi il costume. Buone vacanze a tutti.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro  

BLOSSOM TOES – We Are Ever So Clean (Sunbeam) / If Only for a Moment (Sunbeam)  

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Imperdibili ristampe per i fanatici del pop inglese a vernice psichedelica queste due messe fuori dalla Sunbeam con gran spolvero di bonus tracks e liner notes curate da Brian Godding in persona. Uscito nel novembre di 40 anni fa, We Are Ever So Clean è uno dei dischi più geniali della stagione freakbeat, con intuizioni armoniche e melodiche, sovrapposizioni vocali e tonali e un uso mind-expanding dei canali stereofonici che non hanno niente da invidiare ai confetti psych di Beatles, Pink Floyd, Mothers of Invention e Tomorrow. Toni giullareschi che verrano abbandonati quando sul secondo LP la band si troverà a dover fare i conti con il fallimento del sogno flower-power e la tragedia del Vietnam: i toni si fanno più drammatici e duri (l’attacco quasi crimsoniano di Peace Loving Man ne diventa il manifesto più persuasivo, NdLYS) e il sogno, inevitabilmente, va in frantumi.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

COLDPLAY – Ghost Stories (Parlophone)

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Per il sesto disco della carriera i Coldplay decidono di raccontarci storie di fantasmi.

Un disco autobiografico, quindi.

Un album che simbolicamente va dunque oltre il punto morto degli ultimi dischi della formazione inglese dove si infieriva ripetutamente sulle salme sia pur rinsecchite delle belle canzoni dei Coldplay che furono.

Polverizzata quella materia che conservava in qualche modo una forma, seppur esanime, di quello che erano stati i Coldplay vivi di Parachutes e A Rush of Blood to the Head, ciò che rimane sono ectoplasmi annoiati che abitano stanze che puzzano di lenzuola ingiallite e che non fanno ne’ paura, ne’ orrore.

Scivolano e si lasciano guardare, in un ultimo, goffo tentativo di saziare il proprio narcisismo.

Non hanno corpo.

Non fanno ombra.

Non ispirano sorrisi e non cagionano lacrime.

Stanno sospese nella dannazione eterna di non essere ne’ vive, ne’ morte.

Il cielo è pieno di stelle.

Poi qualcuno toglie la trapunta e Chris Martin resta a guardare il nulla.

Anche la Luna è andata via, ripiegata nell’angolo stipato del cambio stagione.

Qualche fesso rimane a fissare il dito.

 

Franco “Lys” Dimauro

LYNNFIELD PIONEERS – Free Popcorn (Matador)

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Lynnfield è una minuscola città del Massachusetts che al rock non ha mai regalato alcunché se non questa band di “pionieri” costretti ad emigrare a New York per cercare un po’ di visibilità, senza mai ottenerla. Il loro era un suono di difficilissima catalogazione: ricordavano i Ween quanto i Make-Up, Beck quanto i Delta 72, Booker T quanto gli stacchi ritmici dei primi Funkadelic, gli (International) Noise Conspiracy quanto i Soul Coughing, mischiavano organo Farfisa e ritmica funky, amavano Captain Beefheart così come i Monks e Bob Dylan e la grafica dei loro dischi non invogliavano alla ricerca affannosa e non stimolavano chissà quale curiosità. Finirono per essere, insomma, una faccenda per gli addetti ai lavori cui i loro album arrivavano direttamente dal distributore di turno e godevano dell’allora prestigioso marchio Matador.

Free Popcorn era il secondo e ultimo, quello che aveva attenuato l’impatto del primo, quasi zittito le chitarre e aumentato il volume dell’organo fino ad ottenere un suono “strappato” che sembrava indugiare, profanandolo, sul sound degli Stereolab (Feels So Good, Cross Fade, Astral Plane). Certamente non un disco da portarsi su Saturno, ma con dentro dei numeri di grande effetto come Anamaxamender costruita spezzettando e rimontando una vecchia canzone turca, il lo-fi pavementiano di Wide Open Spaces, i Red Hot Chili Peppers in versione sci-fi di The Accolades, il vortice chitarristico di Exoskeleton che ricorda quello di Youth Against Fascism. Ecco, su Saturno no, che tanto manco ci andremo. Ma un paio di giri sull’autoradio li merita senz’altro.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro                                                                             

DEPECHE MODE – Black Celebration (Mute)

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Nel 1985 sono i singoli Shake the Disease e It’s Called a Heart a traghettare i Depeche Mode dalle fucine metallurgiche di Some Great REWARD al forcipe color canna di fucile di Black Celebration, la vetta più cupa toccata dal quartetto fino a quel momento.

Il tono del disco è quasi melodrammatico tanto che i synth sincopati di Here Is the House, l’unico momento che richiama i vecchi dischi, appaiono totalmente fuoriluogo e quasi sacrileghi dentro questa immensa cattedrale di oscura decadenza, questo viaggio alla ricerca del lato oscuro fitto di simbolismi e metafore carnali che sono mutilazioni inflitte al proprio ego, corpi sedotti dal dolore, impassibili davanti all’amore. E quando Dave Gahan alza la sua ostia insanguinata per dare inizio alla messa, tutti sono già inginocchiati.

La registrazione a 48 tracce consente al suono di “respirare”, anche se si tratta di aria con poche molecole di ossigeno e tutto sembra per la prima volta occupare un posto preciso, definito, strategico, come in un gioco geometrico perfetto dove anche le voci hanno un ruolo dinamico mai avuto in precedenza (Sometimes, che richiama alla mente quell’altra perla di solitudine incorporea che è Asleep degli Smiths e It Doesn’t Matter Two vivono praticamente solo degli incastri vocali che la band sta sperimentando da un po’ allontanandosi sempre più dal cliché del “gruppo con cantante” e inseguendo la formula dell’alchimia perfetta).

I Depeche Mode diventano i sopravvissuti del dark inglese, senza mai averne fatto parte.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BEVIS FROND – High in a Flat (Cherry Red)

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Nient’altro che una raccolta propedeutica al piano di ristampe che Cherry Red ha previsto per l’intero catalogo di Mr. Nick Saloman. Venti reissues che presto ingolferanno il mio già nutrito scaffale dedicato a Bevis Frond.

Dischi carichi di una via psichedelica del tutto personale e naif che metteva assieme Hendrix, i Seeds, Barrett, i Byrds, gli High Tide, i Jefferson Airplane, i Cream, Country Joe and The Fish senza tuttavia riuscire a scrivere mai una sola canzone memorabile (ma andandoci vicino con Lights Are Changing su Tryptych).

Una Treccani del rock acido che a me non ha mai detto granchè, nonostante Nick non abbia lesinato riff e parole, in una carriera ormai quasi trentennale.

High in a Flat ne mette in sequenza sedici risalenti ai primi cinque anni di produzione, dall’esordio Miasma al New River Head del 1991 e può farvi decidere se e quanto sia il caso di mettere da parte i vostri quattrini per approfondire la conoscenza con il mondo incantato (ma non incantevole) di Bevis Frond.  

 

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro

 

REM – Accelerate (Warner Bros.)    

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Per avere tra le mani un disco dei REM nuovamente dignitoso occorre attraversare il guado di dieci anni di dischi non solo inutili ma oggettivamente brutti.

Il ritorno allo splendore è Accelerate, anno di grazia 2008.

Veloce e immediato (35 minuti contro i sessantacinque di Up, i cinquantaquattro di Reveal e i cinquantasei di Around the Sun), Accelerate è il disco-Viagra del quartetto di Athens, il primo e l’ultimo buon disco dopo la dipartita di Bill Berry.

Un album arrabbiato e cazzuto, come i REM non riuscivano a fare da tempo, forse addirittura dai tempi di Document, di vent’anni prima. 

Nonostante l’annunciata presenza di un produttore di tendenza come Jacknife Lee (l’uomo dietro How to Dismantle an Atomic Bomb degli U2, An End Has a Start degli Editors e A Weekend in the City dei Bloc Party ma di cui nessuno ricorda gli album incisi in proprio, NdLYS) faccia presagire disastri in direzione “anche noi siamo una band moderna”, Accelerate si muove su territori consueti (Until the Day Is Done è perfetta per gli amanti che hanno scopato in auto con Automatic for the People dentro il mangianastri, Houston per chi è riuscito, chissà come, a trovare qualcosa di buono dentro New Adventures in Hi-Fi, Hollow Man per quanti aspettano ancora il ritorno di quel cazzo di Uomo Sulla Luna, NdLYS) riscoprendo una verve garage che si pensava sepolta: Living Is the Best Revenge, Supernatural Superserious (fatevelo piacere, bacchettoni, perché nonostante sia il giro più scontato dai tempi di Smells Like Teen Spirit, è uno dei pochi che ricorderete di questo 2008 che ha ancora tre mesi di vita e puzza già di vecchio, NdLYS), Man-Sized Wreath (sempre fantastico ai cori, Mr. Mills), Accelerate, Horse to Water, I‘m Gonna DJ (che strizza l’occhio alla Song#2 dei Blur) hanno un tiro che può far grattare il capo a più di un gruppetto che si ostina a vendere la merda di casa come fosse un pregiato muffin alla cannella in nome di un presunto certificato di appartenenza che, fortuna loro, nessuno ha mai preteso venisse esibito.

Accelerate è disco con cui val la pena tornare ad innamorarsi dei REM.

E che per l’unica volta fa piazza pulita dei puntini tra una lettera e l’altra.

Fanculo la punteggiatura. Acceleriamo.  

                                                                                                           Franco “Lys” Dimauro

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THE WRONG SOCIETY – Songs Society Taught Us (Hammer Kirche Vinyl)

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La copertina è di pessimo gusto, perché di pessimo gusto i personaggi ritratti, ma l’album d’esordio di questa band di Amburgo merita la nostra attenzione in virtù di un bellissimo suono garage che spazia dal beat marcio al grungey-folk fino ad infilare le mani nel sixties-punk e nel maximum R ‘n B, con un organetto a dettare le linee armoniche, le chitarre che raramente si concedono qualche strappo alla regola base del beat e un’ottima cura nell’armonizzazione vocale che ne fanno un disco squisito da impilare orgogliosamente nel calderone delle uscite di ambito neo-sixties contemporanee.

Magari sacrificandone la copertina.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro