CODE BLUE – Code Blue (Warner Bros.)

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Lasciati i Motels prima che diventassero i Motels, Dean Chamberlain forma i Code Blue, una delle tante meteore del power-pop californiano, una di quelle band marginali alla storia del rock che a me piacciono un sacco. Come del resto mi piace un sacco il loro album omonimo, pubblicato nel 1980 dalla Warner Bros., un disco che si muove da una ballata ammiccante come Face to Face tutta gingillante di arpeggi e armonici ad una scatenatissima Other End of Town che verrà ripresa dieci anni dopo dai Droogs, da un reggae di filo spinato come Burning Bridges a una luminosa garage-song come The Need finita cinque anni dopo, a band ormai dissolta assieme ad altri due pezzi dei Code Blue medesimi e a quelli ben più torbidi di Cramps e Horseheads nella bella colonna sonora de I ragazzi della porta accanto , da uno scattante inno mod buono per le corse in Lambretta come Whisper/Touch senza mai perdere di classe a una Somebody Knows che picchia come uno sfollagente ad un raduno oi!.

Una piccola meraviglia perduta dentro la clessidra del tempo.

           

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

THE MONSTERS – The Hunch (Record Junkie) 

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Dilapidate tutte le finanze per registrare un disco più professionale del debutto, i Monsters sono costretti a lasciare lo studio di registrazione prima di aver completato il lavoro e obbligati a completare The Hunch con alcuni estratti di un concerto all’ISC di Berna con un nuovo batterista dietro i tamburi.

Il deragliante treno psychobilly dei Monsters sembra inarrestabile, sbuffando di fumi garage rock e di combustibili rock ‘n’ roll che rimandano ai Cramps, ai Mɘtɘors e ai Polecats e annerendo di fuliggine tutta la Svizzera.

I riferimenti agli inferi e ai mostri da fumetto e letteratura di serie B si sprecano (The Creature from the Black Lagoon, Honeymoon at Hell, The Hunch, Teenage Werewolf, Wicked Wanda, Day of the Triffids, I Came from Hell) e fanno da immaginario consono alla causa abbracciata dal terzetto di Berna, trasformata per una volta in una Transilvania alpina.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GENE – Drawn to the Deep End (Polydor) 

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I Gene salgono sulla scogliera. Inspirano profondamente, trattengono l’aria nei polmoni, si chiudono le narici con la mano destra e si lanciano nelle acque blu.

E atterrano di pancia.

Drawn to the Deep End è la storia di un tuffo altissimo, olimpionico direi. Che però fa solo un sacco di spruzzi.

I continui paragoni con gli Smiths che li hanno perseguitati fin dal primo singolo hanno evidentemente toccato le corde nascoste dell’orgoglio di Rossiter e compagni costringendoli da un lato a rivedere il proprio stile di scrittura e dall’altro a mettere in mostra le loro ambizioni che non sono ovviamente quelle di essere degli Smiths di Serie B.

Il risultato è Drawn to the Deep End, disco inutilmente laborioso ed elaborato.

New Amusements, il pezzo che introduce l’opera, ha ad esempio una intro di ben un minuto e mezzo. Poi la voce di Rossiter arriva alitando sul microfono prima che tutto prenda una forma, che non è quella sperata. Con la voce di Martin che cambia registro prima che, al terzo minuto esatto, torni al consueto timbro morriseyano che conosciamo, creando un bipolarismo che si protrarrà ben oltre i sette impegnativi minuti del primo brano. Il tuffo è fatto, ormai. Non resta dunque che gestire l’apnea e tentare di risalire a galla. Cosa che i Gene affrontano non senza qualche difficoltà, perché rispetto ad Olympian il nuovo disco sembra portare con sé una non meglio precisata zavorra che gli impedisce in qualche modo di nuotare a braccio come era riuscito senza difficoltà due anni scarsi prima. Pezzi come The Accidental, I Love You, What Are You, Why I Was Born, Sub Rosa, rischiano di trascinarli giù come mezzibusti di marmo e anche quando annaspando risalgono in superfice, certe boe cui si aggrappano (Voice of the Father, We Could Be Kings, Speak to Me Someone, Fighting Fit) sembrano pericolosamente scivolargli tra le mani dopo pochi minuti.

Noi dalla riva restiamo ad incitarli, mentre il cielo del brit-pop sembra promettere pioggia.      

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

UZEDA – The Peel Sessions (Strange Fruit)  

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Venti anni dopo la PFM sono i siciliani Uzeda a potersi vantare di essere la seconda band italiana fra le oltre 2000 band in totale ad essere chiamata da John Peel a registrare direttamente dentro gli studi della BBC dove il deejay inglese conduce dal 1967 il suo radio show. E così l’8 maggio del 1994 un panzer catanese fa il suo primo ingresso nei Maida Vale 4 e scarica punzonatrici, seghe circolari, scarificatori, martelli pneumatici, frese, trapani a colonna e un aspiratore per ripulire gli studi dagli scarti di lavorazione. Gli Uzeda sono pronti a registrare i sei pezzi che troveranno anche la gloria di una uscita discografica per la storica Strange Fruit. Tre panni sporchi tirati fuori dall’oblò di “Waters”, altre tre lastre di metallo appena sfornate e rivettate a velocità impressionante davanti ai nostri occhi e soprattutto sotto le nostre orecchie. Higher Than Me e Slow sono virulenti cicloni noise che preludono ai cataclismi vertiginosi di 4 e Different Section Wires.

Da quelle Peel Sessions gli Uzeda non torneranno più uguali a quelli di prima.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

TY SEGALL – Three Bells (Drag City)

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Il Ty Segall di Three Bells è la versione “in solitaria” dei Motorpsycho di Yay!, ovvero un sublime campionario di “folk progressivo” in cui tutte le sue influenze, dal glam-rock ai Pretty Things psichedelici passando per il fascino subito (e anche questo condiviso col gruppo norvegese) per certo hard-rock triviale, trovano terra feconda dove germinare generando un variopinto carosello di rifrazioni e suggestioni diversificate che contemplano in egual misura l’articolazione grumosa di My Best Friend, il glam decadente di Void, la bucolica rarefazione nell’ordito alla Arthur Lee di The Bell, il riff pneumatico di Hi Dee Dee e quello zappiano di Move, il sofisticato mostro proto-meccanico di I Hear, la riduzione del prog-rock in forma di riassunto di Denée e il giocoso incedere di To You con le sue farciture di elementi ludico-onomatopeici giù fino all’acustica, cantabile ninna nanna di What Can We Do.

Tutto, senza perdere un solo millimetro di spessore ma allo stesso tempo senza mai risultare ridondante. Ty Segall si fa spazio all’interno della sua stessa, enorme, caratura e ne fa un nido accogliente. Fuori, suonano le campane.

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE SMILE – Wall of Eyes (XL Recordings)

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Dall’incorporeo all’extracorporeo. Questo è stato il salto antropologico che ha segnato il passaggio dai Radiohead agli Smile. Musicalmente, l’approdo ad una visione neo-romantica sottoforma di illanguidimento, rarefazione, asimmetria, estenuazione dei movimenti musicali laddove prima si assisteva invece alla loro meticolosa destrutturazione neo-avanguardista, alla loro frantumazione.

Quella degli Smile è musica per deltaplani, che volano fino a lambire i piedi dei Buckley e il poliuretano della seggiola a ruote di Wyatt, e che si spingono in quota fino a prendere fuoco, come nel finale di Bending Hectic, non prima di aver lanciato un estremo sguardo al mondo da lassù e dare un ultimo etereo saluto prima di lasciarsi cadere a spirale, come accade in Read the Room. E centrando, fra mille occhi, quello del Brasile.

Chitarre, pianoforte e tanto, tantissimo spazio dentro la musica degli Smile. Spazio a forma di imbuto come il pozzo osceno dell’Inferno dantesco ormai sgombro di demoni. Ad imbuto come la forma del nostro torace quando siamo in preda alla Sensucht. Ad imbuto come il cappello dell’uomo di latta, costretto a rinunciare all’amore e a doverlo rincorrere all’infinito. Ad imbuto come il separatore per l’etere. Che è quello di cui loro si nutrono e del quale ci trasmettono la fame.        

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ROXY MUSIC – For Your Pleasure (Island)

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Lo strand era stato uno dei tanti effimeri fenomeni coreografici che dalla metà degli anni ’50 e per circa un decennio aveva tentato la conquista del pubblico giovane riunito attorno al totem del juke-box. A proporlo, come forma di ballo di coppia, era stata Maureen Gray nel 1962, finendo nelle classifiche Billboard ma inabissandosi successivamente come corista di lusso per artisti come Bob Marley, David Bowie, John Lennon o Eric Clapton.  

Dieci anni dopo lo strand viene riportato “in auge” dai Roxy Music, anche se stavolta si tratta di qualcosa d’altro: una sorta di meta-danza empirica che dovrebbe coinvolgere tutte le arti, citando illustri predecessori come Leonardo da Vinci, Picasso e Nabokov fra i suoi estimatori.

Do the Strand apre il secondo album come una sorta di nuova Virginia Plain promettendo fuochi d’artificio che loro stessi si apprestano a spegnere sin da subito, abbassando le luci fino a farci confondere la silhouette di Bryan Ferry con quella dell’Elvis Presley confidenziale, prima di abbagliarci di nuovo con Editions of You, la cosa più assimilabile al proto-punk cui la band si sia mai avvicinata, con sax e moog a barrire all’unisono, come pachidermi messi in allarme dal nostro safari non annunciato. In realtà la band continua ad essere satellitare a tutto, mutando passo e ribilanciandosi ad ogni pezzo, finendo per lambire le terre teutoniche dei Can nella lunga The Bogus Man e sprofondando nell’abissale laguna nella spooky-song esistenziale di In Every Dream Home a Heartache col suo giardino appassito a far da concime ad un sepolcreto hippie.

Un disco che indaga sui mille volti del piacere e sui modi per tenerla al guinzaglio mentre la portiamo a spasso ad esplorare mondi inospitali.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE UNCLAIMED – Creature of the Maui Loon (Teen Sound)

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La gioia colorata suscitata dall’annuncio del ritorno degli Unclaimed si tinge della cupa tinta dall’eigengrau che ha avvolto la comunità filo-sixties alla notizia della morte di Shelley Ganz, vero mentore di tutto il revival garage fiorito nei primi anni Ottanta.

Lui, Shelley, il primo ad aver saputo aggiornare quei linguaggi senza restarne schiavo e allo stesso tempo senza svilirne o alterarne i codici, riproducendone la valenza semantica e riproiettandola fuori dalla capsula temporale che li aveva generati. Lui l’ultimo a credere ancora nella forza di quella musica, a non aver abdicato dal suo “incarico” (e a non aver ceduto se non in minima parte sul suo conflittuale rapporto con la tecnologia, NdLYS) nonostante una salute non più florida e un problema dello spettro visivo sempre più invalidante.

La purezza della sua musica si avverte tutta in questo Creature of the Maui Loon, disco-capolavoro che, anche scrollandosi di dosso il commosso ricordo del suo autore, resta opera scintillante oltre ogni più azzardata aspettativa.

L’adesione allo stile Unclaimed è totale. Ed uguale lo smalto. Solo loro riescono a trasmettere questo senso di svolazzante leggerezza, questo scampanellio festoso che avvolge ogni traccia che raggiunge il culmine su Just Can’t Understand dove Shelley si prende anche la licenza di fischiettare (solo lui potrebbe) e che si alterna ai rivoli del fuzz, solo loro custodiscono il segreto di quel “beat” inossidabile che qui si fa spazio, ad esempio, su Hunters and Gatherers o Calling All Girls e la capacità di farcire con un gusto esotico sfuggente canzoni come Maui Loon senza risultare ridondanti.

Solo loro hanno la capacità di evocare lo spirito dei due “Sean” di San Jose (e se non sapete chi sono avete proprio sbagliato recensito, recensione e recensore, NdLYS), a mitigare sapientemente ogni eccesso eppure a risultare ultra-primitivi come accade nei capolavori (Not So Good) Queen Bess e Guitar M-Sheen Gun.

Shelley ascende al cielo con un disco nuovo sotto il braccio lasciandoci qui stupiti da tanta bellezza.

Ora siede alla destra del dio Maui.

E insieme pescano proprio ad un tiro di schioppo dalle Hawaii.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LOVE – False Start (Blue Thumb)

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Per il secondo album su Blue Thumb Arthur Lee tenta il colpaccio, invitando agli Olympic Studios dove sta registrando False Start il suo amico Jimi Hendrix.

Arthur e Jimi si sono conosciuti cinque anni prima, quando entrambi sono ancora dei signor nessuno che girovagano per Los Angeles: il primo è uno stanziale che sbarca il lunario scrivendo canzoni, il secondo sta girando l’America assieme a Little Richard quando viene invitato a prestare i suoi servigi su un singolo di una piccola stella locale chiamata Rosa Lee. Uno dei due pezzi è scritto da un tale Arthur Lee, che si trova in studio per assistere alla registrazione e per prenderne parte come corista proprio quando Hendrix varca la soglia. L’amicizia tra i due è immediata e continuerà anche quando entrambi diventeranno delle stelle di prima grandezza e un intero oceano li separerà. La collaborazione fattiva si realizza però solo nel 1970, proprio col pezzo scelto come apertura di False Start dove la chitarra di Jimi disegna gli svagati arabeschi che sono caratteristici del suo stile e che sono anche uno dei marchi di fabbrica del nuovo stile di Arthur Lee e dei suoi Love. L’album è meno prolisso del suo predecessore e rappresenta una sorta di tributo all’Era dall’Acquario, con la sua versatile e forse un po’ forzata scelta di apparire colorato ed ottimista ad ogni costo (Gimi a Little Break, Anytime, Keep on Shining, Love Is Coming, Feel Daddy Feel Good, Flying), impregnandosi di umori caraibici e di soul psichedelico alla stregua di quello della Family di Sly Stone.

Imperfetto come le imperfezioni che caratterizzano le belle donne rendendole fascinose ed uniche ed osteggiato dalla critica che invece vuole le donne solo mansueti animali da copertina, False Start è invece disco che quando passa merita ben più di un furtivo sguardo al fondoschiena.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

E.T. EXPLORE ME – Drug Me (Voodoo Rhythm)

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Un “ACE Tone Compact Drum’n’Bass Psych Punk LSD Massacre”. Così recita la cartella stampa della Voodoo Rhythm presentando il terzo album degli olandesi E.T. Explore Me, esposto ancora più dei due precedenti verso il synth-pop tanto da arrivare a strizzare l’occhio alla disco. Mutante, alternativa, eterodossa, avant-funk, androide, ludica, retro-futurista, chiamatela come volete, ma il terzetto viaggia ora decisamente (anche se non in senso assoluto) verso quella direzione, con risultati altalenanti e memori del Tiefcombinatorische postulato da Shumann: un pezzo come Punch, per esempio, è una roba pazzescamente glamour col suo piglio alla Fall che potrebbe fare impallidire i tanti loro epigoni che da qualche anno inflazionano il mercato. Ark, che lo segue, è invece una sorta di esperimento alla Air un po’ troppo fine a sé stesso. Più avanti Radiate si configura invece come uno spasmo post mortem dei Suicide che non può non provocare un sussulto di piacevole diletto, così come la successiva 98% che invece liofilizza i Girls Vs. Boys o, quasi in chiusura, la Lipstic Vibrators che riesuma i dEUS dei primi, bellissimi dischi. Pezzi come Imperia o J sembrano, di contro, assecondare la propensione per la musica “d’ambientazione” senza in realtà portarci da nessuna parte.

Il gusto schizofrenico, del resto, è sempre stata una caratteristica degli E.T. Explore Me, ribadito in uno dei caroselli più funambolici e dissacranti degli ultimi anni. Il che, fa parte del divertimento malsano cui ci chiamano a partecipare. E noi, accorriamo ancora una volta.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro