Mettere a soqquadro il mondo con una chitarra. Anche se è una porzione di mondo. Anche se quella chitarra è più un vestito per coprirsi che un’arma per mettersi a nudo.
Polly Jean ha un nome da bambolotto. Il nome di una donna in miniatura. Un nome da cartoon del primo pomeriggio. Incidentalmente, un nome che ricorda una delle prime canzoni dei Nirvana, poi finita su quel Nevermind che in qualche modo avrebbe spianato la strada a questo suo primo album in proprio, rappresentato da un labbro spiaccicato sul vetro e da un acronimo chiamato a sostituire il suo nome.
PJ Harvey si presenta al mondo radendo al suolo ogni stereotipo sessuale.
In quelle labbra sfoggiate con così poca sensualità, così “asciutte”, così segnate dal freddo, nell’esibizione cruda, fragile di quel posto di desiderio tramutato in un alloggio scomodo viene in qualche modo annientata, dissimulata, disinnescata ogni passione carnale.
Dry diventa il posto dove viene raccontato l’amore di un corpo disidratato. Un amore che non conosce il tintinnio dei calici. Un amore cui il destino non ha concesso di diventare adulto. Un amore che è un precipitato di polveri, un concentrato di residui fissi, senza neppure un dito di vino dentro cui poter galleggiare. E tutto, qui dentro, ha questo analogo sapore.
Basso, chitarra, voce, batteria un medesimo rumore di detriti e di ruggine.
Di ossa. Di corpi asciutti come rami in un inverno che non ci ha neppure degnati del suo pianto.
Troppo impura per la Too Pure, Polly Jean Harvey approda alla Island per la pubblicazione del suo secondo disco.
Accanto a lei ci sono ancora Robert Ellis e Steve Vaughan, di fronte a lei invece stavolta c’è lo stupratore Albini, a portare quell’irresistibile tocco Pixies che fa di Rid of Me uno dei dischi irrinunciabili di quel 1993.
È grazie alle mani di Steve che il suono di Harvey si dinamizza, come fosse una boccetta di gocce omeopatiche.
Folate di distorsione che spazzano il pavimento sudicio del Pachyderm Studio che la band ha noleggiato per tutto il dicembre del 1992.
Proprio com’era stato per Surfer Rosa dei Pixies e come tornerà ad essere, appena due mesi dopo e proprio negli stessi studi, per In Utero dei Nirvana (che lo sceglieranno proprio dopo aver ascoltato il suono di Rid of Me, NdLYS).
Abrasione come concetto-base di una forma moderna ma altrettanto economica di canzone folk.
Perché questo è, in fondo, la musica di Harvey.
E non serve la cover “rivisitata” di Highway 61 per ricordarcelo.
Minimalismo blues e folk cui piace ogni tanto vestirsi come una femmina da bordello (Man-Size Sextet avvolta nei toni drammatici dei violini e sfuggita, per questo, dalle grinfie dello stupratore) e servito sul vassoio di rumore dell’era grunge.
Il canzoniere di Polly è tuttavia ancora privo di canzoni indimenticabili.
Quello che piace di Rid of Me, lo si ammetta o meno, è l’atmosfera psicotica complessiva, il saliscendi emozionale che pervade l’intero album, la tempesta elettrica che avvolge una donna dal corpo esile e macilento, l’urlo anoressico di un’odalisca che ha perso l’anima in un campo di cotone della Louisiana e la verginità in una provincia qualsiasi del sud-ovest dell’Inghilterra.
Leccami le gambe, sono in fiamme.
Lecca le mie gambe avvolte dal desiderio.
Polly Jean si battezza da adulta.
Si battezza platealmente. Immersa nell’acqua per intero, vestita di raso rosso.
Volgare e anoressica puttana punk.
È il 1995, lei ha ventisei anni.
Suona e scrive canzoni da dieci anni, ovvero da quando la sua strada ha incrociato quella di John Parish. Finisce come corista nel suo gruppo e lì apprende i rudimenti di ogni strumento: chitarra, armonica, pianoforte, sassofono, basso. Quanto basta per farcela da sola, man mano che i suoi gusti musicali si sono affinati passando dalla sbornia duraniana alla scoperta dell’indie rock e del blues orripilante del capitano Beefheart.
Parish rimane però sempre al suo fianco. Un’ombra accanto alla sua.
Anche adesso che Polly ha deciso di battezzarsi, Parish è accanto a lei, paterno e amoroso. Lei non può farsi male, adesso. Può naufragare nel suo dolore con la certezza che lui sarà lì a tirarla su un attimo prima di affogare. Ecco perché To Bring You My Love suona così drammatico e doloroso sfiorando la tragedia senza tuttavia lasciarsi annientare. È uno zeppelin in fiamme che arriva a toccare terra dopo aver lasciato una scia di fumo nero al carbonio al posto delle nuvole.
Polly Jean porta il suo amore, in apnea, finchè non riemerge dalle acque paonazza, livida come una rosa senza più aria da respirare, dopo aver incontrato i suoi mostri e aver invocato un Dio che non ha mai cercato tanto prima d’ora e del quale ora avverte un estremo bisogno.
Ho imparato a pregare dice su Teclo.
Ti scongiuro, Cristo, portami il suo amore impreca su Send His Love to Me.
Dio mio, stammi vicino stanotte implora alla fine su The Dancer.
John le porge la mano dal bordo vasca, lei emerge col make up sciolto e il vestito appiccicato sulle ossa, si sfila il coltello dalle costole e lo consegna nelle mani del suo protettore.
Il suo amore è salvo.
La vasca è sgombra.
Piccole gocce rosso porpora si accendono come rubini dentro le acque nuovamente quiete.
Dance Hall at Louse Point, il disco che esce a ridosso di To Bring You My Love e che ufficializza il rapporto artistico fra la Harvey e Parish ha una coerenza stilistica meno definita rispetto ai lavori solisti della cantante inglese. I due si dividono equamente il lavoro, dedicandosi una alla stesura dei testi, l’altro alla scrittura delle musiche, adattandosi vicendevolmente l’un l’altra. Un disco dalla doppia anima e dalle molte facce, toccando territori cacofonici cari a Captain Beefheart, sgambettando zoppa come nei blues di Tom Waits, mostrando torbide maschere di terrore noise alla Sonic Youth ma defluendo pure in certe ballate gotiche che diventeranno uno dei canoni stilistici dei Blonde Redhead più maturi che danno a PJ la possibilità di giocare con registri timbrici diversi (da Taut a Lost Fun Zone ci passa dentro tutto quello che la Harvey vocalmente è capace di regalare). Il livello di attenzione tuttavia rimane scostante al pari del repertorio, con piccoli momenti di stanca che ne frammentano l’ascolto.
Il desiderio, carnale e spirituale, che divora il corpo di Polly Jean dall’interno trova nuove domande su Is This Desire? dove l’innesto di suoni digitali si sovrappone agli strumenti di Mick Harvey, John Parish, Eric Drew Feldman, Jeremy Hogg, Joe Gore, Terry Edwards, Richard Hunt e del ritrovato Rob Ellis.
Il risultato è un disco increspato e scricchiolante che anticipa di due anni quanto poi verrà applicato dai Radiohead per il fortunato Kid A (si ascolti la sequenza The Garden/Joy), una ansimante galleria di ritratti di donne infelici a dispetto dei nomi che sono stati loro inflitti a beffa di una vita miserevole (Joy, Angelene, Elise, Leah, Catherine). In questo rosario di anime tormentate e di corpi abusati, ci sono uomini che vanno (per sempre, come il Jeff Buckley portato via dal Mississippi raccontato su The River) e vengono (con la patta gonfia di desiderio e le tasche colme di denari, come quelli che bussano alla porta di Angelene o col cuore sanguinante come il Giuda di The Garden).
Rispetto all’immaginario stagnante e claustrofobico di To Bring You My Love, i personaggi ingombranti di Is This Desire? si muovono e percorrono distanze, come a doversi perennemente confrontare, più che con l’ambiente che li ospita e con gli elementi naturali ed artificiali, con le ombre che li imprigionano alla terra.
Condannati alla morte, come tutti.
E all’attesa.
Stories from the Cities, Stories from the Sea, il disco con cui la Harvey infila il tunnel del nuovo secolo è un disco DA PAURA. Senza esagerazioni. Infili il disco nel lettore e, appena sistemato il culo sul giro di Big Exit, hai PAURA di aver sbagliato disco. Resisti, un attimo di imbarazzo, parte Good Fortune e vai a controllare se Gung Ho di Patti Smith sia bello tranquillo nella sua custodia o sia per caso caracollato fuori. Quando ti accorgi che in effetti nessuno lo ha mosso dalla sua polverosa posizione sullo scaffale, allora comincia a insinuarsi la PAURA di aver sprecato il tuo denaro. Al terzo brano, cominci davvero ad avere PAURA che questa agonia non abbia mai fine. E così, giunto alla fine dell’opera (opera???? operetta da avanspettacolo, semmai….. NdLYS) lo vai a sistemare in alto, perché hai PAURA che la tentazione di andarlo a riascoltare per scoprire che “no, non può essere così” e “deve pur esserci qualcosa di vicino a una buona canzone” si faccia avanti. La trojetta che saltava dal letto di Steve Albini a quello di Nick Cave è ora una puttanella da quattro soldi, di quelle che carichi solo mettendo in mostra il macchinone nuovo e l’autoradio potente. John Parish, che qualcosa deve aver intuito, ha ritirato le fiches, alzato il culo e lasciato il tavolo verde. Voleva giocare a Risiko e ora si sarebbe trovato al Gioco dell’Oca. Dopo un antipasto, un primo e un secondo portentosi, un buon contorno e un dessert prodigioso, la signorina Harvey sembra essere arrivata alla frutta e il mio invito è quello di sparecchiare velocemente e togliere il disturbo.
E invece la Harvey non molla.
Il ritorno al primitivismo dei primi dischi è chiaro sin dal grugnito scelto come onomatopeico titolo e al selfie casalingo usato per la copertina che ricorda in qualche modo quello di Dry. PJ Harvey torna dunque a casa dopo la passeggiata notturna per le vie di New York, lasciando Times Square e i suoni laccati del suo precedente disco per rifugiarsi nella quiete di Uh Huh Her. Una serenità turbata dalla morte della nonna la cui perdita influenzerà alcune scelte vocali adottate per le canzoni che Polly ha già finito di abbozzare, come You Came Through e The Desperate Kingdom of Love chiusa con un simbolico volo di gabbiani. Un disco che torna all’essenzialità che era andata smarrita nei dischi immediatamente precedenti e con cui la Harvey si riappropria in toto della propria musica e, forse per la prima volta, sembra volerla trattare in maniera gentile, volerla accarezzare, volerci giocare senza aggredirla, regalandoci piccole perle folk avvolte nella carta crespa come The Letter, il breve intermezzo di No Child of Mine o The Darkest Days of Me and Him.
L’amore si muove nell’ombra, come un assassino.
Polly gli mostra il collo.
Fuori è il deserto.
Dentro, piove.
Smessi i panni di Patti Smith vestiti con discutibile gusto su Stories from the Cities, Stories from the Sea, Miss Harvey si diverte ad indossare quelli di Tori Amos per White Chalk. Un album che andrebbe consegnato ai negozi e dai negozi a noi con uno sticker che ci avverta della sua fragilità. White Chalk è infatti un disco di cristallo al cui ascolto ci si sente come degli elefanti all’interno del Museo del Moser.
Il suo approccio dilettantesco al pianoforte fa di White Chalk, l’album pensato “attorno” a quello strumento, un lavoro intenzionalmente vulnerabile.
I tasti d’avorio diventano più delle stampelle per sostenere il cantato flebile di Polly Jean che un tappeto melodico su cui stendere le parole ad asciugare.
Ogni picchiettio dei martelletti, un piccolo ematoma si forma sulla carne bianca delle gambe di Polly.
A forma di torta di mela della nonna.
A forma di cuore.
A forma di dolore ricurvo.
A forma di metastasi.
Se il precedente lavoro cointestato con il fidato Parish nasceva in qualche modo come parallelo “sperimentale” al lavoro ufficiale di Polly Jean, A Man a Woman Walked By, seconda sortita in coppia ha, in questa ottica, molto meno senso venendo dopo due album come Uh Huh Her e White Chalk dove la sperimentazione vocale e musicale della Harvey ha avuto modo di liberarsi da ogni prigione creativa per toccare vertigini di primitivismo o di impalpabilità che erano via di fuga dalla banalità cui il disco del 2000 stava rischiando di imprigionarla.
E infatti pare che il “bisogno” di realizzare questo nuovo lavoro duale sia nato più da un evento fortuito (il ritrovamento della demo del bellissimo, “carnoso” brano che inaugura la raccolta) che da precise necessità artistiche. Come nel disco di tredici anni prima, si tratta di una raccolta disomogenea per stili ed atmosfere, una sequenza di smorfie incomparabili una con l’altra, un’audizione multivalente atta a rilevare l’abilità dell’interprete di vestire panni e ruoli diversi, peraltro già ampiamente dimostrata sui dischi in proprio e qui ribadita senza alcuna difficoltà, anche quando la scrittura di Parish sembra affievolirsi e non riuscire ad andare oltre l’abbozzo o viene abilmente disinnescata dal lavoro di Flood, attento a non sovraccaricare artificialmente il lavoro ma operando sovente per sottrazione (come nella Passionless, Pointless dove la linea di chitarra viene del tutto cancellata per dare maggior risalto all’aridità angosciosa espressa dalla voce).
Una donna e un uomo che passeggiano insieme. Infeltriti e carichi di pioggia.
La civiltà occidentale è ormai al suo declino, anche artistico.
Ci vorrebbero dei nuovi Bob Dylan, dei nuovi John Lennon, dei nuovi Pete Seeger, delle nuove Joan Baez, dei nuovi Billy Bragg, dei nuovi Woody Guthrie, dei nuovi Paolo Pietrangeli.
Bisognerebbe trovare i nuovi Clash, i nuovi Redskins o i nuovi Stormy Six e invece non ce ne sono.
Ogni paese deve dar fondo a quello che ha.
E in Inghilterra hanno PJ Harvey, che, in questo naufragio, ha sentito il bisogno di scrivere il suo disco politico.
Un disco di folk moderno, fatto di suoni acustici e di cocci.
Ne riconoscerete qualcuno (le trombe da battaglia che affiorano e scompaiono come fantasmi lungo The Glorious Land e il refrain di Summertime Blues su The Words That Maketh Murder molto probabilmente) e ne ignorerete altri (l’eco di Istanbul (Not Constantinople) che incombe per tutta la decadente e tenebrosa title track, degna dei Banshees di Hyæna, per esempio NdLYS).
Conchiglie disseppellite dal vento che infuria su queste spiagge dove i cadaveri sembrano corpi di donne stese a prendere il sole.
Un disco dove la disillusione marcia a fianco di un esercito cencioso e sfinito sulla polvere di una terra devastata. Let England Shake è un album dove le parole contano più della musica, come è giusto che sia su un disco che cerca di suturare le ferite di quei soldati spossati, un album che finirà per piacere tanto agli inglesi e un po’ meno altrove, soprattutto nella nostra italietta dove le concessioni alla melodia e al ritmo contano sempre più di tutto il resto.
Qui, in questo paese dove le radio continuano a passare canzonette che galleggiano sulle acque putride che coprono i cadaveri dei diritti umani, canzoni come il pianto funebre di England, l’invocazione celtica di On Battleship Hill o la triste ballata di Hanging in the Wire non bucheranno l’etere.
Nessuno si accorgerà di loro.
Nessuno le fischietterà, perché loro non sono venute qui per questo.
Let England Shake è il gemito di un mondo dolorante.
Non affannatevi a cercare la vostra canzone dell’anno, non è qui.
Forse è rimasta anche lei in spiaggia.
Come un corpo di donna stesa a prendere il sole.
Probabilmente non respira.
Ad un certo punto della propria carriera Polly Jean ha sentito il bisogno di deviare il punto focale del proprio lavoro. Brutalizzando potremmo dire che, avendo quasi completato la vivisezione del proprio lato emotivo, si trasforma da psicologa in cronista. Una curiosità da reporter la porta a sfogliare prima tra le memorie delle sua terra (Let England Shake) e poi fra la polvere e le macerie delle terre afgane e kosovare, creando The Hollow of the Hand prima e questo The Hope Six Demolition Project subito dopo che rappresenta il compimento musicale di quel “desiderio di respirare l’aria e incontrare la gente di quei paesi” da lei dichiarato in occasione della presentazione del libro e che allarga lo spettro di osservazione (forse eccessivamente) fino a criticare apertamente il già tanto discusso progetto di riqualificazione urbanistica washingtoniano denominato Hope VI, ergendosi a paladina di guerre sociali che le appartengono solo marginalmente, il che rende la tematica del disco meno appassionante e coinvolgente rispetto a Let England Shake.
Se dunque la Polly mi era apparsa credibile quando raccontava delle tribolazioni dell’esercito britannico, lo è molto meno quando cerca di parlarci di Lincoln e del fiume Anacostia o quando ci parla delle comunità periferiche della capitale americana o disserta sui ministri della difesa e degli affari sociali.
Il risultato è dunque un altro disco da battaglia, come lo fu quello che lo ha preceduto di ben cinque anni, ma privo di quel senso patriottico che aveva arricchito quello di un pathos primordiale e lo aveva reso viscerale ed intenso, pur nella sua struttura quasi fatiscente.
Una sorta di pow-wow tribale con accordi asciutti di chitarre, grande sfoggio di tamburi, qualche inserto di sax chiamato a sostituire il suono dei corni da battaglia e ciondoli a scacciar via il male come unghie di capra.
I pernottamenti americani non sono artisticamente di grande ispirazione per la Harvey. Ogni volta che ci parla delle sue città e delle genti che le popolano, rischia di sciupare gran parte del suo carisma. Noi, di sciupare il nostro tempo.
La musica di PJ Harvey si fa via via sempre più filigranata, quasi fosse una versione spettrale del trip-hop degli anni Novanta.
L’artista inglese ha coperto le sue canzoni con un drappeggio alla Christo da cui sporgono le costole. Le sue e quelle delle sue canzoni, sempre più gracili ed evanescenti. Nuovamente nude come quando nacquero, tre decenni fa.
I Inside the Old Year Dying è un disco fitto di quelle ombre che i mesi estivi sembrano volerci negare e cui invece sono dedicati diversi brani dell’album, ma non sono ombre rigeneranti, non sono oasi verdi che ci concedono frescura e ristoro. Eppure, in qualche modo, sono ombre generate da alberi di ghiaccio, da giungle di stalattiti che colano come nasi raffreddati.
Sempre più vicina al disturbante mondo di Thom Yorke e dei Radiohead, la Harvey ci trascina dentro un gorgo di musiche inafferrabili, di strutture malconce, di architetture frananti, di polveri industriali disposte a forma di pupazzi di neve. Madide di pioggia come stracci imbevuti di sudore freddo. Canzoni che portano carezze per una pelle che sembra refrattaria al tatto. Ninne nanne per cuori che reclamano una coperta anche nei mesi estivi.
La Harvey diventa la tata che tutti vorremmo al nostro fianco, la Mary Poppins che tira fuori dalla sua valigia un attaccapanni, uno specchio, una pianta, un paralume, un paio di scarpe lilla. E noi ci infiliamo dentro la testa e non riusciamo a vedere nient’altro che la stoffa di un tappeto, neppure volante.
Franco “Lys” Dimauro