PJ HARVEY – I Inside the Old Year Dying (Partisan)

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La musica di PJ Harvey si fa via via sempre più filigranata, quasi fosse una versione spettrale del trip-hop degli anni Novanta.

L’artista inglese ha coperto le sue canzoni con un drappeggio alla Christo da cui sporgono le costole. Le sue e quelle delle sue canzoni, sempre più gracili ed evanescenti. Nuovamente nude come quando nacquero, tre decenni fa.

I Inside the Old Year Dying è un disco fitto di quelle ombre che i mesi estivi sembrano volerci negare e cui invece sono dedicati diversi brani dell’album, ma non sono ombre rigeneranti, non sono oasi verdi che ci concedono frescura e ristoro. Eppure, in qualche modo, sono ombre generate da alberi di ghiaccio, da giungle di stalattiti che colano come nasi raffreddati.

Sempre più vicina al disturbante mondo di Thom Yorke e dei Radiohead, la Harvey ci trascina dentro un gorgo di musiche inafferrabili, di strutture malconce, di architetture frananti, di polveri industriali disposte a forma di pupazzi di neve. Madide di pioggia come stracci imbevuti di sudore freddo. Canzoni che portano carezze per una pelle che sembra refrattaria al tatto. Ninne nanne per cuori che reclamano una coperta anche nei mesi estivi.

La Harvey diventa la tata che tutti vorremmo al nostro fianco, la Mary Poppins che tira fuori dalla sua valigia un attaccapanni, uno specchio, una pianta, un paralume, un paio di scarpe lilla. E noi ci infiliamo dentro la testa e non riusciamo a vedere nient’altro che la stoffa di un tappeto, neppure volante.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

DEPECHE MODE – Disease Pop

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Tuffarsi negli anni Ottanta vuol dire spesso fare un bagno nella merda. Sintetica, ma pur sempre merda. A Nord-Est di Londra, ad esempio, esordiscono i Depeche Mode, che da quella merda si tireranno fuori egregiamente ma dopo averci nuotato a lungo.

Ma, senza il senno del poi che rende più semplici e deformi tutte le cose, Speak & Spell resta uno dei dischi peggiori di tutto il synth-pop che abbonda nella Gran Bretagna, con buona pace per le folle oceaniche che anni dopo si raduneranno ai piedi di Dave Gahan e soci. Canzonette per ragazzini coi ciuffi laccati suonate da altri ragazzini coi ciuffi laccati. Roba al cui cospetto anche il coevo esordio dei Duran Duran sembra grande quanto il Taj Mahal, pensata per e costruita con le macchine e, come quelle, senza anima. Melodie che più che accattivanti risultano pateticamente irritanti come le tinture per capelli (I Sometimes Wish I Was Dead, Just Can’t Get Enough, Tora! Tora! Tora!, Nodisco, New Life, Boys Say Go!) che convogliano le intuizioni dei Kraftwerk verso il nulla cosmico delle sale da ballo generando mostri come l’Italo-disco e l’europop di cui il mondo avrebbe fatto volentieri a meno.

 

La defezione di Vince Clark è sorprendentemente indolore: la scrittura dei pezzi passa dalle sue mani a quelle di Martin Gore senza intaccare il sound dei Depeche Mode, anzi conferendogli un vago senso di cupezza che diventerà poi il tratto peculiare dei dischi più maturi e che via via sostituirà l’aria sbarazzina dei primissimi tempi.

Alan Wilder, chiamato a sostituire il vecchio amico, non è ancora entrato nei ranghi in maniera ufficiale e dunque A Broken Frame è realizzato, per così dire, con un arto amputato. L’artificio sintetico però è ancora una volta più una “copertura” per sdoganare ariette da canzonette pop anni Sessanta alla Herman’s Hermits come See You, A Photograph of You e The Meaning of Love e i tentativi di emanciparsi da quella formula, che pure ci sono (Monument su tutti) sono ancora impacciati come i capitomboli di un pulcino che ha appena scavalcato per la prima volta il guscio dell’uovo, inciampandovi.

 

Il 17 novembre del 1983 dentro gli studi milanesi di Rete 4 ormai ad un passo dal diventare il terzo polo televisivo della Fininvest, si consuma l’ennesimo carosello di luoghi comuni e ironia sciatta firmata Mike Bongiorno. Tocca stavolta ai giovanissimi Depeche Mode far buon viso a cattivo gioco e cercare di dissimulare l’imbarazzo.

L’unico ad uscirne indenne è l’ultimo arrivato. Si chiama Alan Wilder ed è stato arruolato come semplice macchinista. Eppure al neo-assunto piace di tanto in tanto mettere le mani sul timone. E così i Depeche Mode si trovano un po’ alla volta su una rotta leggermente sfasata rispetto a quella prefissata, andando ad incagliarsi fra i rifiuti industriali che arrugginiscono sotto il pelo dell’acqua, salvandosi dalla banalità del solito giro in yacht dove gli idoli del new-romantic si abbronzano ad un sole che a stento riscalda. Construction Time Again è il disco che ridefinisce per primo il suono dei Depeche Mode, lavorando sulle timbriche (vocali e strumentali) e sulle tematiche che adesso puntano anche in maniera diretta al sociale e al politico, inaugurando un processo che darà il “prodotto finito” dieci anni dopo, spegnendo le luci una alla volta e diventando sempre più cupi e claustrofobici di disco in disco.

La percezione della mutazione in atto è tangibile in tracce come Pipeline, The Landscape Is Changing, Love, in Itself e soprattutto su Everything Counts, il primo pezzo a calibratura perfetta della band. Altrove, qualche idea ma pochissima sostanza e quattro facce da bimbo che devono ancora cercare il varco perfetto per accedere al mondo della credibilità artistica.

 

La ridefinizione del loro stile attraverso il prudente ma determinante innesto di suoni industriali all’interno del banale synth-pop dei primi anni trova compimento e consapevolezza con Some Great REWARD, l’album dello scarto definitivo, quello che consegna ai Depeche Mode un qualche posto nella storia della musica moderna salvandoli dall’effimero. Se il disco precedente risultava ancora “scucito” e slegato, Some Great REWARD esibisce una compattezza fino a quel momento inedita per il gruppo inglese. Una coesione che non è tanto dettata da un’omogeneità di suono che di fatto non c’è bensì dalla percezione evidente, tangibile di trovarsi davanti ad un disco importante, ad un salto di statura artistica, ad una pregnante mutazione di pelle, alla definizione di un carattere simile a quello che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta che per i Depeche Mode si concretizza tra i suoni meccanici di pezzi come Master and Servant (con un geniale campionamento di scatarri a simulare lo schioccare delle fruste sadomaso), Something to Do, People Are People (realizzata con degli “scarti di lavorazione” dei Fad Gadget trovati negli studi Hansa) e Blasphemous Rumours e il decadente e cupo romanticismo di Somebody e It Doesn’t Matter che odorano di Mitteleuropa e di Berlino. In quest’ottica, lo scatto di copertina risulta incredibilmente azzeccato: l’immaginario industriale, già evocato su Construction Time Again con una silhouette che richiamava le pose operaie dei Test Dept, adesso diventa seducente e romantico.

Il sociale diventa scenografia indissociabile dal personale. I Depeche Mode salvano sé stessi e il synth pop dal termovalorizzatore degli anni Ottanta.       

 

Nel 1985 sono i singoli Shake the Disease e It’s Called a Heart a traghettare i Depeche Mode dalle fucine metallurgiche di Some Great REWARD al forcipe color canna di fucile di Black Celebration, la vetta più cupa toccata dal quartetto fino a quel momento.

Il tono del disco è quasi melodrammatico tanto che i synth sincopati di Here Is the House, l’unico momento che richiama i vecchi dischi, appaiono totalmente fuoriluogo e quasi sacrileghi dentro questa immensa cattedrale di oscura decadenza, questo viaggio alla ricerca del lato oscuro fitto di simbolismi e metafore carnali che sono mutilazioni inflitte al proprio ego, corpi sedotti dal dolore, impassibili davanti all’amore. E quando Dave Gahan alza la sua ostia insanguinata per dare inizio alla messa, tutti sono già inginocchiati.

La registrazione a 48 tracce consente al suono di “respirare”, anche se si tratta di aria con poche molecole di ossigeno e tutto sembra per la prima volta occupare un posto preciso, definito, strategico, come in un gioco geometrico perfetto dove anche le voci hanno un ruolo dinamico mai avuto in precedenza (Sometimes, che richiama alla mente quell’altra perla di solitudine incorporea che è Asleep degli Smiths e It Doesn’t Matter Two vivono praticamente solo degli incastri vocali che la band sta sperimentando da un po’ allontanandosi sempre più dal cliché del “gruppo con cantante” e inseguendo la formula dell’alchimia perfetta).

I Depeche Mode diventano i sopravvissuti del dark inglese, senza mai averne fatto parte.

 

Music for the Masses riapre un effimero squarcio nel cielo plumbeo dei Depeche Mode. Un temporaneo (e molto ironico) ritorno alla “musica per le masse” dopo la sferzante parentesi glaciale di Black Celebration che però segnava in qualche modo un punto di non ritorno e il cui ermetismo permane come un’armatura di metallo anche su queste nuove tracce, nonostante il basso funky di un pezzo come Sacred, la pulsante disco-music di Behind the Wheel, il (terribile) soul alla Eurythmics di I Want You Now, l’interludio pianistico di Pimpf, il ricorso alle vecchie marimba sintetiche di Nothing o l’appeal commerciale di brani come Never Let Me Down Again e Strangelove. Al di là di tutto però i Depeche Mode sembrano aver smarrito il bagaglio, voluminoso e pesante ma anche pieno di mistero, del disco precedente. Sembrano richiamare l’attenzione verso uno spettacolo che cerca il compromesso fra il fascino dark finalmente giunto a germogliazione e l’insopprimibile desiderio di mostrarsi permeabili ai bagni di folla. Da quel momento i Depeche Mode restano impiccati al confine fra art-rock e pop da stadio, finché morte non sopraggiunga.

 

Sulla soglia del decennio che sta per iniziare, i Depeche Mode sono in qualche modo i soli superstiti dell’ecatombe che ha scacciato il synth-pop dai gusti del pubblico e che ha costretto chi voleva sopravvivere a trovare vie di fuga alternative. Nel 1990, i Depeche Mode sono, di quella stagione, gli unici a credere ancora nella supremazia delle macchine e diventano l’ostinato baluardo di quel vecchio mondo che presagiva un progresso che poi aveva invece virato da un’altra parte. Ne pagano in qualche modo il prezzo sulla pelle e a rischio delle proprie vene. Ma per loro si aprono le porte del grande successo. Non più le nicchie dei dancefloor alternativi pieni di zombi ma i grandi stadi delle rockstar. Il processo graduale che li vede incorporare nel loro suono elementi industrial da una parte e strumentazione rock dall’altra giunge a piena consapevolezza con Violator, il disco che rappresenta l’ostinata adesione al genere ma anche l’affrancamento dalla sua prigione stilistica. La missione quasi eucaristica di Black Celebration giunge al suo compimento e con una compattezza che supera anche la statura di quel disco di cui adesso ci viene svelata la sua apocalittica profezia, con i suoni che giungono quasi ad una perfezione pinkfloydiana (la cui eco permea Clean). I Depeche Mode raggiungono la compiuta definizione del loro stile in una sorta di Aida contemporanea, con gli sfarzi del tempio di Vulcano e le oscure fauci della prigione di Radamès che si sovrappongono, come in un vorticoso proscenio mutante.

I Depeche Mode diventano in qualche modo i Michael Jackson del pop elettronico inglese, diventando come quello facili bersagli o idoli pagani. E lo fanno con un disco bellissimo.

 

Agli inizi degli anni Novanta il blues si infila dentro le macchine dei Depeche Mode.

E ha la forma di un diavolo, come sempre.

In cambio di una popolarità che si misura adesso con concerti sold-out e record di vendite, chiede di poter stare sul palco con loro.

Anche lui ha il suo ego da rockstar. E vuole provare quell’ebbrezza.

Ne parla col gruppo e trovano un compromesso: lui si trasformerà in una Gretsch White Falcon e Martin Gore lo terrà in braccio come un lattante.

Alla band sembra un buon affare.

Si stringono la mano, brindando al nuovo decennio.

Non sanno Martin, Dave, Alan e Andy che il Diavolo avanzerà pretese sempre più grosse, pur mantenendo l’accordo pattuito: i Depeche Mode diventano la band di synth-pop più popolare del mondo, valicano i confini della musica elettronica per trasformarsi di colpo nella band più influente sulle nuove generazioni di musicisti e fan del globo, dai Nine Inch Nails agli Here, dai Fear Factory a Marilyn Manson.

La loro vita artistica tocca vertici irraggiungibili, mentre le loro vite private precipitano rapidamente verso il baratro, in un preludio di Inferno che ha il gusto perverso di una ripicca diabolica.

Mai firmare una polizza sulla vita senza leggere tutte le clausole.

Quando esce Songs of Faith and Devotion, il 22 marzo 1993, la band ha già i nervi a pezzi, anche se il peggio deve ancora arrivare.

Sul disco lavorano tutti, per l’ultima volta.

Compreso il diavolo, sempre in braccio a Martin Gore.

Sarà quella presenza ingombrante che la band cercherà di esorcizzare con alcuni dei brani più intensi e spirituali che abbiano mai scritto ed interpretato.

Come Condemnation o Get Right with Me, veri e propri gospel dell’era digitale.

Il suono dei Depeche Mode, ormai sempre più lontano dalla dance sciocca ed ermafrodita di I Just Can‘t Get Enough si fa virile e truce e dilania il corpo del rock dall’interno, stravolgendo le sue matrici digitali, adattando la sua intelligenza artificiale, rimodellando il proprio scheletro di plexiglass, scoprendo che gli umani affidano le proprie sconfitte a una cosa chiamata fede e i propri successi a qualcosa che chiamano devozione.

Loro provano a guardare al cielo, alzando il capo da una fenditura della roccia che li ha inghiottiti fino al collo.

Tra le braccia di Martin Gore la Gretsch White Falcon ruggisce e latra come una chimera furiosa.

 

Se Violator era stato il disco di un drappello sopravvissuto (degnamente) all’affondamento della corazzata synth-pop degli anni Ottanta, Ultra è l’album dei Depeche Mode sopravvissuti a loro stessi e in parte resuscitati: Dave spreca nel giro di pochi mesi tre delle sue vite da gatto nero, Alan Wilder sfiora l’impatto con la morte che ha la forma di un aereo militare, Martin Gore è bruciato dalle crisi epilettiche, Andrew Fletcher dalle turbe depressive.

I labili equilibri privati si rispecchiano in un equilibrio precario collettivo con la dipartita di Alan Wilder rendendo il nuovo album orfano di una delle menti creative del gruppo. Il risultato finale è un lavoro che cerca in qualche modo di apparentarsi con le musiche dance e la decostruzione industrial dei Nine Inch Nails dall’altro. Un disco dalle atmosfere distopiche che suona come una Madchester senza l’ombra di un sorriso. Un album greve come la situazione morale richiede ma dal cui ascolto si esce stremati e moralmente devastati. Uno specchio nero che riflette le sagome pallide e ricurve dei suoi autori.

 

Dilatate le uscite, anche le atmosfere dei Depeche Mode si fanno rarefatte e a tratti carezzevoli. L’elettronica martellante lascia il posto a piccole punte di spillo, come un’agopuntura che possa curare la band dal dolore che ha attraversato e che sembra essere culminato, artisticamente, con Ultra. A volte però, capita che durante la seduta ci si possa addormentare. Ed è quello che succede, ahimè, all’ascolto di Exciter arrivati già alla quarta traccia a causa dell’anima quasi-ambient dei pezzi che seguono all’atmosferico singolo Dream On messo in apertura e che fanno tacitamente tesoro del glitch-pop che nel frattempo ha invaso il pianeta dopo le sperimentazioni dei Radiohead. A svegliarci dal torpore arriva The Dead of Night, robotizzata versione dei Depeche Mode più rumorosi cui però manca il gancio giusto per rinnovare il brand della band britannica. Poi, si precipita di nuovo in un sonno senza fine, appena turbato dall’incubo house di I Feel Loved e attraversato addirittura da oniriche immagini che ci fanno apparire in sogno gli Spandau Ballet vestiti come i pinguini di Burt Bacharach. Ma si tratta solo di Breathe, orribile piagnisteo romantico-orchestrale che inaugura l’ultima porzione di un album fatiscente.

 

Quando si ha difficoltà ad approcciarsi al futuro è spesso più conveniente tornare a guardare al passato per ritrovare la propria identità. E così dopo quell’Exciter che di eccitante aveva davvero poco, ecco i Depeche Mode riprendere in mano il vinile di Ultra e guardarlo con nostalgia. L’idea è dunque quella di tornare a quel tipo di sound ma con un ottimismo che all’epoca di quel disco era ovviamente impossibile da ottenere, nel loro laboratorio ormai devastato.

Playing the Angel riparte esattamente da quelle macerie, annunciato da un singolo come Precious che è DM al 100%. Forse riparte ancora qualche metro più indietro, dagli scintillanti anni Ottanta in cui le macchine elettroniche promettevano una libertà moderna ed infinita. La sensazione tuttavia è quella che i Depeche Mode tendano a disperdere la loro energia e a diluirla in dischi interminabili, rielaborando all’infinito formule ed idee che invece reggerebbero a malapena per la metà del tempo e che risultano sempre più slegate fra loro. Playing the Angel mostra una band imprigionata fra passato e futuro, in un presente che è una voragine incolmabile di noia ben apparecchiata.

 

Le pecche creative di Playing the Angel si fanno ancora più evidenti su Sounds of the Universe. Si tratta perlopiù di escamotage sonori che cercano di tenere a galla una creatività ormai poco lucida, un synth-pop nostalgico che si muove fra retro-futurismo e quella sorta di disco-music riprogettata in Italia dai Subsonica.

Nulla di più.

A tratti sembra di aprire una confezione scaduta dei Tears for Fears. Un vasetto di marmellata pieno di funghi e muffe che sembrano colonie di piccole creature aliene con le case a forma di ragnatela.

L’unica cosa che si salva è Hole to Feed, un piccolo mostro funk sulle stampelle che ricorda i Wolfgang Press e che mostra un briciolo di carnalità e di virulenza in questo asettico ultimo saluto all’uomo-macchina.

 

Delta Machine è lo sbocco creativo dei due dischi precedenti, il punto in cui le macchine inceppate di Playing the Angel e Sounds of the Universe in qualche modo si sbloccano. Un album che ha una sua compiutezza nonostante la compostezza formale che lo contraddistingue e il suo passo misurato. Non che non ci sia da scremare anche stavolta (pezzi come The Child Inside, Should Be Higher o quel rigurgito dell’album precedente che è Alone, per esempio, girano a vuoto inutilmente) ma complessivamente Delta Machine regge al compito che gli è stato assegnato: quello di tenere in vita con ventilazione meccanica un gruppo che ha astutamente mescolato il concetto di band con quello di brand e che dalla “moda passeggera” degli esordi si è trasformata in un marchio da atelier.

 

All’improvviso il mondo si è spostato e i Depeche Mode sono rimasti con una foglia di fico attaccata alle palle. Cercando di allungare i bordi per coprire il più possibile le loro nudità, come Adamo al cospetto di Dio.

Però, alla fine, una foglia è una foglia. E non può essere di più.

Spirit è quella foglia lì, costretta suo malgrado a camuffare la vulnerabilità di una band che tutto sommato ha realizzato il sogno yuppie degli anni Ottanta trovando un lavoro da dirigente d’azienda di tutto rispetto, riservandosi magari il sabato sera per poter fare un po’ di caciara e sudare senza l’apprensione di aver macchiato la camicia sotto le ascelle. Un “arrivismo” che è già “arrivato”, e dunque privo di sorprese se non quelle soprese grigie da ufficio. Qui ce ne giusto un paio, la migliore delle quali è So Much Love, che è summa di tutti i Depeche Mode dell’ultimo decennio, con le note sparute di chitarra, il motorik ritmico e una vaga aria da gospel western.

Il resto è roba da disbrigo pratiche, con il massimo dell’efficienza e il giusto rispetto delle scadenze. Chiacchiericcio politico da scrivania o da macchinetta del caffè. Per ingannare il tempo e, forse, anche noi.

 

La morte si è intrecciata spesso alla storia dei Depeche Mode, come un’edera selvaggia e predatrice. Fino a che è riuscita a portarsi via Fletch, il fusto che sembrava avere le radici più salde. A valle della dipartita di Andy Fletcher i due Depeche Mode superstiti si sono buttati nella realizzazione di Memento | iяoM annunciandone l’uscita con un video in cui citano la memorabile partita a scacchi de Il settimo sigillo e presentandolo in anteprima mondiale al Festival di Sanremo. Continuando dunque a giocare con la morte.

Ora, una volta ascoltato il disco per intero, mi sembra evidente che gran parte delle lodi piovute su un lavoro che è invece il paradigma di un synth-pop ormai agonizzante, sia dovuto alla suggestione generata proprio dalla dipartita del rosso Fletcher e dalla sensazione (errata) che l’album sia, per argomenti e atmosfere, una sorta di omaggio alla sua memoria. Successe anche con l’ultimo Bowie, per certi versi: molti cercarono di farselo piacere ad ogni costo, fino a riuscirci una volta deciso che era un testamento. Fosse stata una pergamena, molti lo avrebbero usato per altro. E così Memento | iяoM ti/ci costringe ad ascolti ripetuti pur di cavarne quel poco di buono che c’è (le frustate di Never Let Me Go e l’atmosfera Massive Attack di My Cosmos Is Mine ad esempio) e poter dire che “malgrado tutto” i Depeche Mode continuano a fare ottima musica, mentendo a noi stessi almeno quanto loro mentono a noi già da un po’ di anni. La musica della band in realtà si trascina sul pavimento come uno di quei cadaveri con le gambe mozzate in certi film horror, e fanno più ridere che paura.

E, si, ci ricordano che tutti dobbiamo morire.

O che in realtà siamo già morti e quelle che vagano sulla Terra sono solo le ombre delle nostre anime. E che noi stiamo assistendo ad uno spettacolo di Wayang Kulit.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

EVERYTHING BUT THE GIRL – Walking Wounded (Virgin)

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Appena pochi mesi dopo la pubblicazione di Amplified Heart il sogno d’amore fra gli Everything but the Girl e la loro etichetta storica si interrompe.

Siamo nella metà degli anni Novanta e per stare sulla breccia occorre entrare in sintonia con i suoni elettronici che impazzano un po’ ovunque: house, jungle, drum ‘n’ bass, big beat, trip-hop. Ed occorre prendere possesso dei “club”, i posti dove accadono le cose.

Ben Watt e soprattutto Tracey Thorn ne sono consapevoli ma non hanno l’audacia giusta per provare. Così, in attesa di trovare il coraggio (ma anche la tecnica necessaria a Ben per passare dalla chitarra al laptop) e un nuovo contratto, affidano a mani altrui una traccia del loro ultimo album. Risultato: Missing diventa, nelle mani di Chris & James, Ultramarine, Little Joey e soprattutto in quelle Todd Terry, una delle canzoni che domina radio e locali per tutto il 1995. Forte di un successo inimmaginabile (Missing la si sente ancora oggi nelle “serate ‘90” dei disco-club di tutto il mondo, Italia compresa, in qualche spot o serie tv oppure rivisitata da altri, ultimi in ordine di tempo i Level 42, NdLYS) il duo può ricevere un buon anticipo dalla Virgin per produrre il nuovo disco, che si intitola Walking Wounded ed è di nuovo un piccolo giardino di delizie (Mirrorball su tutte). Ben è impegnato oltre che a costruire le linee melodiche e un paio di testi, anche la maglia di beat elettronici che sorreggono tutto il disco.

Che è ancora una volta immalinconito dalla pioggia, anche se stavolta è gelida come quella che bagna Roy Batty su Blade Runner. Se i paesaggi sonori possono risultare alieni, la voce di Tracey rappresenta la “comfort zone” dove i vecchi fan del gruppo possono sentirsi a casa, godendo dell’abbraccio dei “vecchi” EbtG. Che sono ancora, dopo una dozzina di anni, un gruppo che sa abbracciarti.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

CASINO ROYALE – Sempre più vicini. (Black Out)  

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Nel 1995 i Casino Royale vengono a raccogliere quanto seminato con Dainamaita.

E lo fanno con un album strabiliante che rimette ordine nella confusione, in parte  voluta e in parte obbligata, che dominava il disco precedente.

Per smerigliare il suono ispido di quello vengono chiamati Ben Young e Roberto Vernetti. Le chitarre scompaiono quasi del tutto, alleggerite e “sospese”  su un sound pastoso, densissimo, moderno, edificato sulla sovrapposizione di suoni naturali e “disturbi” elettronici e allo stesso tempo capace di creare dei perfetti vuoti d’aria dove le voci di The King e BBDai sembrano precipitare, come dentro un imbuto soul.

Sempre più vicini. mostra una band lucidissima, pienamente consapevole dei propri mezzi e in grado di veicolarli con il massimo dell’espressività, con l’orgoglio e la superbia che sono indispensabili per fare le cose in grande.

Un deciso scarto in avanti non solo rispetto alla produzione precedente del gruppo milanese ma dell’intera musica prodotta in Italia. Uno di quei goal che costringono gli avversari a riorganizzarsi, a cingersi a coorte, a improvvisare un cavallo di Troia pur di penetrare le altissime difese che gli si sono parate dinanzi, dopo aver macinato chilometri nella nebbia. I Clash, gli Specials, Alton Ellis si muovono come corpi evanescenti, evocati ora da un rullante bello teso, ora da un giro di basso, ora da una pennata di chitarra più decisa delle altre, intrappolati dentro una giungla plastica e metropolitana.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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CASINO ROYALE – Dieci piccoli indiani

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Non furono i primi. Il primato dello ska, in Italia, spetta agli Statuto di Torino.

Ma furono i migliori, anche dopo che le ombre lunghe degli Specials avrebbero disertato le loro anime e lasciato il posto ad altri spettri che ne avrebbero decretato lo status di band poliedrica e dalla caratura internazionale. Nella seconda metà degli anni Ottanta i Casino Royale sono una gang di dieci rude boys che raccoglie cocci da esperienze molteplici, implose in pochissimo tempo. C’è chi viene dal punk, chi dal garage-rock, chi dall’hardcore, chi dalla new-wave. Ci sono schegge di Shockin’ TV, Pression X, Rappresaglia.

Una miscela che trova nella musica in levare giamaicana il proprio punto di fusione.

E in quegli anni in cui molte scene musicali metropolitane stanno implodendo l’energia dello ska prende piede con rinnovato vigore. In fondo ci si accorge che, a parte i nomi grossi che ci suonano familiari, c’è tutto un mondo da scoprire e una giungla di piccole leggende giamaicane intricata come dei dreadlocks. Dal vivo i Casino Royale accendono le sale. Fiati e ritmi skankin’, aria di festa, atteggiamenti da rude boys gentili, occhialini neri e due MC che si spartiscono il ruolo di leader, finchè scopriranno che l’ego di uno mal sopporta quello altrettanto invasivo dell’altro.

Rimestano nel vecchio, i Casino Royale degli esordi. Ma suonano come una cosa nuova. L’approdo alla lingua italiana è ancora lontana, così come la voglia di meticciato e di musica globale che inghiottirà la band già con Jungle Jubilee e in via definitiva da Dainamaita in poi. Proprio per questo Soul of Ska fa un po’ storia a sé nella discografia della band milanese. Ci sono dentro un paio di cover dei giamaicani Blues Busters (I Won‘t Let You Go e Soon You‘ll Be Gone) e una deliziosa versione in levare di Under the Boardwalk dei Drifters. Il resto è farina del sacco di Aliosha Bisceglia, Giuliano Palma, Michelino Pauli e Ferdi ed è il grano migliore della raccolta, dalla divertente Stand Up, Terry! che fa il verso allo ska idiota dei Bad Manners alla memorabile Casino Royale che diventa il pezzo “inevitabile”, quello che chiude la scaletta dei concerti, quello che tutti cantano saltando come dei matti, quello che addirittura finisce come traccia nello spot dello shampoo antiforfora più famoso d’Italia (non so quante bottigliette ne abbiano potute vendere tra gli skinhead che affollano i loro concerti dell’epoca, NdLYS), dal trascinante non-sense di Mr. Spock & Mr. Space al morbido blue beat di Housebreaker al boogaloo anni sessanta di Bad Times alle arie western della strumentale Ten Golden Guns. I Casino Royale non fanno ancora tendenza e ti costringono ad agganciare le bretelle per aver salvi i pantaloni durante i loro concerti.

I loro gig all’epoca sono ancora il ritrovo per skin e punkabbestia che si ritrovano in quelle piccole storie ordinarie di sveglie che suonano sempre troppo presto e di giovani che sbarcano il lunario facendo i topi d’appartamento nei quartieri bene della città e sono disertati dai modaioli. Troppo difficile immaginarsi quello che i Casino diventeranno negli anni Novanta. Troppo difficile dimenticare quanto ci fecero sudare.

 

Fatte le dovute proporzioni (ehhh..noi maschietti…) i Casino Royale furono per la musica ska, in Italia, quello che erano stati i Clash per il punk inglese.

Un autentico laboratorio in grado di rivoluzionare la formula base facendola precipitare in decine di reagenti diversi.

Ecco dunque che per Jungle Jubilee lo ska prepotente del disco di debutto smette di diventare il centro del mondo e diventa una delle tante periferie possibili.

In questa intuizione, che è stata appresa sicuramente alla scuola dei Clash ma anche di band contemporanee come Mano Negra e Negresses Vertes, si gioca la scommessa di un album che sdogana l’uso del dialetto (la cover di Caravan Petrol), le coloriture etniche (l’uso di strumenti da strada come lo scacciapensieri, il mandolino e la fisarmonica), la contaminazione come elemento indispensabile di tutela (e non “svendita”) della propria identità, creando piccole meraviglie come la saudade caraibica di Love Is the Law, il soul primaverile di Available Swing (vicinissimo a quello che stanno facendo, sponsorizzati da Sanremo e dalla EMI, i Ladri di biciclette, anche se fa scandalo dirlo, NdLYS) o spostando i tropici dentro le foreste dei Nebrodi su White Sun.

I Casino Royale lanciano un sasso che agita le chete acque della musica di settore, trovando una via di fuga verso gli anni Novanta.

Non deve essere stato semplice mettere su un disco come Dainamaita. Coordinare gli umori e i gusti di dieci persone inclini al muso facile, riordinare le idee e tentare di ripartire, rimettersi in gioco scommettendo sul proprio nome e cercando di tirarlo fuori dalla nicchia ska, stipulare un contratto con una grossa distribuzione come quella PolyGram senza deluderne le aspettative di vendita e preservare la propria identità pur puntando su un lavoro che è un azzardo stilistico che può bruciare tutta la fatica che ci sta dietro in un attimo.

Dainamaita è un po’ il lancio nel vuoto per i Casino Royale, artefici loro malgrado di quella gran babele di stili, dialetti, generi e tecniche che si imPOSSEsseranno dell’Italia negli anni Novanta.

Ma se Jungle Jubilee permetteva al gruppo milanese di rischiare pur muovendosi in un porto sicuro, Dainamaita rade al suolo ogni certezza. Col rischio che al prossimo concerto verranno a vederti solo per prenderti le generalità.

Dainamaita si apre con un piccolo frammento di trenta secondi. Uno swing suonato al pianoforte da Michele “De Maestro” Ranauro che richiama Caravan Petrol e il refrain di Casino Royale.

Una intro che è messa lì come rito propiziatorio. Ma che è anche un gesto domestico simbolico. Come quando entri a casa di qualcuno, togli il cappello e lo appendi all’ingresso. E quel posto diventa un po’ tuo, marcando il territorio.

Un disco coraggioso, il terzo Casino Royale. Che ascoltato oggi non è invecchiato benissimo, che adesso riesci a fare roba simile schiacciando per errore un’app del cazzo sul tuo telefonino e se sbagli magari mamma te ne compra un altro.

Ma allora, nel 1993, era tutto sudore e scazzi vari.

Era bestemmiare cento volte dietro una puntina che era saltata per uno scratch più nervoso dell’altro, anche se a farlo era un fuoriclasse come DJ Gruff.

Era dire delle cose. E dire cose che avessero un valore non solo a Niguarda, a Quarto Oggiaro o a Ticinese. E non solo “qui ed ora”. Ma in tutto il pianeta. E sempre.

Come quelle dette in Justice e Metallo giallo.

Era dirle col cuore di Giuliano Palma.

E dirlo con le budella di Alioscia.

E dirlo suonando. E suonarlo su un cavallo che non si è ancora ammaestrato. O che magari non si voleva ammaestrare. Magari dirle e cantarle con una gran confusione in testa. Grattandosi il mento e la fronte. Come i pionieri e come i barboni.

Casino Royale in missione speciale. Facendo della periferia il centro del nuovo mondo.

Passeggiando per Milano, camminando piano piano…quante cose puoi vedere, quante cose puoi sapere.

 

Nel 1995 i Casino Royale vengono a raccogliere quanto seminato con Dainamaita.

E lo fanno con un album strabiliante che rimette ordine nella confusione, in parte voluta e in parte obbligata, che dominava il disco precedente.

Per smerigliare il suono ispido di quello vengono chiamati Ben Young e Roberto Vernetti. Le chitarre scompaiono quasi del tutto, alleggerite e “sospese” su un sound pastoso, densissimo, moderno, edificato sulla sovrapposizione di suoni naturali e “disturbi” elettronici e allo stesso tempo capace di creare dei perfetti vuoti d’aria dove le voci di The King e BBDai sembrano precipitare, come dentro un imbuto soul.

Sempre più vicini. mostra una band lucidissima, pienamente consapevole dei propri mezzi e in grado di veicolarli con il massimo dell’espressività, con l’orgoglio e la superbia che sono indispensabili per fare le cose in grande.

Un deciso scarto in avanti non solo rispetto alla produzione precedente del gruppo milanese ma dell’intera musica prodotta in Italia. Uno di quei goal che costringono gli avversari a riorganizzarsi, a cingersi a coorte, a improvvisare un cavallo di Troia pur di penetrare le altissime difese che gli si sono parate dinanzi, dopo aver macinato chilometri nella nebbia. I Clash, gli Specials, Alton Ellis si muovono come corpi evanescenti, evocati ora da un rullante bello teso, ora da un giro di basso, ora da una pennata di chitarra più decisa delle altre, intrappolati dentro una giungla plastica e metropolitana.

Bizzarri, gli specchi. Subdoli. Ogni tanto ti ci guardi e ti piaci. Ogni tanto, spesso, no.

I Casino Royale, per celebrare i primi dieci anni, decidono di guardarsi allo specchio. Sono in tanti: il King, BB-Dai, Pardo, Ferdi, Patrick, Manna, Rata e Gatto. E non tutti si piacciono.

Quella macchina onnivora in cui si è trasformata la band meneghina sta per incepparsi e spaccarsi in due. Non prima di aver regalato al mondo il disco che perfeziona ulteriormente quanto già espresso su Sempre più vicini.. Arrivando alla meta cui quello annunciava di avvicinarsi. CRX è un album che suona come nessun altro in Italia, in quel 1997 e per molti degli anni che verranno, che riesce a dare una tridimensionalità anche al vuoto, come dimostra una cosa pazzesca come Ora solo io ora, costruita fondamentalmente sopra il nulla, dentro le intercapedini di un beat e di qualche sparuto rumore, con le voci di Alioscia e Giuliano Palma totalmente sovrane. Molto di quello che sta qui dentro è in qualche modo una evoluzione del concetto ritmico che stava dentro un lavoro seminale come Rapadopa di DJ Gruff che infatti qui dentro continua a mettere qualche sua bella unghiata. OltreLà dov’è la fineHomeboyIn picchiataCRXThe Future sono costruite fondamentalmente su un beat. Il resto è un ennesimo lavoro di rasatura eseguita col rasoio di Occam, come era stato per il disco precedente.

Casino Royale diventano l’equipaggio dell’enterprise in orbita lungo una traiettoria spersa e solitaria. Poi i portelli si aprono, qualcuno si lancia nello spazio dentro una capsula che gli permetta di rientrare alla base. I più audaci però, perseverano nel loro viaggio fra le stelle.

 

Le due X in copertina ci ricordano che sono passati venti anni di Casino Royale. Approssimati leggermente per eccesso ma descritti con precisione algebrica nell’intro di Royale Sound: 7000 giorni. Ovvero, con una semplice divisione: diciannove anni virgola diciotto.

Diciannove anni e tre mesi scarsi durante i quali i Casino Royale si sono trasformati più e più volte rimanendo fedeli a nient’altro se non a loro stessi.

Dopo i dischi alchemici degli anni Novanta e l’abbuffata drum ‘n bass dello spin-off realizzato sotto la sigla RYLZ, Reale torna alla musica interamente suonata e delega ad Howie B il compito di rielaborare tutto in chiave elettronica per lo speculare Not in the Face, pubblicato sull’etichetta personale della formazione milanese un paio di anni dopo.

Reale è il disco della riscossa di Alioscia, rimasto unico capitano dopo l’ammutinamento di parte dell’equipaggio. Una orgogliosa, incrollabile fede nella scommessa Casino Royale ostentata nella Royale Sound citata in apertura e dentro la quale BB-Dai non si esime dal togliersi qualche sassolino dalla scarpa, con classe da poeta urbano e schiettezza da teppista hardcore. Un lavoro che non ha forse la statura “popolare” di Sempre più vicini. e CRX, dischi davvero in grado di parlare A TUTTI, animato da una consapevolezza nuova, più adulta, orgogliosa di usare un lessico (musicale e verbale) che può essere compreso da pochi pur avendo una capacità di confrontarsi con le migliori produzioni di settore europee, sfaccettato e labirintico, in grado di reggere ed affrontare le turbolenze che sono vuoti d’ossigeno di chi ancora riesce a volare, nonostante tutto.

 

Choo-chooooo.

Sfatando ancora una volta il mito dei treni che passano una volta sola, quello diretto a Babylon ripassa dalla stazione di Milano ancora una volta nel 2008, stavolta con gli stantuffi che marciano a tempo rocksteady. La tratta però è quella di ritorno: Royale Rockers infatti è il disco che riporta i Casino Royale nella stazione da dove erano partiti venti anni prima. E stavolta è evidente anche ai sordi come sottotraccia le pulsioni del reggae, dello ska, del dub, della musica reggae non siano mai scomparse ma solo scomposte, elaborate in mille sfumature differenti fino a renderle irriconoscibili, un po’ come era stato per i Massive Attack in Inghilterra. Ricordate lo specchio di CRX? Ecco, Royale Rockers elimina quel gioco di specchi costringendo la band a giocare senza trucchi, a carte scoperte, a riconoscersi nella memoria più che nella fisionomia alterata dagli anni, senza fingersi giovani, con le impronte digitali che identificano il marchio Casino Royale ma mostrano anche qualche callo, qualche bruciatura.

Le sovrastrutture sono ridotte al minimo e gli interventi elettronici non sono più quelli invasivi che avevano caratterizzato gli anni a cavallo del decennio ma si limitano a piccole iniezioni dub piazzate sul suono in bianco-nero degli Specials.

Il Pianeta Royale fa dunque un giro completo sul suo asse, tornando alle origini. Ma la spensieratezza di Soul of Ska, che era la spensieratezza dei vent’anni, quella non c’è. Ed è evaporato quell’immaginario carico di richiami allo spionaggio e al cinema degli anni Settanta di perle come Unemployed Investigator, Ten Golden Guns, Bonnie & Clyde, Casino Royale, Mr. Spock & Mr. Space.

E manca il sorriso.

Rimane inalterata la classe, l’aria da rude-boys, lo stile.

Ma se cercate un disco per far festa, non è questo qui.

 

Che i Casino Royale siano stati vittima loro malgrado di un’opera di rimozione inspiegabile credo non sia convinzione di unica mia pertinenza. Un golpe silenzioso li ha voluti far abdicare da un trono che gli spetta(va) di diritto, per essersi assunti dei rischi che in pochi avrebbero pensato mai di prendersi.

Ecco perché il titolo del nuovo album si presta per me a diversi livelli di lettura e di interpretazione. Ma sono perversioni personali che prescindono dal contenuto musicale di Io e la mia ombra che è, ancora una volta, un disco lucidissimo, che si porta addosso tutte le luci della metropoli e le ombre dei suoi abitanti, che fa i conti col tempo, col fiato sempre più corto degli anni che passano.

L’elettronica riappare prepotente e dopo il bagno inaspettato nell’ḥammām giamaicano di Royale Rockers, si riattualizza reinterpretando a suo modo un certo spirito electro/new-wave tornato di tendenza che in alcuni casi può risultare spiazzante (Il rumore della luce, Ora chi ha paura, Io vs te) e disattendendo un po’ il mood notturno della introduttiva Solitudine di massa: Io e la mia ombra, non sembri un paradosso, è un disco invece molto luminoso, quasi polarizzato in ottica radiofonica (pezzi come Ogni uomo una radio, Io e la mia ombra, Io vs te, Cade al posto giusto potrebbero ambire, se vivessimo nel “Pianeta Royale” a spaccare in due le onde radio, NdLYS), nel senso “subsonico” del termine.

Io e la mia ombra è un nuovo disco-scommessa.

Relegati nella periferia dell’Impero che hanno loro stessi ispirato, i Casino Royale guardano il mondo dai grattacieli di Milano.

Più che un disco di musica, un disco di respiri e di messaggi. Casino Royale raccoglie l’esigenza comunicativa distorta dall’isolamento forzato della stagione del lockdown dentro un disco che somiglia più ad una seduta medianica, ad un trasfert emotivo dove l’angoscia gira in loop e passa di mano in mano, di dolore in dolore, da paura in paura, fluttuando come un messaggio in bottiglia ormai incrostato di acqua salata fino ad esorcizzarsi in una vertigine derviscia di elevazione dal torpore emotivo. Dentro Quarantine Scenario si avvertono quel senso di claustrofobica incertezza e di ipocondriaca paura del confinamento ma anche quell’indefinibile ed impraticabile desiderio di mutazione alchemica, di trasversale mescolanza fra gli elementi che ci indichi una via di fuga. Il gioco pervasivo dell’immaginarsi altrove che però, e qui sta la forza concettuale del disco, non è mai impotenza ma desiderio attuativo.

In questa occasione, ma non è la prima volta, Casino Royale è un tag fra i tanti in un progetto che vede coinvolte decine di persone e centinaia di elementi di disturbo che si raccordano fino a creare una maglia di punti di sutura e che è una sorta di aggiornamento XX.20 del progetto rumorista In Hell dei Workdogs. 

Macchine e voci catapultate dentro il buco nero che ha inghiottito milioni di vite proiettando oltre l’imbuto un’umanità strozzata.

Trip-hop, turntublism, dub, elettronica avariata, proiezioni futuristiche e ancestrali al tempo stesso (Keitteikou), spettrali sinfonie per pianoforti e macchine da scrivere solitarie e infiniti spazi dove il silenzio ha più peso specifico delle mura del rumore issate per contenerlo (come nel surreale paesaggio da zombie urbani Covidland) e installazioni corporeo-musicali in stile Matmos.

Casino Royale pronti al peggio. Stavolta su questo pianeta.

Sorpassato dall’urgenza di realizzare un fermo immagine della pandemia con Quarantine Scenario, Polaris arriva finalmente alle stampe alla vigilia del deflusso della terza ondata COVID, dicendo quel che ha da dire in trenta minuti di musica metà della quale si limita, più che a dire, ad indicare. Muta. Proprio come una stella polare.

Il suono è quel meticciato urbano che è marchio di fabbrica dei Casino Royale ormai dai tempi lontanissimi di Dainamaita: pulsante e satura di cariche elettrostatiche Tra noi è un imbuto che si apre sulla crosta della terra, una torre di Babele alla rovescia il cui spaccato ricorda quello dell’inferno dantesco. Casino Royale ci inghiottono così, azionando le vecchie macchine che non ne vogliono sapere di arrugginire. Il suono del pezzo diventa nella dis-version che ne segue un dub pieno di schioppi di fucili, una rude-tune con l’abito di amianto che lascia il posto alle sinfonie di Contro me stesso e al mio fianco che sono i Casino Royale che non ti aspetti, ospiti a casa loro delle bellissime e morriconiane trame dell’Orchestra ad alta felicità. Ho combattuto è l’Alioscia gigante che tutti conosciamo, capace di muoversi come un aracnide lungo le pareti scoscese rese schiumose dalla pioggia elettronica e di sedersi in cima alla montagna come i vecchi eroi biblici, a guardare le ombre che riempiono ogni buca come inchiostro rappreso. Fermi alla velocità della luce è schermata da una linea di basso mentre la pioggia di prima si trasforma in un nubifragio a di lapilli e di rocce laviche. Scenario è il prologo del disco precedente e che qui si trasforma nello stasimo conclusivo prima dei quattro minuti di Fame d’aria che è tutta l’araldica della musica da club degli ultimi trenta anni chiusa dentro un guscio d’uovo bionico e sputata nello spazio.

Direzione nord.

Che se la stella polare non c’è più si troverà dell’altro verso cui puntare. 

O verso cui precipitare.  

Franco “Lys” Dimauro

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UNKLE – The Road part II / Lost Highway (Songs for the Def) 

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Ogni qualvolta James Lavelle annuncia un nuovo disco degli UNKLE la prima domanda che ci balena in mente è: chi avrà convocato stavolta? E ogni volta la lista degli ospiti ci obbliga a voler curiosare dentro quei solchi.

Stavolta tocca a Mark Lanegan, Ian Atsbury, Keaton Henson, Mick Jones, Jon Theodore dei QotSA, Tom Smith degli Editors, Miink, Chris Goss, Liela Moss dei Duke Spirit, il figlio di George Harrison, la moglie di Stanley Kubrick, un paio di Primal Scream e i Big Pink per intero affollare il salone delle feste del musicista di Oxford, come sempre addobbato a festa.

Il disco, doppio (e addirittura triplo, nella versione che contempla pure gli strumentali), potrebbe sembrare infinito e apparentemente insormontabile ma la varietà di atmosfere gioca a suo favore, lambendo i territori del trip-hop di classica impronta Massive Attack e di certa musica ambientale di stampo 4AD ma anche, proprio grazie ai featuring, costruendo un ottimo ponte tra elettronica e attitudine dark/rock per certi versi assimilabile a quello edificato su sponde diverse dai Depeche Mode, dai Radiohead e, anche se non fa politicamente corretto ammetterlo, Madonna.

Certo, quest’odore di “saga” di cui questo rappresenta il secondo capitolo puzza un po’ come i corridoi dei multisala quando partono le macchine dei popcorn ma Lavelle è uno per cui la megalomania ha sempre fatto parte del suo concetto di artista in grado di passare se non sopra, attraverso gli stili.

Su The Road part II / Lost Highway non mancano i pezzi per cui vale la pena di fare la fila al casello pur di percorrere se non tutto, almeno un tratto di queste nuove strade dell’architetto Lavelle. Non moltissimi, ma ci sono. E non saranno gli stessi per tutti, vista la vasta capacità di adattamento degli UNKLE i quali stavolta operano per gran parte dell’opera lavorando sul concetto di sottrazione di elementi, con pianoforti quasi solitari e voci altrettanto sospese come lampadari di cristallo che ciondolano dal soffitto e la cui luce spesso soccombe sotto il grandissimo mantello della loro stessa ombra.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

RUBY – Short-Staffed at the Gene Pool (Wichita)  

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In sei anni io mi sono fidanzato, sposato, ho comprato casa e ho avuto una bambina. I Ruby, candidamente, hanno pensato e pubblicato il loro nuovo disco. Ironia a parte, sei anni sono tempi biblici per il vorticoso mondo del disco, ben più di quelli occorrenti per scordarsi facce e nomi che per un baleno hanno transitato per i canali dei nostri fori auricolari. Quindi vi diciamo che Ruby sono il progetto varato a metà dei ’90 da Lesley Rankine, allora transfuga dall’effimero successo dei Silverfish, accanto a Mark Walk e autori di un paio di tormentoni come Paraffin Tiny Meat, erano gli anni del dopo-Portishead e i Ruby si trovarono nel posto giusto al momento giusto, con “quella” voce tormentata dai loops e un bell’armamentario di chincaglieria soft-elettronica, a far capolino nelle classifiche popolate da Moloko, Olive, Lamb e EbtG. Davvero preistoria. Naufragati dopo il crollo della Creation, Ruby hanno faticato non poco a trovare chi volesse investire su un disco che nel frattempo rischiava forse di venire in uggia anche a loro. È la rampante ma minuscola Wichita a mettere infine la griffe su questo loro disco del rientro dai contorni gradevoli malgrado spesso rischi di perdersi in una incompiutezza nociva (il d’n’b di Cargo che non va da nessuna parte, l’eccesso di zuccheri che appesantisce Sweet Is, lo spettro di Paraffin che sembra affacciarsi dalle finestre a spirale di Waterside, NdLYS). Non mi sento tuttavia di dirne male visto che il disco non mancherà di dispensare buone vibrazioni a chi ama il genere anche se è probabile che fra sei anni, ascoltando la leggerezza pop di Lamplight o Grace ci si guarderà negli occhi chiedendosi l’un l’altro…”…e chi cazzo erano questi?”.

Franco “Lys” Dimauro

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NINE HORSES – Money for All (Samadhi Sound)

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Non servono molti trucchi quando puoi sfoggiare una voce come quella di David Sylvian.

È sufficiente lasciarla galleggiare.

Lo sanno bene il fratello Steve e Burnt Friedman, cosi come l’ensemble di strumentisti che lavorano al secondo progetto dei Nine Horses, spin-off del primo con tre soli inediti e cinque versioni “alterate” di due di questi e di tre pezzi del debutto, che suonano senza mai ingombrare lo spettro audio, lasciando la voce di Sylvian (ma anche quella, splendida, di Stina Nordenstam) in primissimo piano, cingendola di sete e cristalli tintinnanti.

Disco di mille meraviglie e di un’eleganza fuori dal comune, Money for All, con alcune stilizzazioni del suono che fu dei Japan risolte in chiave quasi bristoliana, con questa oscurità perenne a gravare sugli occhi, a lasciarci intuire le forme senza mostrarcele mai del tutto. Che devono essere forme simili a gocce d’acqua, a petali di manna, a palchi di renna, a fiocchi di neve, a ninne nanne islandesi ma non ne abbiamo certezza.

Come del domani.

O come dell’oggi, che è quel che il poeta tace mentre sogna degli angeli.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CASINO ROYALE – CRX (Black Out)  

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Bizzarri, gli specchi. Subdoli. Ogni tanto ti ci guardi e ti piaci. Ogni tanto, spesso, no.

I Casino Royale, per celebrare i primi dieci anni, decidono di guardarsi allo specchio. Sono in tanti: il King, BB-Dai, Pardo, Ferdi, Patrick, Manna, Rata e Gatto. E non tutti si piacciono.  

Quella macchina onnivora in cui si è trasformata la band meneghina sta per incepparsi e spaccarsi in due. Non prima di aver regalato al mondo il disco che perfeziona ulteriormente quanto già espresso su Sempre più vicini.. Arrivando alla meta cui quello annunciava di avvicinarsi. CRX è un album che suona come nessun altro in Italia, in quel 1997 e per molti degli anni che verranno, che riesce a dare una tridimensionalità anche al vuoto, come dimostra una cosa pazzesca come Ora solo io ora, costruita fondamentalmente sopra il nulla, dentro le intercapedini di un beat e di qualche sparuto rumore, con le voci di Alioscia e Giuliano Palma totalmente sovrane. Molto di quello che sta qui dentro è in qualche modo una evoluzione del concetto ritmico che stava dentro un lavoro seminale come Rapadopa di DJ Gruff che infatti qui dentro continua a mettere qualche sua bella unghiata. Oltre, Là dov’è la fine, Homeboy, In picchiata, CRX, The Future sono costruite fondamentalmente su un beat. Il resto è un ennesimo lavoro di rasatura eseguita col rasoio di Occam, come era stato per il disco precedente.

Casino Royale diventano l’equipaggio dell’enterprise in orbita lungo una traiettoria spersa e solitaria. Poi i portelli si aprono, qualcuno si lancia nello spazio dentro una capsula che gli permetta di rientrare alla base. I più audaci però, perseverano nel loro viaggio fra le stelle.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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PJ HARVEY – Il diavolo fra le gambe

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Mettere a soqquadro il mondo con una chitarra. Anche se è una porzione di mondo. Anche se quella chitarra è più un vestito per coprirsi che un’arma per mettersi a nudo.

Polly Jean ha un nome da bambolotto. Il nome di una donna in miniatura. Un nome da cartoon del primo pomeriggio. Incidentalmente, un nome che ricorda una delle prime canzoni dei Nirvana, poi finita su quel Nevermind che in qualche modo avrebbe spianato la strada a questo suo primo album in proprio, rappresentato da un labbro spiaccicato sul vetro e da un acronimo chiamato a sostituire il suo nome.

PJ Harvey si presenta al mondo radendo al suolo ogni stereotipo sessuale.

In quelle labbra sfoggiate con così poca sensualità, così “asciutte”, così segnate dal freddo, nell’esibizione cruda, fragile di quel posto di desiderio tramutato in un alloggio scomodo viene in qualche modo annientata, dissimulata, disinnescata ogni passione carnale.

Dry diventa il posto dove viene raccontato l’amore di un corpo disidratato. Un amore che non conosce il tintinnio dei calici. Un amore cui il destino non ha concesso di diventare adulto. Un amore che è un precipitato di polveri, un concentrato di residui fissi, senza neppure un dito di vino dentro cui poter galleggiare. E tutto, qui dentro, ha questo analogo sapore.

Basso, chitarra, voce, batteria un medesimo rumore di detriti e di ruggine.

Di ossa. Di corpi asciutti come rami in un inverno che non ci ha neppure degnati del suo pianto.

 

Troppo impura per la Too Pure, Polly Jean Harvey approda alla Island per la pubblicazione del suo secondo disco.

Accanto a lei ci sono ancora Robert Ellis e Steve Vaughan, di fronte a lei invece stavolta c’è lo stupratore Albini, a portare quell’irresistibile tocco Pixies che fa di Rid of Me uno dei dischi irrinunciabili di quel 1993.

È grazie alle mani di Steve che il suono di Harvey si dinamizza, come fosse una boccetta di gocce omeopatiche.

Folate di distorsione che spazzano il pavimento sudicio del Pachyderm Studio che la band ha noleggiato per tutto il dicembre del 1992.

Proprio com’era stato per Surfer Rosa dei Pixies e come tornerà ad essere, appena due mesi dopo e proprio negli stessi studi, per In Utero dei Nirvana (che lo sceglieranno proprio dopo aver ascoltato il suono di Rid of Me, NdLYS).

Abrasione come concetto-base di una forma moderna ma altrettanto economica di canzone folk.

Perché questo è, in fondo, la musica di Harvey.

E non serve la cover “rivisitata” di Highway 61 per ricordarcelo.

Minimalismo blues e folk cui piace ogni tanto vestirsi come una femmina da bordello (Man-Size Sextet avvolta nei toni drammatici dei violini e sfuggita, per questo, dalle grinfie dello stupratore) e servito sul vassoio di rumore dell’era grunge.

Il canzoniere di Polly è tuttavia ancora privo di canzoni indimenticabili.

Quello che piace di Rid of Me, lo si ammetta o meno, è l’atmosfera psicotica complessiva, il saliscendi emozionale che pervade l’intero album, la tempesta elettrica che avvolge una donna dal corpo esile e macilento, l’urlo anoressico di un’odalisca che ha perso l’anima in un campo di cotone della Louisiana e la verginità in una provincia qualsiasi del sud-ovest dell’Inghilterra.

Leccami le gambe, sono in fiamme.

Lecca le mie gambe avvolte dal desiderio.

Polly Jean si battezza da adulta.

Si battezza platealmente. Immersa nell’acqua per intero, vestita di raso rosso.

Volgare e anoressica puttana punk.

È il 1995, lei ha ventisei anni.

Suona e scrive canzoni da dieci anni, ovvero da quando la sua strada ha incrociato quella di John Parish. Finisce come corista nel suo gruppo e lì apprende i rudimenti di ogni strumento: chitarra, armonica, pianoforte, sassofono, basso. Quanto basta per farcela da sola, man mano che i suoi gusti musicali si sono affinati passando dalla sbornia duraniana alla scoperta dell’indie rock e del blues orripilante del capitano Beefheart.

Parish rimane però sempre al suo fianco. Un’ombra accanto alla sua.

Anche adesso che Polly ha deciso di battezzarsi, Parish è accanto a lei, paterno e amoroso. Lei non può farsi male, adesso. Può naufragare nel suo dolore con la certezza che lui sarà lì a tirarla su un attimo prima di affogare. Ecco perché To Bring You My Love suona così drammatico e doloroso sfiorando la tragedia senza tuttavia lasciarsi annientare. È uno zeppelin in fiamme che arriva a toccare terra dopo aver lasciato una scia di fumo nero al carbonio al posto delle nuvole.

Polly Jean porta il suo amore, in apnea, finchè non riemerge dalle acque paonazza, livida come una rosa senza più aria da respirare, dopo aver incontrato i suoi mostri e aver invocato un Dio che non ha mai cercato tanto prima d’ora e del quale ora avverte un estremo bisogno.

Ho imparato a pregare dice su Teclo.

Ti scongiuro, Cristo, portami il suo amore impreca su Send His Love to Me.

Dio mio, stammi vicino stanotte implora alla fine su The Dancer.

John le porge la mano dal bordo vasca, lei emerge col make up sciolto e il vestito appiccicato sulle ossa, si sfila il coltello dalle costole e lo consegna nelle mani del suo protettore.

Il suo amore è salvo.

La vasca è sgombra.

Piccole gocce rosso porpora si accendono come rubini dentro le acque nuovamente quiete.

Dance Hall at Louse Point, il disco che esce a ridosso di To Bring You My Love e che ufficializza il rapporto artistico fra la Harvey e Parish ha una coerenza stilistica meno definita rispetto ai lavori solisti della cantante inglese. I due si dividono equamente il lavoro, dedicandosi una alla stesura dei testi, l’altro alla scrittura delle musiche, adattandosi vicendevolmente l’un l’altra. Un disco dalla doppia anima e dalle molte facce, toccando territori cacofonici cari a Captain Beefheart, sgambettando zoppa come nei blues di Tom Waits, mostrando torbide maschere di terrore noise alla Sonic Youth ma defluendo pure in certe ballate gotiche che diventeranno uno dei canoni stilistici dei Blonde Redhead più maturi che danno a PJ la possibilità di giocare con registri timbrici diversi (da Taut Lost Fun Zone ci passa dentro tutto quello che la Harvey vocalmente è capace di regalare). Il livello di attenzione tuttavia rimane scostante al pari del repertorio, con piccoli momenti di stanca che ne frammentano l’ascolto.   

 

Il desiderio, carnale e spirituale, che divora il corpo di Polly Jean dall’interno trova nuove domande su Is This Desire? dove l’innesto di suoni digitali si sovrappone agli strumenti di Mick Harvey, John Parish, Eric Drew Feldman, Jeremy Hogg, Joe Gore, Terry Edwards, Richard Hunt e del ritrovato Rob Ellis.

Il risultato è un disco increspato e scricchiolante che anticipa di due anni quanto poi verrà applicato dai Radiohead per il fortunato Kid A (si ascolti la sequenza The Garden/Joy), una ansimante galleria di ritratti di donne infelici a dispetto dei nomi che sono stati loro inflitti a beffa di una vita miserevole (Joy, Angelene, Elise, Leah, Catherine). In questo rosario di anime tormentate e di corpi abusati, ci sono uomini che vanno (per sempre, come il Jeff Buckley portato via dal Mississippi raccontato su The River) e vengono (con la patta gonfia di desiderio e le tasche colme di denari, come quelli che bussano alla porta di Angelene o col cuore sanguinante come il Giuda di The Garden).

Rispetto all’immaginario stagnante e claustrofobico di To Bring You My Love, i personaggi ingombranti di Is This Desire? si muovono e percorrono distanze, come a doversi perennemente confrontare, più che con l’ambiente che li ospita e con gli elementi naturali ed artificiali, con le ombre che li imprigionano alla terra.

Condannati alla morte, come tutti.

E all’attesa.

 

Stories from the Cities, Stories from the Sea, il disco con cui la Harvey infila il tunnel del nuovo secolo è un disco DA PAURA. Senza esagerazioni. Infili il disco nel lettore e, appena sistemato il culo sul giro di Big Exit, hai PAURA di aver sbagliato disco. Resisti, un attimo di imbarazzo, parte Good Fortune e vai a controllare se Gung Ho di Patti Smith sia bello tranquillo nella sua custodia o sia per caso caracollato fuori. Quando ti accorgi che in effetti nessuno lo ha mosso dalla sua polverosa posizione sullo scaffale, allora comincia a insinuarsi la PAURA di aver sprecato il tuo denaro. Al terzo brano, cominci davvero ad avere PAURA che questa agonia non abbia mai fine. E così, giunto alla fine dell’opera (opera???? operetta da avanspettacolo, semmai….. NdLYS) lo vai a sistemare in alto, perché hai PAURA che la tentazione di andarlo a riascoltare per scoprire che “no, non può essere così” e “deve pur esserci qualcosa di vicino a una buona canzone” si faccia avanti. La trojetta che saltava dal letto di Steve Albini a quello di Nick Cave è ora una puttanella da quattro soldi, di quelle che carichi solo mettendo in mostra il macchinone nuovo e l’autoradio potente. John Parish, che qualcosa deve aver intuito, ha ritirato le fiches, alzato il culo e lasciato il tavolo verde. Voleva giocare a Risiko e ora si sarebbe trovato al Gioco dell’Oca. Dopo un antipasto, un primo e un secondo portentosi, un buon contorno e un dessert prodigioso, la signorina Harvey sembra essere arrivata alla frutta e il mio invito è quello di sparecchiare velocemente e togliere il disturbo.

E invece la Harvey non molla.

Il ritorno al primitivismo dei primi dischi è chiaro sin dal grugnito scelto come onomatopeico titolo e al selfie casalingo usato per la copertina che ricorda in qualche modo quello di Dry. PJ Harvey torna dunque a casa dopo la passeggiata notturna per le vie di New York, lasciando Times Square e i suoni laccati del suo precedente disco per rifugiarsi nella quiete di Uh Huh Her. Una serenità turbata dalla morte della nonna la cui perdita influenzerà alcune scelte vocali adottate per le canzoni che Polly ha già finito di abbozzare, come You Came Through e The Desperate Kingdom of Love chiusa con un simbolico volo di gabbiani. Un disco che torna all’essenzialità che era andata smarrita nei dischi immediatamente precedenti e con cui la Harvey si riappropria in toto della propria musica e, forse per la prima volta, sembra volerla trattare in maniera gentile, volerla accarezzare, volerci giocare senza aggredirla, regalandoci piccole perle folk avvolte nella carta crespa come The Letter, il breve intermezzo di No Child of Mine o The Darkest Days of Me and Him.

L’amore si muove nell’ombra, come un assassino.

Polly gli mostra il collo.

Fuori è il deserto.

Dentro, piove.

Smessi i panni di Patti Smith vestiti con discutibile gusto su Stories from the Cities, Stories from the Sea, Miss Harvey si diverte ad indossare quelli di Tori Amos per White Chalk. Un album che andrebbe consegnato ai negozi e dai negozi a noi con uno sticker che ci avverta della sua fragilità. White Chalk è infatti un disco di cristallo al cui ascolto ci si sente come degli elefanti all’interno del Museo del Moser.

Il suo approccio dilettantesco al pianoforte fa di White Chalk, l’album pensato “attorno” a quello strumento, un lavoro intenzionalmente vulnerabile.

I tasti d’avorio diventano più delle stampelle per sostenere il cantato flebile di Polly Jean che un tappeto melodico su cui stendere le parole ad asciugare.

Ogni picchiettio dei martelletti, un piccolo ematoma si forma sulla carne bianca delle gambe di Polly.

A forma di torta di mela della nonna.

A forma di cuore.

A forma di dolore ricurvo.

A forma di metastasi.

Se il precedente lavoro cointestato con il fidato Parish nasceva in qualche modo come parallelo “sperimentale” al lavoro ufficiale di Polly Jean, A Man a Woman Walked By, seconda sortita in coppia ha, in questa ottica, molto meno senso venendo dopo due album come Uh Huh Her e White Chalk dove la sperimentazione vocale e musicale della Harvey ha avuto modo di liberarsi da ogni prigione creativa per toccare vertigini di primitivismo o di impalpabilità che erano via di fuga dalla banalità cui il disco del 2000 stava rischiando di imprigionarla.

E infatti pare che il “bisogno” di realizzare questo nuovo lavoro duale sia nato più da un evento fortuito (il ritrovamento della demo del bellissimo, “carnoso” brano che inaugura la raccolta) che da precise necessità artistiche. Come nel disco di tredici anni prima, si tratta di una raccolta disomogenea per stili ed atmosfere, una sequenza di smorfie incomparabili una con l’altra, un’audizione multivalente atta a rilevare l’abilità dell’interprete di vestire panni e ruoli diversi, peraltro già ampiamente dimostrata sui dischi in proprio e qui ribadita senza alcuna difficoltà, anche quando la scrittura di Parish sembra affievolirsi e non riuscire ad andare oltre l’abbozzo o viene abilmente disinnescata dal lavoro di Flood, attento a non sovraccaricare artificialmente il lavoro ma operando sovente per sottrazione (come nella Passionless, Pointless dove la linea di chitarra viene del tutto cancellata per dare maggior risalto all’aridità angosciosa espressa dalla voce).

Una donna e un uomo che passeggiano insieme. Infeltriti e carichi di pioggia.

                                                                                 

La civiltà occidentale è ormai al suo declino, anche artistico.

Ci vorrebbero dei nuovi Bob Dylan, dei nuovi John Lennon, dei nuovi Pete Seeger, delle nuove Joan Baez, dei nuovi Billy Bragg, dei nuovi Woody Guthrie, dei nuovi Paolo Pietrangeli.

Bisognerebbe trovare i nuovi Clash, i nuovi Redskins o i nuovi Stormy Six e invece non ce ne sono.

Ogni paese deve dar fondo a quello che ha.

E in Inghilterra hanno PJ Harvey, che, in questo naufragio, ha sentito il bisogno di scrivere il suo disco politico.

Un disco di folk moderno, fatto di suoni acustici e di cocci.

Ne riconoscerete qualcuno (le trombe da battaglia che affiorano e scompaiono come fantasmi lungo The Glorious Land e il refrain di Summertime Blues su The Words That Maketh Murder molto probabilmente) e ne ignorerete altri (l’eco di Istanbul (Not Constantinople) che incombe per tutta la decadente e tenebrosa title track, degna dei Banshees di Hyæna, per esempio NdLYS).

Conchiglie disseppellite dal vento che infuria su queste spiagge dove i cadaveri sembrano corpi di donne stese a prendere il sole.

Un disco dove la disillusione marcia a fianco di un esercito cencioso e sfinito sulla polvere di una terra devastata. Let England Shake è un album dove le parole contano più della musica, come è giusto che sia su un disco che cerca di suturare le ferite di quei soldati spossati, un album che finirà per piacere tanto agli inglesi e un po’ meno altrove, soprattutto nella nostra italietta dove le concessioni alla melodia e al ritmo contano sempre più di tutto il resto.

Qui, in questo paese dove le radio continuano a passare canzonette che galleggiano sulle acque putride che coprono i cadaveri dei diritti umani, canzoni come il pianto funebre di England, l’invocazione celtica di On Battleship Hill o la triste ballata di Hanging in the Wire non bucheranno l’etere.

Nessuno si accorgerà di loro.

Nessuno le fischietterà, perché loro non sono venute qui per questo.

Let England Shake è il gemito di un mondo dolorante.

Non affannatevi a cercare la vostra canzone dell’anno, non è qui.

Forse è rimasta anche lei in spiaggia.

Come un corpo di donna stesa a prendere il sole.

Probabilmente non respira.

Ad un certo punto della propria carriera Polly Jean ha sentito il bisogno di deviare il punto focale del proprio lavoro. Brutalizzando potremmo dire che, avendo quasi completato la vivisezione del proprio lato emotivo, si trasforma da psicologa in cronista. Una curiosità da reporter la porta a sfogliare prima tra le memorie delle sua terra (Let England Shake) e poi fra la polvere e le macerie delle terre afgane e kosovare, creando The Hollow of the Hand prima e questo The Hope Six Demolition Project subito dopo che rappresenta il compimento musicale di quel “desiderio di respirare l’aria e incontrare la gente di quei paesi” da lei dichiarato in occasione della presentazione del libro e che allarga lo spettro di osservazione (forse eccessivamente) fino a criticare apertamente il già tanto discusso progetto di riqualificazione urbanistica washingtoniano denominato Hope VI, ergendosi a paladina di guerre sociali che le appartengono solo marginalmente, il che rende la tematica del disco meno appassionante e coinvolgente rispetto a Let England Shake.

Se dunque la Polly mi era apparsa credibile quando raccontava delle tribolazioni dell’esercito britannico, lo è molto meno quando cerca di parlarci di Lincoln e del fiume Anacostia o quando ci parla delle comunità periferiche della capitale americana o disserta sui ministri della difesa e degli affari sociali.  

Il risultato è dunque un altro disco da battaglia, come lo fu quello che lo ha preceduto di ben cinque anni, ma privo di quel senso patriottico che aveva arricchito quello di un pathos primordiale e lo aveva reso viscerale ed intenso, pur nella sua struttura quasi fatiscente.   

Una sorta di pow-wow tribale con accordi asciutti di chitarre, grande sfoggio di tamburi, qualche inserto di sax chiamato a sostituire il suono dei corni da battaglia e ciondoli a scacciar via il male come unghie di capra.

I pernottamenti americani non sono artisticamente di grande ispirazione per la Harvey. Ogni volta che ci parla delle sue città e delle genti che le popolano, rischia di sciupare gran parte del suo carisma. Noi, di sciupare il nostro tempo.  

La musica di PJ Harvey si fa via via sempre più filigranata, quasi fosse una versione spettrale del trip-hop degli anni Novanta.

L’artista inglese ha coperto le sue canzoni con un drappeggio alla Christo da cui sporgono le costole. Le sue e quelle delle sue canzoni, sempre più gracili ed evanescenti. Nuovamente nude come quando nacquero, tre decenni fa.

I Inside the Old Year Dying è un disco fitto di quelle ombre che i mesi estivi sembrano volerci negare e cui invece sono dedicati diversi brani dell’album, ma non sono ombre rigeneranti, non sono oasi verdi che ci concedono frescura e ristoro. Eppure, in qualche modo, sono ombre generate da alberi di ghiaccio, da giungle di stalattiti che colano come nasi raffreddati.

Sempre più vicina al disturbante mondo di Thom Yorke e dei Radiohead, la Harvey ci trascina dentro un gorgo di musiche inafferrabili, di strutture malconce, di architetture frananti, di polveri industriali disposte a forma di pupazzi di neve. Madide di pioggia come stracci imbevuti di sudore freddo. Canzoni che portano carezze per una pelle che sembra refrattaria al tatto. Ninne nanne per cuori che reclamano una coperta anche nei mesi estivi.

La Harvey diventa la tata che tutti vorremmo al nostro fianco, la Mary Poppins che tira fuori dalla sua valigia un attaccapanni, uno specchio, una pianta, un paralume, un paio di scarpe lilla. E noi ci infiliamo dentro la testa e non riusciamo a vedere nient’altro che la stoffa di un tappeto, neppure volante.    

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

X 133429-03 PJ Harvey. Obligatory Credit - CAMERA PRESS/Phil Poynter. SPECIAL PRICE APPLIES - CONSULT CAMERA PRESS OR ITS LOCAL AGENT. British singer and songwriter PJ (Polly Jane) Harvey, became a favourite of the UK's indie rock scene in the 1990's after her debut album 'Dry'. Bassist Steve Vaughn and drummer Robert Ellis formed the band that goes under her name, PJ Harvey, in 1991. They released the follow-up to their 1998 album 'Is This Desire?', with 'Stories from the City, Stories from the Sea' , their fifth, in 2000. 02/2001