THE PRODIGY – The Fat of the Land (XL Recordings)

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A metà degli anni Novanta la club culture è al suo apogeo.

Da Detroit a Londra non c’è un solo culo che non sia manovrato dalle dita di un deejay.

Ma non basta.  

Gli eroi della consolle escono dai club ed invadono i palcoscenici.

I maestri di cerimonia non sono più soltanto gli chef cui viene affidato il menu della festa, ma diventano essi stessi la festa.  

Diventano “visibili”, tridimensionali. Non sono più un nome su un manifesto ma delle autentiche rockstar. La gente che balla le loro selezioni, la loro musica non ha più lo sguardo rivolto al dancefloor, ma al palco. Vuole vedere il muco che  gli cola dal naso, vuole vedere come se lo tirano via mentre maneggiano le loro attrezzature.

Anche la loro musica diventa più invasiva, più parossistica, più “grassa”, più “dotata”: è la nascita del bigbeat. Grande nel nome e nelle dimensioni. I vecchi paladini dei club sono le nuove pornostar della musica. Sfoggiano durate e misure imponenti, umiliando i normodotati. Come facevano i Led Zeppelin o gli Who, con strumenti diversi ma con la stessa quantità di volume.

The Fat of the Land dei Prodigy rappresenta il punto di congiunzione ottimale tra le nuove tendenze della musica elettronica, l’ariete rock e l’immagine shock, fotografando l’atto in cui il mostro mutante apre a calci la porta del laboratorio dove è stato creato e si prepara ad invadere il pianeta, come in un tokusatzu giapponese.

Attuando quel dosaggio perfetto di ingredienti musicali e scenografici fallito sui due album precedenti, i Prodigy rendono finalmente onore al loro nome ed approntano un disco prodigioso nell’allestimento (innestando elementi di hip-hop, techno, ragga, banghra-pop, ambient, electro, crossover, jungle, rock) e orgiastico nei risultati.

È il momento esatto in cui la scena post-rave si ammutina tradendo se stessa.

I Prodigy guidano la flotta.

Sotto coperta i flipper risuonano in tutta la loro scellerata potenza.  

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

DAVID BOWIE – EART HL I NG (Virgin)

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A metà del guado degli anni Novanta, la jungle, il drum ‘n bass, il breakbeat sono la “nuova cosa” che sta rivoluzionando la musica mondiale, ridando prestigio alla musica elettronica e conquistando il mondo del rock. Fin troppo ovvio che Bowie, da sempre permeabile alle novità e desideroso di percorrere strade inesplorate e riadattarle alla sua bisogna, ne rimanga affascinato. EART HL ING, frantumato sin dal titolo, è il disco con cui Bowie piega la sua musica alle sincopi frenetiche delle nuove frontiere della musica elettronica.

Buona parte del lavoro (Telling Lies, il “prodigyoso” singolo Little Wonder, Battle for Britain) è intessuto su queste meccaniche di ritmi cibernetici e distorsioni che sembrano frenare o sbuffare come locomotive su questo tappeto ritmico franoso, oppure si dischiude su improvvisi riff di chitarra che spuntano come massi mentre tutto il resto scorre liquido come un fiume ingrossato dalle piogge, ricordando volutamente le rocciose slavine dei Pixies (che erano una fisima per Bowie già ai tempi dei Tin Machine e tale resteranno fino ad Heathen, NdLYS), come succede nella bella Seven Years in Tibet o sulla The Last Thing You Should Do percorsa da un vibrante duello tra batteria e synth con Bowie intento a imbucare la sua voce dentro una bottiglia d’acqua per poterla trasformare in quella di un crooner luciferino e sinistro.

Gli eccessi climatici da coma di 1.Outside sono spazzati via da una bella giornata di sole. Bowie guarda il cielo quasi sgombro di nuvole, impavido e statuario, avvolto nella sua Union Jack.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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DAVID BOWIE – L’uomo delle stelle

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David Jones diventa Bowie nel 1966.

Ma nessuno ne conosce il volto, fuori dai ristretti ambienti mod di Londra, visto che i suoi timidissimi esordi su 45 giri vengono impacchettati dentro delle anonime company sleeves (le buste in carta dove viene solo riportata l’etichetta che ha stampato il prodotto).

La sua faccia arriva su una copertina di un disco l’anno successivo. E arriva nel momento sbagliato. Nel giorno in cui i negozi di dischi straboccano di ragazzi. Che però sono lì per comprare l’atteso capolavoro psichedelico dei Beatles.

Il caschettino biondo di David, anche se sottolineato da un affascinante sguardo bicromatico e da due zigomi perfetti, resta parcheggiato lì sugli scaffali, per essere comprato a prezzo maggiorato solo due anni dopo. Portandosi a casa un Bowie che già non esiste più. Il suo disco di debutto è il frutto acerbo di una stagione che è già passata e di cui già nessuno sente nostalgia: quel paese incantato abitato da folletti e gnomi è già stato raso al suolo dai dirigibili e oltraggiato dagli uomini schizoidi del ventunesimo secolo.  

Ma anche fosse successo quello che Bowie e Les Conn speravano, David Bowie rimaneva un disco marginale anche per l’ambito folk in cui era maturato, del tutto inadeguato anche in confronto ai dischi e agli artisti cui poteva essere associato per affinità visionaria e gusto scenografico (Donovan, Syd Barrett, Ray Davies).

L’uomo è ancora lontano dalla Luna. Bowie, dalle stelle.

                                                                                             

Disillusione e dolore sono i temi dominanti di Space Oddity, il disco con cui Bowie cerca di esorcizzare la perdita del padre, la rottura del rapporto con Hermione Fathingale, il risveglio dal sogno hippie in cui la sua generazione aveva creduto fino in fondo. Un lavoro pieno di chitarre acustiche, flauti e clavicembali che si colloca al crocevia tra folk e progressive, imbevuto di un romanticismo stralunato che lo avvicina a Dylan ma anche ad Arthur Lee (An Occasional Dream) e che affronta il tema della solitudine.

Una solitudine immensa e cosmica opprime anche il volo del Major Tom raccontato sulla famosa Space Oddity pubblicata dalla Philips con tempistica astuta in concomitanza col lancio dell’Apollo 11. Seppure l’innesco dello stilofono e la produzione di Gus Dudgeon la allontanino dal clima generale del disco, la canzone è impregnata da un senso di perdita e di isolamento che, vista l’ambientazione scelta per la sua rappresentazione, assume contorni cosmici. Il resto del disco, prodotto da Tony Visconti ha invece un clima decisamente più terreno, a volte addirittura agreste o bucolico che si riallaccia al nascente revival folk che in quegli anni si afferma grazie a formazioni come Fairport Convention, Strawbs, Pentagle, Incredibile String Band e autori di pregio come Donovan, Cat Stevens, Ralph McTell, Roy Harper e che influenzerà in maniera subdola eroi della psichedelia trasversale anglossassone degli anni Ottanta come Paul Roland e Julian Cope (il commiato di Bowie dal movimento hippie di Memory of a Free Festival avrebbe potuto stare su Droolian senza creare scandalo, NdLYS).

Alla fine della strada, i ragni di Marte lo attendono per accompagnarlo nel lungo viaggio degli anni Settanta.

  

È difatti il 22 febbraio del 1970 quando sul palco della Roundhouse, fanno il loro ingresso quattro supereroi armati di strumenti: Space Star, Hypeman, Gangsterman e Cowboyman.

È l’entrata in scena degli Hype, la band che presto si trasformerà negli Spiders from Mars. Ufficialmente, è in quel preciso momento che il glam-rock si affaccia alla ribalta cortocircuitando la scena folk da cui lo stesso Bowie proviene mescolandola con la sottocultura omosessuale e del travestitismo. Già il mese successivo Bowie è iconizzato come nuovo idolo gay sulle pagine di Jeremy.

Quando la Mercury deciderà di pubblicare anche per il mercato europeo il frutto di quella esperienza, chiederà a Bowie di posare in abiti da vecchia signora, speculando sulle capacità del suo autore di trasformarsi in quel che vuole e nella sua innata volontà di creare scandalo. The Man Who Sold the World è in effetti il primo dei dischi di Bowie a cogliere con puntualità le scommesse che la ruota del tempo gli ha destinato in sorte. Le chitarre di Mick Ronson agganciano il ronzio del moderno timbro sabbathiano e lo innestano in una corposa struttura acustica, strappandone le fibre (The Width of a CircleShe Shook Me Cold) così come la natura schizofrenica e gli innesti di sintetizzatore di molte canzoni (Black Country Road, con Bowie che gorgheggia parodiando Marc Bolan, Saviour MachineThe Supermen) scivolano con gran dignità verso il prog, dimostrando la scaltrezza del musicista inglese nel costringere il pubblico a girare comunque lo sguardo verso di lui.

I ragni cominciano a tessere la loro tela. Space Star, col suo sguardo eterocromatico, sceglie chi sarà la prossima vittima.       

                                                                             

Nel 1971 Bob Ringe della RCA, decide di rinnovare l’immagine dell’etichetta per cui lavora, invischiata in torbide storie di finanziamento all’industria delle armi e artisticamente troppo legata alla bigotta scena country, per tacere delle simpatie filonaziste di Dennis Katz. La ricerca del nuovo lo spinge a scoprire personaggi dalla forte ambiguità gender, nuova frontiera della libertà sessuale nata dopo la spinta della controcultura giovanile del decennio appena trascorso. Lou Reed e David Bowie finiscono sotto contratto quasi contemporaneamente. Il primo esordirà su RCA da lì a breve mentre Bowie lo batte sul tempo licenziando per la nuova label il suo quarto disco, quello che ha l’ingrato compito di riportare il cantante inglese al successo del 1969 dopo il fiasco di vendite e lo scarso scroscio di applausi di The Man Who Sold the World. Per riuscire nell’intento, David si affida di nuovo al fascino per il cosmo e i suoi misteri, stavolta scrivendo Life On Mars? con tanto di furba e seminascosta citazione della Also Sprach Zarathustra usata da Kubrick per la sua Odissea nello spazio e più di un ammiccamento alla sua Space Oddity. In realtà Hunky Dory è il primo di frequenti  “viaggi americani” che Bowie effettuerà nel corso della sua discografia con omaggi più o meno dichiarati ad icone come Warhol, Sinatra, Reed e Dylan. L’impianto musicale di Hunky Dory è ancora fondamentalmente acustico, con l’unica eccezione dello squarcio glam di Queen Bitch dove Mick Ronson ruba la scena a Rick Wakeman, vero protagonista dell’intero lavoro ed eroe semiclandestino di tutta la prima stagione del glam-rock (lavorerà sul disco di debutto di Reed e su diversi singoli dei T. Rex). Bowie è ancora Bowie, anche se si atteggia a Marlene Dietrich e comincia ad assaporare il gusto per la prostituzione.   

Ziggy Stardust è uno dei personaggi chiave nell’iconografia rock.

Uno degli incubi ricorrenti che segnano le notti insonni di quanti di giorno si nutrono al seno della rock music e la sera faticano a staccarsi dai suoi capezzoli.

La sua ascesa e la sua caduta sono il monumento al milite ignoto dall’ingordigia dello starsystem.

The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars è il punto in cui convergono compiutamente tutte le esperienze artistiche e personali dei primi trentacinque anni di vita di David Bowie. Mimica, teatro, astronomia, arte glam, cabaret, space rock, travestitismo, pop-art, buddismo, promiscuità sessuale, gay culture. Tutto infilato dentro un concept-album e uno spettacolo che mette in scena l’abbagliante splendore e la fragilità di un eroe del rock. Il supereroe che è venuto a salvare il mondo immolandosi all’altare del rito pagano del rock ‘n’ roll suicide.

Dietro Ziggy ci sono i gli Spiders, tre aracnidi piovute sulla terra il 25 settembre del 1971 e ripartite il 3 luglio del 1973, quando Bowie ammazza Ziggy sul palco dell’Hammersmith Odeon, cercando di liberarsi da un alter-ego talmente grande da mettere a repentaglio la sua identità artistica e privata.

In realtà però i ragni continueranno a girare per un po’ sul nostro pianeta, alla ricerca della polvere di stelle lasciata da Ziggy il quale invece aveva davvero lasciato il nostro mondo. 

Non lo avrebbero più trovato. E ad un tratto riaffiora alla loro memoria il perché, chiuso in quell’atto finale del testamento di Ziggy Polvere di Stelle… Sei un suicida del rock ‘n’ roll(…)così corri a casa/non lasciare che il sole bruci la tua ombra(…)Tutti i coltelli sembrano lacerarti il cervello/prenderò la mia parte, ti aiuterò col dolore.

La grevezza solenne che tinge di arancio e unge di mascara le undici tracce del disco sono la rappresentazione spettacolare dell’alienazione e della sublimazione egocentrica della rockstar. Un tema che era stato toccato in chiave mistica dal Tommy degli Who e che verrà consegnata alla memoria collettiva dal Pink tratteggiato da Roger Waters su The Wall.

Fra i tre però è Ziggy Stardust quello che più di tutti mesce nel lerciume del rock ‘n’ roll.

Con i guanti di piume di struzzo, si capisce. Elegantemente decadente come un Jellicle Cat. O come le incredibili chitarre di Mick Ronson dentro cui è seppellita la voce di David Bowie. Fisiche eppure evanescenti: lunari. Se ne può distinguere ogni pennata, cogliere la vibrazione di ogni corda, lo scintillio di ogni accordo, la lingua di David Bowie lasciare una scia di bava lungo la cassa glitterata della Les Paul in una fellatio che verrà immortalata e iconizzata da Mick Rock come una delle immagini chiave del rock effeminato e decadente degli anni Settanta, celebrato nella Lady Stardust dedicata clandestinamente ai corpi di Marc Bolan e di Lou Reed presenti entrambi anche in spirito rispettivamente nel boogie pre-punk di Hang On to Yourself e nella ballata al neon di Rock ‘n’ Roll Suicide.

Ziggy Stardust è l’embrione sifilitico di tutto il rock ‘n roll malato che verrà e il sarcofago di pailettes che custodisce il cadavere di quello che era stato fino ad allora.

“Ci muoviamo come tigri sulla vaselina
l’amaro viene fuori meglio su una chitarra rubata
Voi siete i prescelti, noi gli Spiders from Mars”

 

 

La netta virata di Bowie verso la musica americana della metà degli anni Settanta ha in realtà una sua deviazione progressiva che parte da molto lontano e che viene accentuata dal tour americano dei primi anni del decennio (fruttando, tra l’altro, la produzione di Transformer e il missaggio di Raw Power). Al rientro da quel soggiorno Bowie mette mano ad Aladdin Sane, un disco che, senza tranciare di netto le visioni orgasmiche di Ziggy Stardust e inserendo molte suggestioni pianistiche retaggio della sempre viva fascinazione del musicista inglese per il teatro e l’avanspettacolo decadente europeo, rende omaggio all’America e alle sue città sfolgoranti. Ma, al centro di tutto, resta ancora Bowie e il suo fortissimo ego, scrutatore attento e vigile del presente, custode del passato (al cui ricordo si dedicherà con dedizione sul successivo Pin Ups), precursore di tendenze, mode, pose e attitudini di là da venire. Aladdin Sane è in bilico fra tutto ciò, con un’aria da musical che ha già in se tutto l’odore dell’uscita di scena del mostro Ziggy eppure vivendone ancora tutta la sua provocante, androgina bellezza. Dentro le sue viscere falene di pailettes come The Jean GenieTimePanic in DetroitCracked ActorAladdin Sane si avvicinano al fuoco, proiettando ombre di farfalla sul muro.      

Ziggy Stardust e Aladdin Sane mettono però in corto circuito la creatività di Mr. Bowie. La ricerca di nuove ispirazioni lo porta a pubblicare un pallido disco di cover degli anni Sessanta per tenere buono il pubblico mentre lui cerca nuove fonti di ispirazione.

Una trovata che Bryan Ferry, avvertito al telefono dallo stesso Bowie col quale ha condiviso le date del Rainbow Theatre che hanno visto i Roxy Music come gruppo spalla agli Spiders from Mars. Ferry sul momento non dice nulla ma il mattino dopo si reca all’ufficio legale della Island perché costringa la RCA a pubblicare il disco di Bowie solo dopo che i negozi si sono riforniti del suo album solista. Che è un disco di cover, infatti.

Proprio come quello che ha deciso di pubblicare un po’ illogicamente Bowie al rientro dal tour devastante di Ziggy Stardust. Pin Ups è un commiato un po’ sottotono per gli Spiders from Mars e, nonostante lo si ascolti con piacere, rappresenta una sorta di bug artistico fra la fase glam che lo precede e quella soul che lo segue. Un disco che schiaccia nell’ovvietà superflua il demone insano del rock ‘n’ roll.

È un omaggio tutto sommato abbastanza fedele e a tratti anche poco riuscito all’epoca della Swinging London che Bowie ha frequentato come musicista ma soprattutto come appassionato tra il 1966 e il 1967. Pretty Things, Who, Yardbirds, Pink Floyd, Them, McCoys, i trasfughi Easybeats fra i prescelti di questo tardo saluto alla stagione della ribellione beat che qui, decontestualizzata storicamente, diventa un’operazione nostalgia che non lascia graffi sulla schiena.  

Tra il 1973 e il 1974 tra i libri e i film da cui cerca nutrimento, resta impressionato dal mondo distopico e crudele di 1984 di George Orwell e da Metropolis di Fritz Lang. L’idea nuova, che però cozzerà su una montagna di permessi, diritti ed autorizzazioni troppo alta da sormontare anche per uno venuto da Marte, è quella di realizzare una sorta di musical ispirato a quello che Orwell e Lang dipingono, credibilmente, come il futuro prossimo venturo. I divieti imposti dagli eredi e dal copyright (a scavalcare Bowie per la rilettura del secondo ci penserà Moroder nel 1984 pagando, secondo quanto dichiarato dallo stesso produttore italiano, delle royalties vertiginose, NdLYS) costringono David Bowie ad accantonare il progetto e a ridimensionarne il contenuto, consegnato al suo pubblico di fedelissimi nel 1974 ed inscatolato dentro una copertina inquietante sotto il titolo di Diamond Dogs. Il nuovo personaggio messo in scena da Bowie si chiama Halloween Jack, un cocainomane terminale che vive sui tetti di Manhattan introdotto sul disco da una folla urlante (in realtà il pubblico californiano accorso per l’ultimo tour dei Faces, NdLYS) e braccato dai Cani di Diamante. Assieme al riff topico di Rebel Rebel con Bowie costretto a sopperire alla sei corde di Mick Ronson (però sul disco la sua chitarra è sapientemente doppiata da quella di Alan Parker) è l’unica vera concessione che David/Jack fa al rock ‘n’ roll sfavillante dei dischi precedenti e che, nonostante le si voglia identificare con l’anima del disco, sono quasi del tutto marginali allo spirito dell’album che vuole invece replicare il clima opprimente del libro di Orwell e del suo “controllore” con la voce di Bowie che, mentre esplora la devastazione psicologica di una città spettrale, sperimenta le tonalità più cavernose della sua carriera profetizzando quello che diventerà il registro vocale preferito dalle successive compagini dark e facendosi largo dentro quello che, perseguendo gli obiettivi originali, ha tutta l’aria di un musical decadente e perverso.

Attenti ai Cani di Diamante.

Attenti alle fauci feroci del 1984.

Al giro di boa degli anni Settanta, David Bowie inganna il pubblico americano con una perfetta replica dei dischi soul che dilagano su radio e televisioni. Lo fa senza preoccuparsi di perdere il suo accento britannico e infilandoci dentro i Beatles in spirito (la cover di Across the Universe ma pure la citazione dei versi di A Day in the Life che vengono fuori dal barattolo della title-track, lasciati fluttuare al vento come farfalle assieme al sax di David Sanborn e le conga che vibrano sotto le dita di Larry Washington) e in carne ed ossa (quelle di Lennon, ospite del disco). Young Americans, canzone e album, si lasciano sedurre dalla morbosa sensualità della musica nera anticipando di qualche mese l’analoga infatuazione dei Rolling Stones per le forme morbide del soul e quelle ammiccanti della disco-music.

È la prima vera “cotta” di Bowie per il successo, arma insidiosa ben descritta nella Fame cointestata, più per ispirazione trasversale che altro, con John Lennon e alle cui lusinghe però è difficile sottrarsi. E da cui David Bowie non si sottrarrà. E il successo arriva infatti. Immediato. Proprio sull’onda del ritmo funky di Fame, una nemmeno troppo brillante variazione sul tema di Footstompin’ che Bowie ha suonato negli studi della ABC durante un Dick Cavett Show di qualche mese prima. Bowie colonizza gli americani regalando loro nient’altro che la loro stessa musica, spendendo i loro dollari in cocaina, sesso e tabacco. Ziggy era morto per questo, dopotutto. Non è così?

 

Di stazioni ne tocca tante Bowie, nel 1976.

Dal 2 febbraio al 18 maggio è impegnato nell’estenuante tour con cui porta in scena il fascino elegante e mascolino del Duca Bianco.

Ma le due stazioni più importanti sono quella di Los Angeles da cui parte schifato a pochissime settimane dall’uscita del disco e quella di Berlino dove approda prima di essere passato dal suo rifugio svizzero.

Tra la partenza e l’arrivo ha modo di lasciare qualche foto ricordo ai suoi fan. Come quella famosa scattata dalla Polizia di Rochester con il cartello n. 59640 ad un palmo dal mento. O come quella scattata da Andrew Kent dentro il bunker di Hitler con il Duca intento a fare il saluto nazista.

Sono gli scatti che fanno il giro del mondo e che gli tagliano le simpatie di buona parte di pubblico e critica, offesa dall’ambiguità politica più che da quella sessuale degli anni d’oro. O, più verosimilmente, interessata a presentargli il conto per quella rivestendo l’integrità morale con una scorza di opportunismo ideologico.

Station to Station è il disco lucidissimo di un uomo che è al nadir della lucidità psicologica, completamente schiavo della cocaina, ad un passo dal baratro che lo sta per inghiottire e che Bowie localizza in qualche punto non ben definito fra la spiaggia di Long Beach e le onde dell’Oceano Pacifico da cui quindi scappa a cercare salvezza, lasciandosi dietro un disco incredibilmente bello, ancora permeato di quel soul che avvolgeva l’album precedente ma che sembra già proiettato verso certe meccaniche teutoniche, soprattutto nella scelta di lunghe code o intro con reiterazioni melodiche arricchite da un lavoro di produzione maniacale per definizione e stratificazione del tappeto sonoro che ancora oggi lo rende un disco modernissimo ed affilato, sensualissimo e algido allo stesso tempo, carico di funky (cosa non sono i pattern di batteria di Dennis Davis e la chitarra di Alomar su Stay?) eppure capace di risolvere in stile Broadway un delirio da abuso di droghe come TVC15.  

Lo straniero con gli occhi diseguali siede con la testa coperta da un cappello a falde larghe, nel reparto fumatori. Ogni tanto alza lo sguardo dal libro e sembra accennare un sorriso.      

Low. Basso.

E in effetti così si sentiva Bowie dopo anni di eccessi tra New York e Los Angeles.

Un nanismo psichico che lo schiaccia verso gli abissi dello spirito.

Sempre più in fondo. Fino a schiacciarlo.

Low

David vuole trovare riparo dalle piogge di cocaina che lo hanno inzuppato e reso ipocondriaco e vuoto. Magro e pallido come il lenzuolo di un fantasma. Così smagrito da poter contare ogni singolo osso del suo corpo. Così pieno di droga da non riuscire più a dormire.

Insonne e disperato, Bowie sceglie Berlino come rifugio per la sua inquietudine e come stimolo per la sua rinascita personale ed artistica.

Una vera e propria fuga dal centro mondiale della cocaina, della cui dipendenza David comincia ad avere una paura folle.

Una fuga dal successo, quello descritto appena due anni prima con John Lennon sulla Fame che chiudeva Young Americans e gli regalava il suo miglior risultato americano.

A Berlino, nell’immensità imponente e solenne di quelle strade infinitamente grandi, nell’austerità muta di quel muro che divide il mondo in due, Bowie può tornare ad essere il Signor Nessuno. Struccato e avvolto in un anonimo cappotto va ai funerali di Ziggy Stardust e di Halloween Jack. Poi, si reca agli studi Hansa di Berlino Ovest, dove ad attenderlo c’è Brian Eno, per il missaggio finale di Low e per scalfire assieme a lui quel gelido blocco di granito che è Warszawa. È il centro gravitazionale di un album che sarà una delle maggiori influenze sul piano estetico delle imminenti esplosioni new-wave, synth-pop e neo-romantica.

I Tubeway Army, gli Human League, i Duran Duran, gli Ultravox, i Freur, i Japan, i Tuxedomoon, i Simple Minds iniziano da qui.

Dai sibili decadenti di Weeping Wall, da Art Decade, da Subterraneans così come dalle fiamme fredde che avvolgono il funk di Speed of Life, dall’art-rock di What in the World, dalle autostrade di vetro che fanno da pista per Always Crashing in the Same Car.

Anche la visione neo-realista e filonazista dei primi Joy Division comincia dichiaratamente da qui.

Lontano dalle stanze dell’Hotel California, David Bowie reinventa se stesso, nella fredda notte berlinese.

Such a lowely place.

Such a lowely face. 

 

Più ancora di Low, è Heroes” il disco chiave della coppia David Bowie/Brian Eno.  

Contraddittorio e surreale, schiacciato tra i ricordi cocainomani e glam del primo e la fredda elettronica del secondo, ispirato dall’avanguardia germanica di Neu! e Kraftwerk e influenzato dal regime repressivo della Cortina di Ferro e dallo sguardo vigile della Volkspolizei, “Heroes” è disco scostante e dagli umori mutevoli, come tutta la trilogia berlinese di Bowie. Sputa petrolio (Beauty and the BeastJoe the LionBlackout) per poi adagiarsi esanime simulando una morte apparente su Sense of Doubt e nel grigiore tutto teutonico di Neuköln dove l’apocalittico struggimento provato alla visione del distretto turco di Berlino surclassa il senso di agghiacciante desolazione che la vista di Varsavia aveva generato sul disco precedente.

L’effetto di insieme resta volutamente delirante, ambiguo, scostante. Le chitarre di Robert Fripp, le tastiere di Brian Eno, il sax e il koto giapponese usato per le visioni orientali di Moss Garden, il canto volubile di Bowie che passa da registri bassi a picchi isterici in barba alla disciplina germanica, i cori goliardici che farciscono alcune delle tracce del disco contribuiscono a creare il vortice emozionale dell’album.

Da questo cataclisma emozionale sembra librarsi in volo la title track.

Brian Eno dispiega le sue ali di cristallo e David Bowie ci si stende sopra cantando di  tutto l’amore che è possibile cantare sopra, sotto, a fianco del muro di Berlino. “Heroes” rappresenta uno dei vertici lirici ed espressivi della carriera di Bowie ed una delle più epiche cavalcate della storia della new wave, raggelante e inespressiva come un interminabile piano-sequenza sui mattoni del Berliner Mauer in una estrema visione romantica e neorealista del dopoguerra. “Heroes” ha un groove algido ed orizzontale, una distesa di EMS VCS3 che nasconde un pianoforte minimale che picchia costantemente su due accordi, con un crescendo longitudinale simile a quello di I’m Waiting for the Man dei Velvet Underground. Nessuno pare accorgersene, eppure è proprio quell’ossessivo refrain che scorre per tutti e sei i minuti del brano (qualcuno ha mai pensato di denunciare la RCA per aver “editato” la versione per il singolo tranciando i due minuti iniziali della canzone? NdLYS) a conferire quella surreale atmosfera di alienazione urbana al pezzo. La voce di Bowie invece ha una intensità smisurata, ottenuta piazzando tre microfoni a diversa distanza e aprendoli uno per volta man mano che il pezzo progredisce fino ad ottenere un riverbero ambientale simile a quello ottenuto in una galleria metropolitana.

Il vuoto sotto Berlino.   

 

L’interesse e la ricerca di Brian Eno verso le “musiche possibili” influenzano in maniera decisa il più sperimentale e avanguardista  fra i dischi di Bowie.

Lodger è un labirinto pieno di trabocchetti, cunicoli e specchi deformanti.

Bowie si riappropria in maniera del tutto personale ed artificiosa di due canzoni scritte per altri come Sister Midnight o All the Young Dudes, sperimenta con Eno le teorie sugli “incidenti programmati” che costringono i musicisti ad imprigionare la loro creatività secondo le turbolenze emotive del produttore, cede al fascino delle musiche che i Gastarbeiter hanno portato a Berlino assieme alla manodopera che il Wirtschaftswunder richiede, strizza l’occhio a quei nuovi rifugi per gli adolescenti volgarmente chiamate discoteche e approva (ma solo in parte) l’idea di Brian di costruire delle canzoni “in serie” sfruttando il medesimo giro armonico di base e alterandone solo il senso ritmico, nasconde con astuzia piccole parodie (Velvet Underground, Neu!).

David Bowie lascia Berlino e gli anni Settanta con un disco scosceso e sibillino, austero eppure ammiccante, cerebrale senza smettere un solo secondo di mostrare le gambe.

Lodger raccoglie la polvere delle stelle in una polveriera.    

 

Dentro i dischi che Bowie e Brian Eno mettono in piedi all’ombra del muro di Berlino c’è una scorta abnorme di intuizioni che possono indicare traiettorie nuove dal numero quasi infinito.

E lo fanno.

Se avete provato a tracciare una cronologia discografica della new wave e delle sue filiazioni (dal synth-pop al new romantic) vi sarete accorti che nessun disco porta una data anteriore a quella della trilogia berlinese.

Low“Heroes” e Lodger hanno creato una progenie infinita di mostri di cui Bowie può rivendicare la paternità e dal quale ruolo invece si sente di prendere ideologicamente ma fermamente le distanze. Se infatti Scary Monsters è, stilisticamente, l’approdo “concreto” delle svariate intuizioni sperimentate nel corso del soggiorno europeo (e ne è figlio dichiarato, come dimostrano i disegni tratteggiati a bordo copertina, NdLYS), Bowie rifiuta di lasciarsi imprigionare nel ruolo di guida spirituale dei movimenti nati a valle di quei suoi dischi seminali.

Sei un magnate dal naso rotto, uno dei ragazzi della new wave

La stessa vecchia storia travestita di nuovo
Che viene avanti facendosi strada
Brutta quanto un ragazzino arricchito
Che fa finta  sia un mondo di bambini prodigio
Mi prenderai da parte e dirai
“Beh, David, cosa dovrei fare?
Mi attendono all’entrata”
Io dirò “Non chiedere a me, non conosco entrate”
Ma si muovono in massa e mi stringono in un angolo
Sento di andare controcorrente, no-no
Non possono farmi questo
Non faccio parte in alcun modo
di quella fauna di giovinastri

recita su Teenage Wildlife, un brano che richiama non a caso la struttura di “Heroes”.

Non è l’unico tentativo con cui Bowie prova a cancellare le tracce del suo passaggio, cosciente dei risultati ottenuti ma anche del duro prezzo che ha dovuto pagare.


Vi ricordate di quel ragazzo che stava
In una canzone così vecchia
Ho sentito una voce dalla Torre di Controllo
Oh no, non ditemi che è vera

Hanno ricevuto un messaggio
dal Protagonista
“Sono felice, spero che anche voi lo siate
Ho amato tutti quelli
che avevo bisogno di amare
il resto sono solo sporchi dettagli”

Cenere alla cenere, funk al funk
Ora sappiamo che il Maggiore Tom
è un tossico
Confinato nell’alto dei cieli
Perduto in una depressione senza fine

Voglio un’ascia per rompere il ghiaccio
Voglio tornare immediatamente giù 

È l’outing che il biondo artista si concede su Ashes to Ashes, il capolavoro assoluto del disco ricco di una decadenza infinita, la ghigliottina pop con cui demolisce la prima della sua infinita carrellata di personaggi, sciogliendo in un cucchiaio di acqua calda e limone il sogno della sua prima recita.  

Perfettamente in equilibrio tra impeto rock, ombre new wave, algide figure sintetiche, ritmi funky, arrangiamenti sofisticati, inquietudine e desiderio di riscatto, Scary Monsters filtra tutta la produzione bowiana del decennio appena chiuso con eleganza e senso della misura.

Il seminatore si prepara, lucido, al raccolto.  

Nel 1983 David Bowie arriva nei negozi con il suo Disco-Scandalo e va all’assalto delle classifiche e del nuovo mercato dei canali musico-televisivi conquistando tutto il pubblico che lo aveva visto fino ad allora come un artista snob ed indigesto.

A sdoganarlo presso il grande pubblico c’era in realtà già stato Under Pressure, successone dei Queen dell’anno precedente scritto e interpretato da Bowie assieme a Freddie Mercury.

Ma Let‘s Dance è il primo prodotto del musicista inglese pensato espressamente e con etica “industriale” per le grandi masse.

Per realizzarlo, Bowie si circonda di nomi funzionali all’obiettivo che si è prefisso tirando fuori brutalmente Tony Visconti dal banco regia (e lasciando alla sua segretaria il compito infausto di notiziarlo), chiamando al suo posto il “mago” Nile Rodgers. E avvicinando lo Steve Ray Vaughan che lo ha impressionato sul palco del Montreux Jazz Festival.

Si affida a loro quasi completamente, limitandosi per la prima volta all’esclusivo ruolo di interprete.

Mani libere, perché possa anche lui ballare al ritmo del suo disco più funky abbozzando le mosse da divo new-romantic con cui sfiderà i Duran Duran sul loro terreno di casa, ovvero quello dei videoclip.

Nonostante il pezzo più appassionante del disco sia l’unico che non vedrà l’onore del piccolo formato (la sincopata marcia di Ricochet tutta giocata su una ripetitiva traccia di batteria), Let‘s Dance sputa fuori quattro estratti di grande successo: Let’s DanceModern LoveWithout You, una China Girl dagli occhi ancora più a mandorla di quella descritta su The Idiot di Iggy Pop grazie alle mani di Rodgers che la trasformano da ballata decadente a una luminosa e ruffiana disco-mandarino che promette notti a luci rosse e una Cat People che è giù stata usata come tema conduttore dell’omonimo film (e, anni dopo, da Tarantino per Bastardi senza gloria, NdLYS) in una versione minimalista molto più efficace di quella sovrabbondante che Bowie si vede costretto a rimodulare per l’album a causa dei veti imposti dalla MCA. 

Il Duca Bianco vive dunque la sua fase di sovraesposizione che si protrarrà per tre anni buoni, con un’immagine che rimbalza velocemente dal grande (Miriam si sveglia a mezzanotteFuryoLabyrinthAbsolute Beginners) al piccolo schermo senza soluzione di continuità, lavorando con artisti di grandissimo richiamo popolare (Mick Jagger, Tina Turner, il progetto Band Aid) e producendo canzoni dal fortissimo appeal commerciale (Blue JeanThis Is Not AmericaDancing in the StreetLoving the AlienUndergroundNever Let Me Down), trasformandosi con un’astuta mossa artistica e mediatica dall’uomo che ha venduto il mondo, nell’uomo che il mondo se l’è comprato.

Eppure, nonostante l’aria di svendita artistica che vi si respira, Let‘s Dance rimane uno dei “prodotti” meglio confezionati degli anni d’oro del pop di plastica.

Certo, bisogna dimenticarsi di chi è stato Bowie.

Dimenticarsi dei Ragni di Marte e del folle Aladino.

Dimenticare Berlino e il suo zoo. E dimenticarlo in fretta.

Dimenticare che per un giorno siamo stati eroi e che adesso siamo soltanto una ruota del carro.             

Se non lo è dal punto di vista commerciale (Tonight si piazza, come i due album che lo avevano preceduto, in vetta alle classifiche di vendita britanniche), Tonight è un totale fiasco sotto l’ottica creativa. Un disco che, nonostante i colori sgargianti esibiti in copertina e su video, è di una piattezza e di un laccato che mette quasi soggezione. Si tratta in larga parte di materiale “sottratto” o scritto assieme all’amico Iggy Pop, rivisto quasi esclusivamente sotto un artificiale e tiepido sole caraibico. Nonostante i nomi coinvolti (Iggy in ossa e la Turner in carne, NdLYS) e un paio di estratti che servono a sfruttare a livello mediatico il filone d’oro inaugurato con Under PressureTonight non regala alcuna buona vibrazione e segna, storicamente, il momento in cui il nome di Bowie si inabissa nel mare magnum delle riviste di settore per affiorare da lì in avanti e quasi esclusivamente, nelle riviste patinate di moda e di pop patinato, ripulito a dovere per poter augurare Buon Natale al mondo nascosto dietro le sagome terzomondiste del Band Aid.      

Inebriato e stordito dal successo, a metà degli anni Ottanta David Bowie si rifugia in Svizzera a scrivere canzoni assieme all’amico Iggy Pop. Da quegli incontri che qualcuno giura non siano solo artistici vengono fuori due tra i dischi peggiori dei due: Blah · Blah · Blah dello zio Iggy e questo Never Let Me Down del suo biondo amico inglese. Dischi inzuppati nei peggiori suoni rock-oriented del periodo e carichi di una irruenza posticcia e una muscolosità da integratori illegali. Più ancora del disco che lo ha preceduto, Never Let Me Down rivela un’assenza di idee disarmante a supporto della quale David porta in giro per il mondo uno sfavillante tour che ha tutta la consistenza artificiosa di un musical che fa razzia anche dei vecchi inni ribelli come The Jean GenieRebel Rebel o Heroes ridotte a volgari manifestazioni di virtuosismi chitarristici (Peter Frampton è l’uomo chiamato ad accontentarsi del posto alla sinistra del Padre, quello di destra di nuovo occupato da Carlos Alomar, rientrato nei ranghi dopo la pubblicazione del dignitosissimo Let’s Dance, NdLYS) e bruciate dalle luci abbaglianti che svaporano dalle lastre di plexiglass.   

 

Il rientro di Bowie dentro il corpo di Bowie dopo l’avventura dei Tin Machine avviene grazie al rinnovato legame artistico con Nile Rodgers, l’uomo che aveva prodotto l’unico suo disco dignitoso dopo Scary Monsters.

Sono loro due il bianco e il nero nascosti dietro il Black Tie White Noise del titolo.

E bianco e nero sono i colori che convivono dentro un disco che è animato dallo spirito funky di Rodgers e da una verve rock che pigramente si sta risvegliando dal coma artistico dell’artista inglese. È una commistione non inedita e già sperimentata su Young Americans e Station to Station adesso arredata secondo il gusto urbano degli anni Novanta e alimentata da un rinato ottimismo in gran parte dovuto alle sue recenti nozze (cui dedica l’apertura e la chiusura del disco, a mo’ di cerimonia) ma anche dalla fiducia che il carrozzone Tin Machine gli ha nuovamente instillato.

È una impalcatura che ha una sua sobrietà su cui Bowie investe pochissimo come autore, delegando spesso l’onere ai comprimari (Looking for Lester non è altro che una bella improvvisazione dell’altro “Bowie” che partecipa al disco, You’ve Been Around uno scarto Tin Machine scritto da Reeves Gabriels) o scartocciando il solito pacchetto di cover versions (pescando stavolta dai Cream, da Scott Walker e da Morrissey). Un disco che lavora più sul groove che sull’abbecedario della novità ormai chiuso da tempo, impacchettato in una copertina rassicurante.

Sono Bowie e non vengo a farvi del male.    

                                                                                 

Se Black Tie White Noise era stato una sorta di ricongiungimento ideologico con Young Americans1.Outside è l’ideale ponte sonoro col mondo orwelliano di Diamond Dogs seppure l’impronta di Brian Eno e il fascino per la cultura cyber e per la musica industriale dei Nine Inch Nails che Bowie coltiva in quegli anni trasportano musicalmente il disco in un’ambientazione sonora del tutto differente.

Probabilmente stimolato dalla libertà artistica che la realizzazione della colonna sonora per The Buddah of Suburbia gli ha regalato, Bowie torna alla voglia di sperimentare e di rischiare. 1.Outside è un disco inquieto laddove il disco precedente era stato un comodo album da salotto, un disco che alle luci confortanti di quello preferisce le ombre, alla fisicità rassicurante l’evanescente dubbio di una presenza che è più avvertita, percepita che manifesta e che, per questo, incute angoscia e tensione. Per rendere credibile il gioco e non abbassare il livello di guardia dell’ascoltatore, Bowie ed Eno tornano alla concettualità che era necessaria, inventando una trama pur difficile da seguire che fa da collante a tutto l’album penalizzato forse da una durata che se è funzionale all’argomentazione e all’ispirazione rivela anche una verbosità che è difficile da arginare e che ha però il bellissimo compito di allontanare chi a Bowie si era avvicinato grazie all’ammiccante presa dei successi radio-televisivi degli ultimi dieci anni.  

Grazie David, per aver osato.    

A metà del guado degli anni Novanta, la jungle, il drum ‘n bass, il breakbeat sono la “nuova cosa” che sta rivoluzionando la musica mondiale, ridando prestigio alla musica elettronica e conquistando il mondo del rock. Fin troppo ovvio che Bowie, da sempre permeabile alle novità e desideroso di percorrere strade inesplorate e riadattarle alla sua bisogna, ne rimanga affascinato. EART HL ING, frantumato sin dal titolo, è il disco con cui Bowie piega la sua musica alle sincopi frenetiche delle nuove frontiere della musica elettronica.

Buona parte del lavoro (Telling Lies, il “prodigyoso” singolo Little WonderBattle for Britain) è intessuto su  queste meccaniche di ritmi cibernetici e distorsioni che sembrano frenare o sbuffare come locomotive su questo tappeto ritmico franoso, oppure si dischiude su improvvisi riff di chitarra che spuntano come massi mentre tutto il resto scorre liquido come un fiume ingrossato dalle piogge, ricordando volutamente le rocciose slavine dei Pixies (che erano una fisima per Bowie già ai tempi dei Tin Machine e tale resteranno fino ad Heathen, NdLYS), come succede nella bella Seven Years in Tibet o sulla The Last Thing You Should Do percorsa da un vibrante duello tra batteria e synth con Bowie intento a imbucare la sua voce dentro una bottiglia d’acqua per poterla trasformare in quella di un crooner luciferino e sinistro.

Gli eccessi climatici da coma di 1.Outside sono spazzati via da una bella giornata di sole. Bowie guarda il cielo quasi sgombro di nuvole,impavido e statuario, avvolto nella sua Union Jack.  

La tensione dei due dischi precedenti viene disinnescata con ‘hours…’, disco-rifugio che già dalla copertina annuncia un desiderio di riposo e di cure. È il debutto ufficiale nel nuovo mondo digitale (il disco è in assoluto il primo album di una star ad essere scaricabile in rete prima della sua uscita “classica” e il popolo di Internet viene chiamato a partecipare fattivamente alla realizzazione del disco con tanto di contest lanciato dal sito dell’artista, NdLYS) ma è, nei fatti, una sorta di ritorno alla normalità a tratti imbarazzante di dischi come Never Let Me Down e Black Tie White Noise.

Ogni provocazione è soffocata e la dimensione scelta da Bowie è quella del cantante confidenziale venuto a raccontarti della sua vita, senza in realtà raccontare nulla. Si resta dunque in attesa di una rivelazione che non verrà rivelata, di una confessione che non verrà confessata, di una profezia cui tornare a credere.

E invece non arriva neppure quella. E si torna ad arrabbiarsi col Duca, qui più bianco che mai, per aver tradito una volta ancora le nostre aspettative e aver badato più al contenitore che al contenuto. Per essersi concesso un altro angolo di normalità dopo una vita di eccessi in barba alla nostra perenne fame di sorprese saziata troppo spesso per delega, facendo vivere a lui quello che a noi era impedito. Per averci illusi che era possibile separare i suoi dischi dal resto del mondo e poterne fare una pinacoteca di capolavori tutti dissimili ma tutti necessari. E averci rovinato la collezione. Per essersi concesso un angolo di normalità dopo una vita 

  

Nel 2000 David Bowie riallaccia i legami con Tony Visconti, interrotti ormai da un ventennio. Ha voglia che sia lui a ridare un volto nuovo, moderno al suo vecchio materiale per un progetto intitolato Toy.

Poi succede che la storia corre più veloce di loro. A bordo di due Boeing 767.

E la storia cambia un po’.

Quella del mondo e quella di Toy, che si trasforma in un album di canzoni inedite. Che parlano dell’11 settembre e di tutti gli altri giorni dell’anno.

Dei giorni suoi di quelli altrui. Compresi quelli un po’ più lontani di Pixies, Legendary Stardust Cowboy e Neil Young.  

E quello che nei progetti doveva essere niente più che un gioco, si tinge di un’ombra più torbida, salvandoci forse dalla noia di una seconda “ora” di ‘hours…’.

Heathen ci racconta di un mondo che si sbriciola sotto i nostri occhi (o del bianco che ne rimane), così come il nostro passato. Abbandonato anche dagli angeli, che ci lasciano alla stessa ora in cui Jimmy lascia Brighton sulla sceneggiatura di Quadrophenia.

Per questo si apre con un’aria da musical apocalittico su cui Bowie recita:

Niente rimane
Potremmo correre quando la pioggia diventa leggera
Cercare auto o segni di vita
Dove va il calore
Cercare le persone alla deriva
Dovremmo strisciare sotto le felci
Cercare i barlumi di luce per la strada
Dove va il calore

Tutto è cambiato
Perché, in verità, è l’inizio del nulla
E nulla è cambiato
Tutto è cambiato
Perché, in verità, è l’inizio di una fine
E niente è cambiato
E tutto è mutato

e si chiude con gli stessi toni da melodramma pagano cantando sotto un cielo che si è fatto di vetro e di ferro e chi aveva promesso di esserci quando avremmo fatto il loro nome, hanno scordato il timbro della nostra voce.

Non piacerà a molti, Reality.

A tanti per abitudine.

A tanti, molti, per pigrizia.

Ad altri perché si aspettano ancora che Ziggy scenda da Marte e li porti a Berlino a vedere gli amanti che si baciano in barba ad una città, un’Europa divisa. Nel frattempo su Marte ci siamo arrivati noi, il muro è stato abbattuto, l’Europa ha una sola bandiera e la Germania è diventata di nuovo l’alleato cui ci pieghiamo, anche senza dichiararlo su Radio Monaco.

A me Reality piace.

Mi piace il suo essere dinamico, diverso, cangiante.

Mi piace per la sua maestosità da blockbuster che si accuccia dentro piccoli bozzoli di musica senza provarne vergogna. Fino a piombare in un abisso di solitudine come The Loneliest Guy.

Mi piace per tutti i suoi accordi in minore che fanno si che la sua felicità non sia mai piena. Come è giusto che sia.

Mi piace perché ci regala un piano jazz ma ce lo fa trovare in salone pieno di fiocchetti colorati. E perché lui ci si appoggia intonando una cosa come Bring Me the Disco King come fosse Frank Sinatra. E noi chiudiamo gli occhi e ci piace pensare lo sia.

Mi piace perché veste Jonathan Richman con una tutina da ufficiale dell’Enterprise e lo manda in orbita a salutare ancora Pablo Picasso.

Mi piace perché Bowie torna a suonare l’armonica dopo qualcosa come venti anni. E l’armonica è come gli occhi, non sa fingere.

Risorgere.

È questo l’imperativo dominante sul disco che segna il rientro artistico di David Bowie.

Un album che non rinnega nulla della lunga storia dell’artista fino ad autocelebrarsi nella copertina che lo introduce.

C’è il Bowie notturno e quello illuminato dallo stroboscopio, il Bowie eroico e quello ordinario, il Bowie berlinese e quello americano, il Bowie col trucco e quello nudo, il Bowie sintetico e quello elettrico, il Bowie pel di carota e quello caduto dalla Luna, il Bowie innamorato del soul e quello innamorato solo di se stesso.

The Next Day è un disco di riconciliazione e di misurata bellezza, che evita le sorprese (quelle belle e anche quelle brutte) e si accontenta di tenerci compagnia. Avendo già esplorato le vette, Bowie si limita a passeggiare per i pascoli meno scoscesi riducendo al minimo il rischio di scivolare, ricordandoci che su quell’erba sono ingrassate le mandrie che abbiamo visto sciamare fino al macello, dai Simple Minds (I‘d Rather Be High) ai Morphine (Boss of Me), dai Muse (How Does the Grass Grow?) ai Bauhaus (Heat).

Bowie ha smesso di crescere in verticale, respinto e costretto a ridiscendere la pertica da un Dio impensierito e presuntuoso.

 

Ho ucciso me stesso per riempire la coppa, su questo altare che prometteva pietà.

Ancora e ancora. Perché si abbondasse di sangue e dolore.

Ho tolto le scarpe perché il mio sacrificio non svegliasse chi era intento a sognare di sogni troppo incantevoli per poter venire turbati.

Ora tu ridi del mio dolore chiamandolo vano.

Eppure non dovresti.

Perché nessun dolore è inutile.

Solo la felicità lo è.

Nutro il massimo rispetto per Bowie.

Uno che quando aveva diciassette anni pubblicava già il suo primo singolo, che quando ne aveva 25 si preparava al grande assalto di Ziggy Stardust, che a 38 cantava al Live Aid, che a 65 prendeva un taxi a New York e che a 78 probabilmente sarà un astronauta merita devozione assoluta.

Il gioco in rete, su cui ci siamo divertiti un po’ tutti, si chiama supbowie.com e, la mattina dell’11 gennaio 2016, è stato solo modificato con due righe che fino alla sera prima non c’erano.

So che le avete già viste.

E Bowie non amerebbe ripetersi sul già visto.

Solo tre giorni prima David aveva festeggiato il suo sessantanovesimo compleanno. Un numero che graficamente può essere rappresentato con lo Yin e lo Yang. Il momento esatto in cui tutto può compiersi come un’estrema messinscena di gran classe.

Va via su una stella, Bowie, così come molti anni prima si era fantasticato fosse arrivato sul nostro pianeta. Una stella nera destinata a diventare uno dei simboli più postati in rete dentro cui racchiude il disco destinato a lasciare la più lunga scia di interpretazioni (dalle critiche frettolose subito rivedute e corrette a quelle esoteriche) tra tutti quelli prodotti nella sua lunga carriera.

Ci lascia in testamento una stella nera (che in realtà nera non è, ma questo lo lascio scoprire a voi) e va via, inghiottito dalla costellazione del Cancro, firmando la sua ultima e-mail come “Dawn”.

Lasciandoci al buio.  

“Con cosa ci stupirà?” la domanda più diffusa, prima che la valanga di emozione travolgesse tutti. 

Perché c’è gente che si stupisce ancora con un disco di Bowie. E questo è di una bellezza e di una poesia disarmanti.

Personalmente, da quando ho “agganciato” i dischi di Bowie in sincrono con la loro uscita (ovvero da Scary Monsters) nessuno di loro mi ha stupito se non in maniera negativa. Ma questo non fa statistica. Anche perché il valore assoluto dei suoi dischi degli anni Settanta non ne viene scalfito. Quel valore però altera spesso il giudizio di quanto è successo dopo. È una sorta di assicurazione sul capitale investito che inquina ogni giudizio che si sforzi di non essere arbitrario.

La premessa era lunga, ma necessaria.

E ora veniamo a disco n. 26 della lunga carriera del musicista caduto sulla Terra. Un album che contiene al suo interno tanti tasselli del Bowie che già conosciamo, soprattutto quello di Heathen ed EART HL ING ma anche di Station to StationBlack Tie White Noise e certi sperimentalismi della trilogia berlinese, rivisti con l’occhio intellettuale del Bowie settagenario. Sassofoni svolazzanti su tapiroulant ritmici a velocità variabile, concessioni al pop rase al suolo e un senso di inquietudine reso manifesto già dai dieci interminabili minuti della liturgia propiziatoria di Blackstar e ben replicato più avanti su Lazarus o Girl Loves Me.

è un album pieno di brutti presagi e di angoli bui, incline al jazz nella stessa maniera trasversale, ambigua, disarcionante in cui potevano esserlo i Thievery Corporation,  Eric Mingus, i Massive Attack claustrofobici di Blue Lines o i Talk Talk degli ultimi dischi, mostrando il coraggio di chi, alla soglia dei settant’anni, sente più la necessità di far quello che gli pare più che assecondare la voglia di stupore dei suoi fan e dei loro figli.

Stupiti? Bene.

Pronti a perdonare tutto quello che prima non avete saputo perdonare schiacciati  dall’arte sublime del riscatto tardivo? Missione compiuta, Maggiore Tom.

Torre di Controllo a Maggiore Tom
comincia il conto alla rovescia,
accendi i motori,
controlla l’accensione
e che Dio ti assista.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

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LAYO & BUSHWACKA! – Low-Life (End Recordings)

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Se andate a Londra e decidete di ficcarvi dentro l’ecosistema di chiappe e mammelle che affollano il The End, troverete il Mr.  Matthew Bushwacka dietro al banco dei piatti.

Mister Layo Paskin seduto dietro a quello degli incassi.

Se invece un po’ di aria del club londinese decidete di portarvela a casa, eccovi pronto il disco che i due hanno approntato giocando sui ritmi e sui paesaggi che sono loro familiari. Detroit…Chicago…luci stroboscopiche accese su grattacieli di vetro e metallo, ingegneria urbana applicata al ritmo che raggiunge soglie vicine alla perfezione nel cuore del disco, laddove si accendono le sincopi ritmiche di Kusekhaya.

La giungla, ma quella vera stavolta.

Sfuggendo alle suggestioni di campionamenti dal rapido ma biodegradabile effetto, Layo e Bushwacka filmano su fotogrammi ritmici austeri ma avvenenti il tramestio erotico di beats che si corteggiano e copulano ondeggiando fino all’epilogo ormonale affidato al singolo Ear Candy. Misure e simmetrie che costruiscono uno dei più calibrati dischi di breakbeat finora realizzati.

 

                                              Franco “Lys” Dimauro