THE REACTION – Shapes of Things to Come (Bristol Archive)

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I Reaction erano quattro ragazzotti di Bristol innamorati perdutamente del beat e del folk-rock degli anni Sessanta. Giovani e sfortunati, non riuscirono ad andare molto oltre lo status di cult-band locale, senza neppure un supporto discografico adeguato, limitato all’epoca ad un solo 7”. La Bristol Archive però, volendo rendere giustizia alle glorie locali, pubblica trent’anni dopo questa meravigliosa raccolta dove accanto a cover di Byrds, Beatles, Yardbirds e dei Tokens-via-Creation trovano posto altre sette composizioni del triennio ‘85/’87 firmate dal gruppo dal suono cristallino e a tratti quasi bucolico (It Was a Long Time Ago) di rara bellezza. Having Seen Your Face e For All That I Am in particolare trovano la quadra fra il Merseybeat inglese e il folk elettrico di band come Beau Brummels e Turtles mentre la fantastica Surf-Riding spinge il piede sul groove e attorciglia a dovere e con grande perizia il suono delle due chitarre e mostra, assieme alla coeva Loose Girl, come il suono della formazione si stesse evolvendo verso soluzioni più acide e aggressive. Peccato che il tempo e la fortuna non siano stati dalla loro parte e “le cose a venire” non avrebbero mai preso forma compiuta.

Onore ai Reaction.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SMOGGERS – Dark Reaction (Soundflat)

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Spagnoli di Siviglia gli Smoggers arrivano col quinto album al giusto compromesso tra idioma autoctono e lingua inglese riservando ad ognuna una intera facciata del disco. Per chi non li conoscesse gli Smoggers sono la perfetta band che fa il revival del revival celebrando venti anni dopo i gruppi del movimento neo-garage degli anni Ottanta.

Per l’occasione rispolverano ad esempio You Can’t Come Down dei Crimson Shadows e Waiting dei Miracle Workers col consueto apparato di chitarre fuzzate, organo cheesy e urla cavernicole. Il che non basta a fare il garage-album perfetto, appuntamento che gli Smoggers mancano anche nel caso di Dark Reaction che però fa sfoggio di alcuni assi da tirare fuori dal polsino al momento opportuno: la violenta Tu maldad che sembra l’urlo di Attila lanciato dalla Cordigliera Betica, lo spiedo fuzz e la griglia di organo che bruciano le carni su Fuzz Me in the Cave oppure quella Who’s Jenny che rinnova i sogni fuzztonici che vivemmo negli anni Ottanta in maniera talmente forte da sembrarci reali. Oggi forse un po’ meno.        

           

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

STIFF RICHARDS – Stiff Richards (autoproduzione)

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L’Australia è sempre stata generosa coi miracoli.

L’esordio di questo five-piece di Melbourne può essere annoverato fra quelli. Che se non è miracoloso negli ingredienti, lo è nei risultati della pozione che ne deriva. Gli Stiff Richards giocano con le vecchie polveri piriche del rock and roll e del punk che hanno fatto della loro madrepatria una delle terre più ricche di piombo e ne tirano fuori un disco di debutto davvero ben fatto che fa tesoro della tradizione aussie (anche quella più recente dei Jet, Wolfmother e King Gizzard) mostrando i muscoli ma anche le palle. Una certa uniformità di fondo non impedisce a pezzi come Brainwashed e Black Leather, sul versante più riottoso e punk, oppure Layla e Ride on Me, su quello più garage rock di venir fuori per assaltarti la giugulare e tirar via le tonsille dalla trachea. Che è un po’ quello che vorremmo tutti quando mettiamo sul piatto un disco di r ‘n’ r.

O no?

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

IFRIQIYYA ELECTRIQUE – Rûwâhîne (Glitterbeat)  

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Più che all’angelo custode ho sempre creduto che in ognuno di noi abiti un demone interiore. Quei demoni in Tunisia prendono il nome di rûwâhîne e le comunità tribali convivono con loro e ne depotenziano la malvagità invitandoli a ballare sui tamburi nel vecchio rito del Banga, una taranta portata agli estremi in un turbinio di corpi, urla, invocazioni, acqua e fumo di resine bruciate. Un rituale che non poteva non affascinare due anime apolidi e fortemente aggregative come François-Régis Cambuzat e Gianna Greco che infatti si sono lasciati travolgere dall’anima dell’”Africa elettrica” e dato l’avvio al progetto omonimo.  

Rûwâhîne è il titolo del disco di questo ensemble completato con musicisti-sciamani locali e completato con l’apporto dell’elettronica di Pierpaolo Leo.

Un disco che sembra improvvisato ma non lo è affatto, anche perché a supervisionare il progetto è stata chiamata Amel Fargi, ricercatrice nota per i suoi legami e le sue profonde conoscenze della terra del Maghreb. Dentro, assieme agli spiriti, si rincorrono voci, rumori, percussioni. Uno disco dove tutto quel che resterà quando la società industriale verrà abbattuta torna di nuovo a galla.

Mentre noi, piccoli sciamani del consumismo che reclamano l’apertura degli ipermercati anche nei giorni di festa, restiamo sommersi.  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE STRYPES – Spitting Image (Virgin)

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Per il terzo album gli Strypes cambiano di nuovo pelle e vestito (anzi no, su quelli è meglio soprassedere, NdLYS), infagottandosi stavolta nei panni di una band neo-mod. Nonostante il successo arriso al loro tremendo disco precedente con cui giocavano a fare i contemporanei affiliandosi al circolo alternativo di Kasabian e Arctic Monkeys, il quartetto irlandese decide di tornare nuovamente al passato. Che non sono più gli anni Sessanta del fantastico debutto ma piuttosto una “copia sputata” del sound dei tardi anni ‘70 di artisti come Elvis Costello, Radiators from Space e Nick Lowe. Riacquistano così la credibilità perduta disperdendo però (credo definitivamente) i fans che si troveranno stavolta davanti ad un guardaroba di canzoni disgiunte dal primo e dal secondo repertorio, tutte vestite di belle chitarre luminose e armonie retrò spaccate proprio in mezzo da un inquietante movimento psichedelico carico di riverberi e note sinistre come Garden of Eden e chiuse da un Diddley alla moviola come Oh Cruel World. Il resto è invece schietto power-pop che a volte sfiora la purezza del diamante (Easy Riding, Turnin’ My Back, Get It Over Quickly, Consequence e soprattutto Great Expectations), altre volte una cineseria di alto livello. Magari la replica di una bussola da pirati, che è quello che servirebbe agli Strypes e a chi, da quest’altra parte delle casse, prova ad afferrarli.    

 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

ANDREA AGOSTA – The River (Isulafactory)

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Il paradiso sotto casa, o poco ci manca.

Andrea Agosta si bagna in un fiume poco distante da casa mia.

Una spennellata blu a margine di una crosta rosso cremisi come quella che attraversa, solcandola, la copertina di questo suo disco che di meraviglia cromatica non ha solo l’abito ma pure l’anima che la percorre.

Le cinque tracce di The River sono larve fetali che si schiudono al mondo, come in quelle trasparenze che ci regalarono i Felt e i Durutti Column quando lanciarono dalla porta quel boomerang che anni dopo ci ripiombò in casa dalla finestra e che chiamammo post-rock, che nel frattempo il corpo si era irrimediabilmente deteriorato. Miniature policrome in cui quelle che Vini Reilly chiamò “la chitarra e altre macchine” ridefiniscono lo spazio atomico che separa il pianeta dall’uomo che lo abita, in un’annunciazione di conciliazione salvifica, di giurassica fusione sensoriale, di moti ascensionali che ne perlustrano ogni pertugio nel tentativo di ritrovare una tana.

The River vive in questo grande abbraccio ma è ricco di dettagli, di sguardi profondi e indagatori, di acque cristalline che però piovono dal cielo come frecce appuntite, di ombre che ci mostrano sulla sabbia il nostro corpo ricurvo, di strappi sulle tele che suonano come ferite che si riaprono nella nostra memoria corporea, dilaniando il placido oblio con cui cerchiamo di separare la coscienza dal raziocinio.

Se dovessero passarvelo per un disco “ambient”, dissentite. Dissentite fortemente. 

E di quel paradiso che dicevo all’inizio, cercate gli anagrammi che conducono a diaspora e a rapsodia. Solo così ne troverete la bocca d’ingresso.  

 

Franco “Lys” Dimauro

IDLES – Brutalism (Partisan)  

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Ricordate il suono della giovane Bristol?

Bene, scordatevelo.

La giovane Bristol adesso sono gli IDLES e hanno messo fuori un disco che sudi solo a sentirlo. E per sentirlo devi evitare come la peste Virgin Radio, Radio Capital e tutte quelle stronzate sul punk che vi hanno liofilizzato per farvi sentire cattivi con le canzonette dei biscottini Plasmon rivestite di distorsione.

Brutalism “non verrà trasmesso in tv”. Eppure è quanto di più vivo e vibrante possa essere associato al punk rock negli anni Venti.

Che a suonarlo sia una band che sembra i Gogol Bordello e non i Rancid e che probabilmente associa l’idea di chiodo a quello di carpenteria e non a quello di un giubbotto che ormai si trova pure da H&M, chiarisce fin da subito che gli IDLES appartengono ad una razza bastarda. Che sulla copertina sia raffigurata la mamma del cantante e che a lei sia dedicata una canzone che sembra d’amore e che invece è anche politica fin dentro le ossa, è l’ennesimo indizio di una storia, di una rabbia, di una chiazza di vomito che è personale, intensa, tracotante di veleno.  

Un disco in cui neppure un solo secondo di musica è sprecato e che ha la forza di un ariete lanciato a folle corsa su tutto il corporate rock. Punk compreso.

Pugni, non pugnette.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DENIZ TEK + JAMES WILLIAMSON – Acoustic K.O. (Leopard Lady)  

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Il titolo lo aveva già usato, al plurale, Iggy Pop dieci anni prima ma le canzoni che adesso James Williamson e Deniz Tek prendono in mano non facevano parte di quei set dell’Iguana registrati fra Parigi e Barcellona. Ma anche fosse, cosa si può rimproverare ad un disco così se non il fatto che duri solo poco più di un quarto d’ora? I brani sono tra i più belli del repertorio di Williamson: I Need Somebody e Penetration da Raw Power e Night Theme e No Sense of Crime da Kill City, suonate in versione acustica ma tutt’altro che spartana, con arrangiamenti ricchissimi se non addirittura straripanti e para-orchestrali nella Night Theme con la voce di Petra Haden, timpani e violini che squarciano il velo della notte anche se sono i pezzi da Raw Power quelli, seppur truccati, non riescono a mascherare la malattia che gli appartiene dalla nascita risultando ancora carichi di alopecia perversa come nello stesso istante in cui furono concepiti.

Come aperitivo per il disco di inediti a quattro mani che i due veterani stanno preparando per il 2020 niente male.

Speriamo non esagerino con le olive.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LIAM GALLAGHER – As You Were (Warner Bros.)

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Che i fratelli Gallagher fossero uno la stampella dell’altro è fatto risaputo.

Tornando ai paragoni ereditari con gli Smiths, Noel è Marr e Liam Morrissey. Come l’ex cantante degli altri mancuniani ha sempre bisogno che per scrivere un pezzo gli venga in soccorso qualcuno. Lui si limita a metterci la sua faccia ingombrante e qualche vezzo da rockstar. E il nome, ingombrante anch’esso.   

As You Were lo vede riappropriarsi proprio di questa identità, dopo la veloce parabola Beady Eye. Lo fa prendendone i meriti ma anche i rischi, che è cosciente di non essere simpatico a tanti. E lo fa sapendo che ascoltatori e critica cercheranno, ascoltando il suo disco solista, di rispondere a una sola domanda: “quanto Oasis c’è nelle nuove canzoni?”.

E dunque non ve lo rivelerò, che non è il mio gioco.

Vi dirò in maniera altrettanto banale che As You Were è un disco che, pur nei suoi mille richiami (non necessariamente agli Oasis, ma a tutta un’attitudine british che parte da Ray Davies e attraversa gli anni grazie a nomi come Stone Roses, Stereophonics, Ocean Colour Scene, Verve, Charlatans, Suede e, anche se so che vi fa male sentirlo, Robbie Williams) funziona.

C’è un’aria vagamente glam che percorre i momenti migliori del disco (Greedy Soul, You Better Run, Doesn’t Have to Be That Way, I Get By) e che bilancia una lista di ballate che ne sarebbe bastata la metà. E ci sono anche delle paludi di stanca in cui si galleggia a fatica, facendo qualche bracciata che ci salvi dai mulinelli che rischiano di tirarci giù (Chinatown, I Never Wanna Be Like You, When I’m in Need sono prive di alcun guizzo creativo e girano attorno al bruco di un’idea che non è riuscita a diventare farfalla), mettendo a nudo la natura imperfetta ed incompleta del suo autore come io metto a nudo la mia.

Voi quando farete lo stesso con la vostra?  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

MOOON – Mooon’s Brew (Excelsior)

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I giovanissimi Mooon dei fratellini Tom and Gijs de Jong suonano come dei Cuby + The Blizzards alla festa del liceo, miscelando beat e blues come quei signori provenienti dalla medesima zona.

Ma non solo, perché sulla seconda facciata di questo debutto fanno capolino anche delle deliziose influenze “esterne” che vanno dalla surf-music a certo space-rock espanso che copre di polvere di zolfo qualunque pianeta i Mooon stiano cercando di intercettare.

Ci sono fortissimi eco di Amboy Dukes, Savoy Brown, Gov’t Mule e Cream nella musica dei Mooon, oltre che dei Blizzards di cui ho detto. Batteri blues che però il terzetto cerca di tenere separati dai teneri fondali di garage immacolato di pezzi come Too Cool for Skool, Mary You Wanna, Where Money Goes, Surfin’ with You cosicchè gli uni non infettano mai gli altri. Forse la band, ancora implume, non se l’è sentita di esagerare con le miscele, limitandosi ad accostare le due “anime” senza compenetrarle una all’altra. Questo, sarà il tempo a dircelo. Se ne avremo.  

Ma, sembrerà paradossale, è proprio questa la carta vincente di Mooon’s Brew, questo accostamento di sapori che lo rende variegato, questa doppia faccia che garantisce al disco vitalità e allo stesso tempo ci evita improbabili intrugli che potrebbero risultare indigesti. Oppure offrirci la possibilità di scartare alcuni pezzi al posto di altri, scegliendo quelli che più sentiamo affini al nostro spirito o al nostro momento. Temo però che al prossimo passo i Mooon dovranno scegliere in qualche modo “da che parte stare” oppure tentare l’impresa di far convivere le due anime dentro un unico corpo. Prendendosene i rischi o sacrificando una fetta della loro freschezza.

 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro