È il 2 ottobre del 1983.
Una stanca domenica pomeriggio di quelle buone per slogarti le mascelle sul divano di casa sgranocchiano popcorn o sorseggiando acqua canarina per smaltire la sbornia della sera prima.
Cinque alcolizzati decidono però che magari potrebbero affittare uno studio e registrare qualche canzone, prima che i fumi dell’alcol siano del tutto evaporati.
Chiamano l’amico Tony Cohen chiedendogli se per 100 dollari sarebbe stato disponibile ad aprire le porte e i microfoni dei Paradise Studios.
Detto, fatto.
All’una e mezza James Baker è già in studio a sistemare la sua batteria. Nel giro di mezz’ora arrivano Kim Salmon, Tex Perkins e Boris Sujdovic.
Spencer P. Jones arriverà ubriaco e per ultimo, come sempre.
Alle 6 di pomeriggio, dopo quattro ore scarse di registrazioni, The Axeman‘s Jazz è pronto, bagnato da tre casse di Victoria Bitter.
Nessuna sovrincisione, nessun ripensamento.
Dai microfoni dritto dentro le bobine.
Nove brani di country & western per vecchi cowboys internati in qualche sperduta casa di cura psichiatrica nel deserto australiano. Le sputacchiere attaccate alle pareti del refettorio sono piene di grumi di sangue e catarro. Le infermiere hanno finito il loro turno, l’accesso alla dispensa dell’alcol è libero.
Ci sono ossa e tumuli ovunque, lungo The Axeman‘s Jazz.
Un hillybilly rattrappito sbranato da una necrofilia crampsiana che si snoda tra una mortifera cover di Psycho di Eddie Noak, un hoedown ubriaco come Ten Wheels for Jesus, una Evil Ruby che sarebbe piaciuta ai tanti eroi del country-punk americano di quel periodo (Giant Sand, Naked Prey, Long Ryders), una Graveyard Train dei Creedence suonata come Lux & Ivy quando intonavano Primitive dei Groupies.
Solo la Drop Out messa a metà disco sembra ambire a un suono più virulento e tossico, con le chitarre di Salmon e Spencer che si guardano occhi negli occhi, pupilla dentro pupilla, come in un close-up di Sergio Leone, finendo per scannarsi a vicenda.
Prima di rientrare a casa le bestie si fermano a comprare una bottiglia di buon bourbon per festeggiare il loro primo album, come dei papà che alzino i calici per l’arrivo del primo bambino.
L’ultimo capolavoro della stagione d’oro del rock australiano si intitola Sour Mash ed è nero come il bitume. Proprio mentre Nick Cave guarisce gradatamente dal licantropismo della giovinezza e i Gun Club abdicano dal ruolo di leader del revisionismo roots degli anni Ottanta, i Beasts of Bourbon escono fuori con un disco che affonda i piedi nelle latrine del blues più orrido ed osceno.
Sour Mash sacrifica i toni grotteschi dell’esordio a favore della cattiveria. Come i Pussy Galore dall’altra parte dell’Oceano, i BoB stanno infierendo sul corpo marcio del blues e Perkins è la perfetta pantomima del supplizio come Spencer lo è dell’agonia. Il canto di Tex Perkins è un gargarismo etilico che insudicia il già sconcio corpo di canzoni come Playground o These Are the Good Old Days.
Il ritorno delle Bestie, dopo la separazione che era seguita alla pubblicazione di The Axeman’s Jazz, si consuma in una giostra di blues sfigurati che rimandano alle gesta di un vecchio serial killer come Captain Beefheart. Analogo è il gusto per lo sfregio, per la deturpazione e per il vilipendio alla sacralità del blues.
Un oltraggio lungo 52 minuti e 15 canzoni.
Registrato in soli due giorni agli Electric Avenue Studios di Sydney con James Baker costretto a suonare nel pianerottolo per sfruttare l’eco naturale della tromba delle scale, Sour Mash trasforma l’hillbilly rinsecchito e il country disidratato del primo album in una catramosa poltiglia blues.
Una ghiandola gonfia di fiele che schizza il suo veleno bilioso.
Un’arteria recisa da cui sgorga sangue iniettato di bourbon.
Una burla finita in pianto.
Percorso da una perversione accidiosa e misantropa, Sour Mash è un decalogo sulla sepoltura del blues e sull’oltraggio necrofilo alla sua ultima, definitiva dimora.
Black Milk raddrizza il suono delle Bestie. Le sghembe arie gotiche dei primi anni sono soffocate dalle smanie morrisoniane del leader.
Una recita, più che un delitto. Henry Landau ha lasciato casa e nel suo giardino stanno già mettendo i paletti per mettere su il tendone del Grand Guignol.
Ma dentro il suo camino c’è ancora uno stomachevole puzzo di carne e di sangue.
Per il terzo album i Beasts of Bourbon cambiano il passo al loro bullone punk/blues. I toni si fanno languidi e sporcaccioni, le epilessie della band trovano un ordine, una qualche forma di disciplina, le atmosfere splatter del primo album e quelle perverse del secondo paiono adesso voler corteggiare la preda che hanno catturato, chiunque ella sia. Circuirla, ingannarla, accarezzarla fino a riuscire a infilarle le dita e la lingua in ogni anfratto, penetrabile e non. Come Presley che torna dal servizio militare e decide di portarsi a casa minorenni, minorate, maggiorenni e maggiorate con It’s Now or Never.
Lucignolo mette un abito di lamè e beve il suo Piña Colada al latte nero mentre corteggia la vittima designata. Peccato che, come per ogni corteggiamento troppo lungo, l’oggetto di quelle attenzioni morbose ed indesiderate finisca per stancarsi del suo ruolo e torni a preferire della belva i denti e non la lingua.
The Low Road continua la saga dei Beasts of Bourbon indugiando, soprattutto nelle tracce iniziali, in una versione velenosa e maledetta del rock degli INXS, con Perkins impegnato ad incarnare la medesima carica soft-porn di Hutchence (fino a vietare ai minori, senza che ce ne fosse realmente motivo, la VHS From the Belly of the Beasts) e le chitarre che ruggiscono in una strana miscela melmosa dal sapore funky/grunge, “miracolo” di una produzione che a questo mira, con chitarre riverberate oltre il limite che la band stessa si era prefissata. Ma merito pure della nuova sezione ritmica, prelevata di peso dai Surrealists di Kim Salmon.
Tex Perkins, dal canto suo, un’occhiatina alle classifiche di vendita e un’annusatina al mercato le dà spesso e volentieri. E si persuade che la rivoluzione vera del grunge è quella di dare visibilità ad un’intera progenie di band sommerse e che il pubblico ha bisogno di nuovi eroi. Le sue band, i Beasts of Bourbon e i Cruel Sea, possono tentare la sfida senza sputtanarsi troppo. E quello fanno, per un paio d’anni.
Proprio a fianco dei nuovi eroi del grunge Nirvana i Beasts suoneranno le nuove canzoni nella prima edizione del Big Day Out, il più grande festival rock della terra dei canguri, in un cartellone che vede anche la presenza di Henry Rollins, delle Violent Femmes e di eroi marsupiali come Died Pretty, Celibate Rifles, Hard-ons, Dave Graney, You Am I e Cosmic Psychos. Raccogliendo i consensi sperati sin da subito, con l’apertura affidata a Chase the Dragon, la potente nube tossica che apre pure il disco e che purtroppo dirada man mano che la puntina setaccia i suoi solchi, facendo di The Low Road il primo disco prescindibile dei Beasts of Bourbon.
Sebbene sia già in pieno riflusso, è innegabile Gone goda dei vantaggi creati dall’onda lunga del grunge, assorbendone sia l’immaginario visivo (la foto sfocata della copertina) sia le asperità stilistiche. Dalle chitarre farraginose di Saturated e dall’impasto alla Screaming Trees di I S’pose fino ad una ballata liquida come So Long, è innegabile che la rivoluzione di Seattle ha avuto effetti devastanti sulla musica del gruppo australiano, modificando le loro erbacce sin dalle radici, che hanno ormai perso ogni contatto con l’humus blues dei primi anni.
I Beasts of Bourbon diventano sempre più impersonali e disorientati. Kim Salmon ha risalito la corrente per tornare nei Surrealists e il suo posto è stato preso da Charlie Owen, il chitarrista di Distemper dei New Christs e fido collaboratore di Louis Tillett che si fa carico di scrivere metà del materiale nuovo allineandolo al suo gusto.
Le Bestie danno però il meglio di sè quando stringono con ferocia le fauci per tirare via dei bocconi con rapidità famelica, come succede su Mullett, Makem Cry e Unfolded. Il resto è un inutile e circospetto indugiare attorno a una carcassa che comincia a decomporsi. Probabilmente la loro stessa. Visto che da quel momento i Beasts tornano nella loro tana per il tempo necessario perché fuori da lì arrivi una qualche sete nostalgica.
Che inevitabilmente affiora e che le uscite in solitario dei vari Perkins, Salmon e P. Jones non erano riusciti a placare. Quello che ci voleva era dunque un bagno rigenerante in QUEL blues. Stopposo ed etilico, grumoso, psicotico e lascivo. Ecco allora spuntare, nel 2005, Low Life, ovvero i suoni della palude tra le muffe del Tote Hotel a celebrare il ventennale delle Bestie. Chi sparla oggi di rinascita del rock ‘n roll delle origini e cerca di recuperare il tempo perduto pescando un po’ a casaccio dovrebbe lasciarsi sporcare dalle renditions di classici immondi come Cocksucker Blues, Ride On, Saturated o farsi seppellire da blues sepolcrali come Fake, Drop Out, Bad Revisited o Just Right con quel carico di sudiciume che pare appiccicarsi addosso con l’insistenza turpe di un pervertito.
Il sole nero dei Beasts of Bourbon si alza dunque di nuovo tra noi e dopo l’assalto live di Low Life, riecco le bestie dietro le sbarre di uno studio, dieci anni dopo la fuga dalla gabbia, partorendo i cuccioli deformi di Little Animals.
Il suono dei Beasts è oggi meno contorto e famelico rispetto ai capolavori Sour Mash e The Axemen‘s Jazz, forse il gruppo soffre un po’ la mancanza della chitarra di Kim Salmon, e ripiega così su un rock blues sempre arrapato e volgare, ma meno bavoso. Se vogliamo usare il bilancino diciamo che l’ago pende più sui lavori solisti di Spencer P. Jones (I‘m Gone, I Told You So, The Beast I Came to Be) che verso quelli di Tex Perkins, il cui peso si avverte invece sul timbro scuro della title track, riuscitissima folksong noir.
I Beasts of Bourbon più marci affiorano invece solo in parte: sul blues vischioso di Master and Slave ma soprattutto su Sleepwalker, un porno-stomp degno di These Are the Good Old Days. Comunque sia, un graditissimo ritorno.
E poi, di nuovo, una lunghissima fuga.
Quando i Beasts tornano, dodici anni dopo, tornano senza bourbon.
Ma pure senza Brian Hopper, andato a bere un po’ più in là, nei campi elisi dove le nostre menti banali fantasticano sulle reunion perfette e definitive e là dove solo poche settimane dopo la registrazione di questo disco è andato a raggiungerlo Spencer P. Jones, dopo aver fatto testamento olografo qui con At the Hospital, parlandoci di quel posto da lui frequentato con assiduità negli ultimi mesi della sua vita e regalandoci uno dei momenti migliori di questo disco che rappresenta lo sbocco creativo della reunion della reunion della reunion dei BoB che non è forse definitiva e di certo non è perfetta. L’apertura del disco ad esempio si lascia un po’ troppo trascinare dall’entusiasmo finendo per mostrare dei muscoli che non sembrano neppure i loro, quanto piuttosto quelli dei Verve meno svenevoli (On My Back) e della Rollins Band (Pearls Before Swine). Tendenza al culturismo che Still Here manifesta anche più avanti su It’s All Lies e che fortunatamente lascia spazio a territori più consoni a quelli della band australiana e che si fanno largo in pezzi come nella cover di The Torture Never Stops, nell’ironica Your Honour, sul rock and roll stonesiano di Drunk on a Train, nella dolente What the Hell Was I Thinking e nella palude sinistra di Don’t Pull Me Over dove davvero, come presi da una suggestione simile a quella dei turisti di Lochness, ci pare di intravvedere la sagoma della Bestia venire su dalle acque luride. Pensando che forse non abbiamo fatto il nostro viaggio invano, quantunque in larga parte lo sia.
Franco “Lys” Dimauro