THE FLESH EATERS – Forever Came Today (Ruby)

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Il cow-punk rozzo e truculento dei Flesh Eaters trova pieno compimento su Forever Came Today, capolavoro del death-rock californiano con la voce di Chris D. che ce la mette tutta a scansare le note e posizionarsi fuori dal pentagramma e il sax di Steve Berlin a suonare a metà strada fra una ghironda e un trombettista free-jazz, come nell’ecatombe di The Rosy Hours o nell’hardcore trascinato all’inferno di Drag My Name in Mud che suona già come tanto grunge underground che verrà.

L’anthem punk di Tightrope on Fire, lo sguaiato stomp di Hand of Glory e il Diddley-sound stravolto di A Minute to Pray, a Second to Die dal canto loro rendono il tutto se non più gradevole (aggettivo dissonante se collegato alla band di Los Angeles) più spedito, franoso come una slavina di zolfo e carbone.

Tizzoni incendiari nell’atra miniera luttuosa dei Flesh Eaters.      

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JASON AND THE SCORCHERS – Still Standing (EMI America)

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Still Standing segna in maniera indelebile ed evidente il momento della gentrificazione del cow-punk americano: le chitarre assumono smorfie da sleaze rock, la ritmica si fa incalzante e muscolosa, la voce solista cerca di adattarsi ad un ruolo da primattore finendo, come nel caso degli Scorchers, per creare un ibrido fra il vocalismo rockabilly e quello da performer da arena. È dunque una musica “di compromesso” che cerca di abbeverare il roots-rock non più nei pantani e nelle paludi ma negli abbeveratoi a parete delle stalle a stabulazione fissa.

Macroscopico sintomo di questo approccio è la cover di 19th Nervous Breakdown degli Stones che arricchisce la scaletta del secondo album della band di Nashville, ruggente di chitarre alla Hanoi Rocks. Allo stesso tipo di “trattamento” è sottoposto anche il materiale autoctono (ascoltare per credere Ghost Town o Shotgun Blues, quasi degli inni da biker che poco trattengono dei liquami roots del primo album, NdLYS), dimostrando come anche l’ultima strada di Nashville, quella da cui il gruppo spedisce la sua cartolina in chiusura dell’opera, sia stata ormai asfaltata.  

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

DIVINE HORSEMEN – Devil’s River (SST)

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Istituzionalizzati come band vera e propria i Divine Horsemen incidono nel 1986 il loro capolavoro. Che è, appunto, loro e non lo è invece in senso assoluto.

A differenza di Time Stands Stills ci troviamo stavolta catapultati dentro un disco elettrico che coordina e diluisce swamp blues e cow-punk dentro la forma “appetibile” di un rock apparentato con l’ala più moderata e roots del Paisley. Il legame espressivo con l’antropologia rituale evocato dal moniker della band viene dunque trascurato in favore di una musica che nell’appropriarsi di certi caratteri ne sfuma il potere evocativo sviluppandosi in una sintesi alquanto approssimativa e stingendosi spesso in una stemperata bagarre stonesiana (dei quali in quel periodo riprendono Gimme Shelter) o divampando in un rock un po’ qualunquista situato a metà strada tra gli Alley Cats e Patti Smith.

Al Diavolo, dopotutto, piace bere acque abbastanza limpide.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SOCIAL DISTORTION – L.A. Prison Bound (Restless)

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L’assimilazione di elementi C&W nel punk già polveroso dei Social Distortion dà vita, nel 1988, ad L.A. Prison Bound, il disco che rende giustizia al suono piatto dell’esordio ma che non salva la band di Mike Ness da una mediocrità ben tollerata da pubblico e critica ma non da me.

Uscito di prigione, Mike decide di vestire i panni del fuorilegge non più per vocazione ma per esperienza con una serie di titoli e testi programmatici (e ripetitivi): Prison Bound, Lawless, It’s the Law, Like an Outlaw (for You), immergendosi in questo immaginario romantico. Braccia scoperte ad esibire una fitta mappa di tatuaggi diventano il nuovo dress-code da bad boy ma il disco è solo di un palmo superiore a quello precedente. Sicuramente più bilanciato nei suoni, più “mediato” e rifinito come dimostra No Pain No Gain, la “drama-song” meglio riuscita del lotto.

L’insieme tiene e si allinea anche con quelle che saranno le traiettorie del punk degli anni Novanta, qui anticipate da Indulgence e da una personale versione di Backstreet Girl degli Stones. Eppure, ai Social Distortion sembra mancare quel pizzico di carisma, di lerciume, di sporcizia, di epicità (un tratto su cui lavoreranno, nello stesso anno, i Bad Religion) che potrebbe renderli più attrattivi di quello che a me sono sempre sembrati.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MOJO NIXON – Whereabouts Unknown (Blutarski)

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Charlie Sexton, Morrissey, Michael Bolton, Wayne Newton, McDonald’s, gli imbonitori politici e religiosi che riempiono la tv con le loro facce sibilline. E poi, chi altri? Ah, David Geffen. Che poi, accortosi di aver superato il limite, lo stesso Mojo Nixon accetterà di rimuovere dall’album. Del resto, di invettive, calci in culo e sputi in faccia ce n’erano già in abbondanza dentro Whereabouts Unknown, sufficienti per accrescere la sua fama di uomo inavvicinabile e a fare del disco uno dei migliori album di dissing mai prodotti nell’America grassa e bianca oltre che un disco di roots rock con i fiocchi. Una sorta di hootenanny per i punk che non sono stati ammessi all’Oktober Fest e che ora possono sputare saliva e schiuma su canzoni sguaiate come Mr. Correct (Don’t Tell Me What to Do), Take a Look in My Eyes, Buck Up & Stop Your Whinin’ o Don’t Ask Me Why I Drink ingiuriandosi l’un l’altro fino a che non scoppia la rissa e Mojo può scendere dal palco e usare le mani nell’unico altro modo in cui riesce.

Morrissey verrà ripagato con i diritti sull’uso di Girlfriend in a Coma. Il suo amico Mike Halloran di Radio 91X che gli aveva suggerito l’idea, con un “abbraccio alla Morrissey”. Perché anche gli orsi hanno un’anima.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BEASTS OF BOURBON – Animali decomposti

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È il 2 ottobre del 1983.

Una stanca domenica pomeriggio di quelle buone per slogarti le mascelle sul divano di casa sgranocchiano popcorn o sorseggiando acqua canarina per smaltire la sbornia della sera prima.

Cinque alcolizzati decidono però che magari potrebbero affittare uno studio e registrare qualche canzone, prima che i fumi dell’alcol siano del tutto evaporati.

Chiamano l’amico Tony Cohen chiedendogli se per 100 dollari sarebbe stato disponibile ad aprire le porte e i microfoni dei Paradise Studios.

Detto, fatto.

All’una e mezza James Baker è già in studio a sistemare la sua batteria. Nel giro di mezz’ora arrivano Kim Salmon, Tex Perkins e Boris Sujdovic.

Spencer P. Jones arriverà ubriaco e per ultimo, come sempre.

Alle 6 di pomeriggio, dopo quattro ore scarse di registrazioni, The Axeman‘s Jazz è pronto, bagnato da tre casse di Victoria Bitter.

Nessuna sovrincisione, nessun ripensamento.

Dai microfoni dritto dentro le bobine.

Nove brani di country & western per vecchi cowboys internati in qualche sperduta casa di cura psichiatrica nel deserto australiano. Le sputacchiere attaccate alle pareti del refettorio sono piene di grumi di sangue e catarro. Le infermiere hanno finito il loro turno, l’accesso alla dispensa dell’alcol è libero.

Ci sono ossa e tumuli ovunque, lungo The Axeman‘s Jazz.

Un hillybilly rattrappito sbranato da una necrofilia crampsiana che si snoda tra una mortifera cover di Psycho di Eddie Noak, un hoedown ubriaco come Ten Wheels for Jesus, una Evil Ruby che sarebbe piaciuta ai tanti eroi del country-punk americano di quel periodo (Giant Sand, Naked Prey, Long Ryders), una Graveyard Train dei Creedence suonata come Lux & Ivy quando intonavano Primitive dei Groupies.

Solo la Drop Out messa a metà disco sembra ambire a un suono più virulento e tossico, con le chitarre di Salmon e Spencer che si guardano occhi negli occhi, pupilla dentro pupilla, come in un close-up di Sergio Leone, finendo per scannarsi a vicenda.

Prima di rientrare a casa le bestie si fermano a comprare una bottiglia di buon bourbon per festeggiare il loro primo album, come dei papà che alzino i calici per l’arrivo del primo bambino.

 

L’ultimo capolavoro della stagione d’oro del rock australiano si intitola Sour Mash ed è nero come il bitume. Proprio mentre Nick Cave guarisce gradatamente dal licantropismo della giovinezza e i Gun Club abdicano dal ruolo di leader del revisionismo roots degli anni Ottanta, i Beasts of Bourbon escono fuori con un disco che affonda i piedi nelle latrine del blues più orrido ed osceno.

Sour Mash sacrifica i toni grotteschi dell’esordio a favore della cattiveria. Come i Pussy Galore dall’altra parte dell’Oceano, i BoB stanno infierendo sul corpo marcio del blues e Perkins è la perfetta pantomima del supplizio come Spencer lo è dell’agonia. Il canto di Tex Perkins è un gargarismo etilico che insudicia il già sconcio corpo di canzoni come Playground o These Are the Good Old Days.

Il ritorno delle Bestie, dopo la separazione che era seguita alla pubblicazione di The Axeman’s Jazz, si consuma in una giostra di blues sfigurati che rimandano alle gesta di un vecchio serial killer come Captain Beefheart. Analogo è il gusto per lo sfregio, per la deturpazione e per il vilipendio alla sacralità del blues.

Un oltraggio lungo 52 minuti e 15 canzoni.

Registrato in soli due giorni agli Electric Avenue Studios di Sydney con James Baker costretto a suonare nel pianerottolo per sfruttare l’eco naturale della tromba delle scale, Sour Mash trasforma l’hillbilly rinsecchito e il country disidratato del primo album in una catramosa poltiglia blues.

Una ghiandola gonfia di fiele che schizza il suo veleno bilioso.

Un’arteria recisa da cui sgorga sangue iniettato di bourbon.

Una burla finita in pianto.

Percorso da una perversione accidiosa e misantropa, Sour Mash è un decalogo sulla sepoltura del blues e sull’oltraggio necrofilo alla sua ultima, definitiva dimora.

 

Black Milk raddrizza il suono delle Bestie. Le sghembe arie gotiche dei primi anni sono soffocate dalle smanie morrisoniane del leader.

Una recita, più che un delitto. Henry Landau ha lasciato casa e nel suo giardino stanno già mettendo i paletti per mettere su il tendone del Grand Guignol.

Ma dentro il suo camino c’è ancora uno stomachevole puzzo di carne e di sangue.

Per il terzo album i Beasts of Bourbon cambiano il passo al loro bullone punk/blues. I toni si fanno languidi e sporcaccioni, le epilessie della band trovano un ordine, una qualche forma di disciplina, le atmosfere splatter del primo album e quelle perverse del secondo paiono adesso voler corteggiare la preda che hanno catturato, chiunque ella sia. Circuirla, ingannarla, accarezzarla fino a riuscire a infilarle le dita e la lingua in ogni anfratto, penetrabile e non. Come Presley che torna dal servizio militare e decide di portarsi a casa minorenni, minorate, maggiorenni e maggiorate con It’s Now or Never.

Lucignolo mette un abito di lamè e beve il suo Piña Colada al latte nero mentre corteggia la vittima designata. Peccato che, come per ogni corteggiamento troppo lungo, l’oggetto di quelle attenzioni morbose ed indesiderate finisca per stancarsi del suo ruolo e torni a preferire della belva i denti e non la lingua.

 

The Low Road continua la saga dei Beasts of Bourbon indugiando, soprattutto nelle tracce iniziali, in una versione velenosa e maledetta del rock degli INXS, con Perkins impegnato ad incarnare la medesima carica soft-porn di Hutchence (fino a vietare ai minori, senza che ce ne fosse realmente motivo, la VHS From the Belly of the Beasts) e le chitarre che ruggiscono in una strana miscela melmosa dal sapore funky/grunge, “miracolo” di una produzione che a questo mira, con chitarre riverberate oltre il limite che la band stessa si era prefissata. Ma merito pure della nuova sezione ritmica, prelevata di peso dai Surrealists di Kim Salmon. 

Tex Perkins, dal canto suo, un’occhiatina alle classifiche di vendita e un’annusatina al mercato le dà spesso e volentieri. E si persuade che la rivoluzione vera del grunge è quella di dare visibilità ad un’intera progenie di band sommerse e che il pubblico ha bisogno di nuovi eroi. Le sue band, i Beasts of Bourbon e i Cruel Sea, possono tentare la sfida senza sputtanarsi troppo. E quello fanno, per un paio d’anni.

Proprio a fianco dei nuovi eroi del grunge Nirvana i Beasts suoneranno le nuove canzoni nella prima edizione del Big Day Out, il più grande festival rock della terra dei canguri, in un cartellone che vede anche la presenza di Henry Rollins, delle Violent Femmes e di eroi marsupiali come Died Pretty, Celibate Rifles, Hard-ons, Dave Graney, You Am I e Cosmic Psychos. Raccogliendo i consensi sperati sin da subito, con l’apertura affidata a Chase the Dragon, la potente nube tossica che apre pure il disco e che purtroppo dirada man mano che la puntina setaccia i suoi solchi, facendo di The Low Road il primo disco prescindibile dei Beasts of Bourbon.   

                                                                                  

Sebbene sia già in pieno riflusso, è innegabile Gone goda dei vantaggi creati dall’onda lunga del grunge, assorbendone sia l’immaginario visivo (la foto sfocata della copertina) sia le asperità stilistiche. Dalle chitarre farraginose di Saturated e dall’impasto alla Screaming Trees di I S’pose fino ad una ballata liquida come So Long, è innegabile che la rivoluzione di Seattle ha avuto effetti devastanti sulla musica del gruppo australiano, modificando le loro erbacce sin dalle radici, che hanno ormai perso ogni contatto con l’humus blues dei primi anni.

I Beasts of Bourbon diventano sempre più impersonali e disorientati. Kim Salmon ha risalito la corrente per tornare nei Surrealists e il suo posto è stato preso da Charlie Owen, il chitarrista di Distemper dei New Christs e fido collaboratore di Louis Tillett che si fa carico di scrivere metà del materiale nuovo allineandolo al suo gusto. 

Le Bestie danno però il meglio di sè quando stringono con ferocia le fauci per tirare via dei bocconi con rapidità famelica, come succede su Mullett, Makem Cry e Unfolded. Il resto è un inutile e circospetto indugiare attorno a una carcassa che comincia a decomporsi. Probabilmente la loro stessa. Visto che da quel momento i Beasts tornano nella loro tana per il tempo necessario perché fuori da lì arrivi una qualche sete nostalgica.

Che inevitabilmente affiora e che le uscite in solitario dei vari Perkins, Salmon e P. Jones non erano riusciti a placare. Quello che ci voleva era dunque un bagno rigenerante in QUEL blues. Stopposo ed etilico, grumoso, psicotico e lascivo. Ecco allora spuntare, nel 2005, Low Life, ovvero i suoni della palude tra le muffe del Tote Hotel a celebrare il ventennale delle Bestie. Chi sparla oggi di rinascita del rock ‘n roll delle origini e cerca di recuperare il tempo perduto pescando un po’ a casaccio dovrebbe lasciarsi sporcare dalle renditions di classici immondi come Cocksucker Blues, Ride On, Saturated o farsi seppellire da blues sepolcrali come Fake, Drop Out, Bad Revisited o Just Right con quel carico di sudiciume che pare appiccicarsi addosso con l’insistenza turpe di un pervertito.

 

Il sole nero dei Beasts of Bourbon si alza dunque di nuovo tra noi e dopo l’assalto live di Low Life, riecco le bestie dietro le sbarre di uno studio, dieci anni dopo la fuga dalla gabbia, partorendo i cuccioli deformi di Little Animals.

Il suono dei Beasts è oggi meno contorto e famelico rispetto ai capolavori Sour Mash e The Axemen‘s Jazz, forse il gruppo soffre un po’ la mancanza della chitarra di Kim Salmon, e ripiega così su un rock blues sempre arrapato e volgare, ma meno bavoso. Se vogliamo usare il bilancino diciamo che l’ago pende più sui lavori solisti di Spencer P. Jones (I‘m Gone, I Told You So, The Beast I Came to Be) che verso quelli di Tex Perkins, il cui peso si avverte invece sul timbro scuro della title track, riuscitissima folksong noir.

I Beasts of Bourbon più marci affiorano invece solo in parte: sul blues vischioso di Master and Slave ma soprattutto su Sleepwalker, un porno-stomp degno di These Are the Good Old Days. Comunque sia, un graditissimo ritorno.

E poi, di nuovo, una lunghissima fuga.

Quando i Beasts tornano, dodici anni dopo, tornano senza bourbon.

Ma pure senza Brian Hopper, andato a bere un po’ più in là, nei campi elisi dove le nostre menti banali fantasticano sulle reunion perfette e definitive e là dove solo poche settimane dopo la registrazione di questo disco è andato a raggiungerlo Spencer P. Jones, dopo aver fatto testamento olografo qui con At the Hospital, parlandoci di quel posto da lui frequentato con assiduità negli ultimi mesi della sua vita e regalandoci uno dei momenti migliori di questo disco che rappresenta lo sbocco creativo della reunion della reunion della reunion dei BoB che non è forse definitiva e di certo non è perfetta. L’apertura del disco ad esempio si lascia un po’ troppo trascinare dall’entusiasmo finendo per mostrare dei muscoli che non sembrano neppure i loro, quanto piuttosto quelli dei Verve meno svenevoli (On My Back) e della Rollins Band (Pearls Before Swine). Tendenza al culturismo che Still Here manifesta anche più avanti su It’s All Lies e che fortunatamente lascia spazio a territori più consoni a quelli della band australiana e che si fanno largo in pezzi come nella cover di The Torture Never Stops, nell’ironica Your Honour, sul rock and roll stonesiano di Drunk on a Train, nella dolente What the Hell Was I Thinking e nella palude sinistra di Don’t Pull Me Over dove davvero, come presi da una suggestione simile a quella dei turisti di Lochness, ci pare di intravvedere la sagoma della Bestia venire su dalle acque luride. Pensando che forse non abbiamo fatto il nostro viaggio invano, quantunque in larga parte lo sia.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

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PONTIAC BROTHERS – Big Black River (Lolita)

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Un immenso fiume nero è quello che Ward Dotson si accinge ad attraversare dopo aver toccato Miami con i Gun Club: è stufo di quell’avventura ma non è ancora sazio di cow-punk e così mette in piedi i Pontiac Brothers, trovando asilo nella lontana Francia per licenziare il suo primo disco da “outsider”: Big Black River esce quando ha già smaltito qualche tazza di rancore verso l’ex-amico Jeffrey (“per un paio di anni, non c’è stata altra persona al mondo che odiavo più di lui, lo avrei strangolato se solo lo avessi incontrato di nuovo: aveva trasformato la cosa che amavo di più nell’ultima cosa che desideravo fare, tanto che smisi di fare musica per un anno intero”, avrebbe ammesso a riguardo anni dopo, NdLYS) e si è rituffato nel suo amore per il rock and roll stantio e fetido con dei nuovi compagni che assecondano quel suo strano piacere a bere dagli orinatoi della vecchia musica americana. Ne esce fuori un disco sporco quanto quelli degli stessi Gun Club, con pezzi come Big Black River, Straight and Narrow e Too Much Been Said che sono una copia (carbone, visto che di nero stiamo parlando) delle strutture esplorate su Fire of Love. Sono le stesse sterpaglie velenose, gli stessi voodoobilly lanciati a briglia sciolta lungo un’autostrada invasa dalle cavallette.

Un album in perfetto sincronismo con tutto il cow-punk e il retro-rock che invade la California di quegli anni, tanto che All or Nothing sfrutta lo stesso riff di Looking for Lewis and Clark dei Long Ryders e nessuno, ma proprio nessuno, sa dire chi l’abbia usato per primo ne’ tantomeno quale delle due abbia ascoltata prima dell’altra, anche se è certo che i fratelli Pontiac non godevano certo delle possibilità e dei mezzi di Sid Griffin e soci o ancora Almost Human, Tell Me the Truth e No Down Payment mescono nel rock elettrico tipico dei True West e dei Dream Syndicate e Whole Damn World finisce per inzupparsi nel catino garage rock dei Droogs, in un concentrato di grande guitar-rock, con pochissimi punti deboli (Hang It Up, la cover di If You Gotta Go, Go Now) e altissimi picchi (tutto il resto).         

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NAKED PREY – Naked Prey (Down There)  

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Il suono si sarebbe affinato dopo, pensa Van Christian mentre varca l’uscio dei Control Center Studios di Los Angeles. L’importante, adesso, è essere nel posto giusto. E il posto giusto è la Down There, l’etichetta di Steve Wynn che ha messo su vinile i primi vagiti della scena Paisley americana con i mini-album omonimi dei suoi Dream Syndicate e dei Green on Red, la band dei vecchi compagni di liceo di Van, giù a Tucson.

Van Christian all’epoca suonava la batteria, defilato.

Adesso però vuole stare in prima linea, raccontare le sue di storie piuttosto che pestare le pelli mentre ascolta quelle degli altri. Naked Prey esce nel 1984, terzo disco in catalogo per la label di Mr. Wynn che sponsorizza il disco usando la medesima veste grafica del debutto dei Dream Syndicate in modo da sottolineare le affinità evidenti con la sua band, anche se sono di approccio più che strettamente stilistiche.

Un suono ancora grezzo e ruvido, quello della band di Tucson, fortemente chitarristico. Dentro ci sono ancora i rantoli del punk (Hour Glass, Flesh on the Wall, Freezin’ Steel) ma anche tutta quella poetica di fuorilegge e pistoleri tanto cara a Dylan e Neil Young (Billy the Kid II, No Place to Be). Deserto e delirio metropolitano, assassini per scelta e per vocazione, Stooges e Crazy Horse in una serie di istantanee furiose appese alle pareti di qualche saloon dimenticato nelle campagne di Tucson, Arizona, Stati Uniti d’America.   

                                                                       Franco “Lys” Dimauro

 

AA. VV. – WarfRat Tales (Unabridged) (Avebury)  

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Erano i primissimi anni Ottanta e le band venivano fuori dalle fogne di Los Angeles proprio come topi. E “proprio quando pensavi di averle sentite tutte”, ne venivano fuori sempre delle altre. Gary Stewart, all’epoca manager dei Last, ne raccoglie “altre nove” e le mette su disco nel 1983: si tratta dei “suoi” Last, dei Wednesday Week, dei Leaving Trains, i Rain Parade, i Point, i Question?, Hector and The Clockwatchers, gli Earwigs, gli 100 Flowers. Pochi di loro sono riusciti a finire nei libri di storia, ma in quel periodo gli occhi puntati sulla scena californiana sono, a ragione, tantissimi. È proprio lì, dopo una non meno importante deflagrazione della scena punk, che si riscrive gran parte del “nuovo” rock americano. Paisley, cow-punk, roots rock, garage e neopsichedelia sbocciano tra il Pacifico e la Sierra Nevada.

Questa inattesa ristampa che viene pubblicata a più di vent’anni di distanza raddoppia la durata di quella scaletta e aggiunge altre quattro band al suo carnet iniziale: Gun Club, Urinals, Up & Out, To Damascus.

Quello che allora era un manifesto, oggi ovviamente assume il connotato di documento storico.

La storia da scrivere contro la storia già scritta.

Il sogno da realizzare diventato sogno dissipato.

Però vedere ancora i nomi di gente come Jeffrey Lee Pierce, Sylvia Juncosa, Joe Nolte, Matt Piucci, Brett Guitierrez, Ward Dotson, James Moreland, Steven Roback, Kendra Smith e Kristi Callan tutti assieme su un unico disco a me fa ancora un certo effetto. Finché la virilità resiste all’usura del tempo perlomeno.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

DIED PRETTY – Diggin’ in the dirt

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Ci sono dischi che ti tracciano solchi nella carne, che ti tirano fuori l’anima e te la appendono sui fili del bucato. Dischi rotondi, ma uncinati.

Piccole sacche emozionali che ti porti dentro, anche se credi di averle seppelite tre le muffe della soffitta. Free Dirt è uno di questi dischi. Lo puoi ascoltare cento volte e trovarci dentro sempre qualcosa che ti stordisce come la prima volta. Come quando, tutti attenti alla polvere alzata dagli stivaloni di Sid Griffin e Steve Wynn mentre la febbre roots montava dall’America Paisley dovemmo arrenderci di fronte all’evidenza: il miglior album di rock acido arrivava come l’uragano che incombeva sulla sua copertina e veniva dall’Australia.

I Died Pretty erano, allora, un gruppo che ti ammazzava. Lo avevano palesato con i primi, immensi singoli (Out of the UnknownMirror BluesNext to Nothing) e lo confermavano nel 1986 con quello che resta uno dei debutti più cocenti della storia del rock, dove si consuma lo scontro a fuoco tra il chitarrismo furioso dei Television, il folk svogliato di Dylan e le piogge acide delle tastiere dei Doors.

Un disco monumentale, scolpito nella sabbia e nella roccia del deserto aborigeno.

La band lo registra nel Novembre del 1985 ai Trafalgar Studios di Rob Younger, con lo stesso ex-Birdman alla produzione. Il suono è un incredibile arco di trionfo eretto tra il caotico maelstrom chitarristico di Velvet Underground, Television, Hendrix e il tormento di tastiere di Suicide, Doors, Modern Lovers. Ha in sé qualcosa di straordinariamente epico (l’attacco di Life to Go sarà lo stesso usato dagli U2 per la loro Bullet the Blue Sky) ma allo stesso tempo di estremamente decadente e torbido come la vena di un eroinomane.

Qualcosa che li pone a metà strada tra una garage band e un gruppo di art-rock.

Perché Free Dirt, al di là degli innegabili ed evidenti richiami al classico rock americano (Through Another Door impreziosita dalla bellissima pedal steel di Graham Lee dei Triffids il picco della loro anima roots mentre agli amanti dei R.E.M. di Lifes Rich Pageant piacerà senz’altro Blue Sky Day), è intinto nel calamaio del suono maledetto di band allucinate e trasversali come Pere Ubu, Contortions, Stooges (l’uragano che si abbatte sul terzo minuto di quella Next to Nothing che, quando riparte, ti viene voglia di tirar su le persiane, il violino alla John Cale che gira su Wig-Out, le distorsioni che dilaniano la carne e strappano l’epidermide di Just Skin). È questo a renderlo così maledettamente aderente al nostro spleen, questo dolore sotteso che ci alita addosso come vapore di sudore freddo durante i nostri sogni tormentati, questo sgomento che sembra affettare l’ aria come quando il vento soffia ad annunciare un terremoto imminente, sfibrando i cuori.

La spazzatura roots di Free Dirt risuona di tutto il miglior rock che si possa sognare di cantare mentre si viene spazzati via dalla pioggia. Un disco indispensabile, come la gioia e come il dolore.

Portatevelo anche dentro la fossa.

 

Il secondo album dei Died Pretty segna uno dei più inaspettati e clamorosi tracolli artistici di tutti gli anni Ottanta. Lost dissipa in tre quarti d’ora un’attesa lunga due anni che il bel singolo Winterland, con i suoi grumi infetti di sangue loureediano (What Goes On si muove come un’ombra spettrale dietro tutto il pezzo, NdLYS) era riuscita a caricare di aspettative, amplificando alla fine la delusione per un album in cui tutta la tensione drammatica che è stata tipica della formazione australiana fino a quel momento si stempera in uno sciatto repertorio di blande ballate inacidite più dalla svogliatezza che dal sacro veleno del rock ‘n’ roll. Ron Peno sembra “perduto” in un romanticismo stereotipato che giunge al culmine del suo languore da patetico crooner nella conclusiva Free Dirt (un duetto che dovrebbe essere appassionato con Astrid Munday e l’elusivo accompagnamento al piano di Don Walker dei Cold Chisel) dopo averci ammorbato con canzoni dall’aplomb autunnale come Springenfall, As Must Have, Towers of Strength, in una tediosa allegoria della desolazione fertile dei Died Pretty desertici del primo album, lontani da quell’approssimazione verso il nulla che ci aveva incantato ascoltando blues capaci di coprire distanze paradossali e senza un solo ciuffo d’albero che ci riparasse dal buco del culo del sole.

Adesso i Died Pretty ci riaccompagnavano a casa in un carro coperto, passandoci qualche borraccia d’acqua. Ma facendoci rimpiangere l’arsura urticante e selvaggia del primo indimenticabile viaggio.

 

All’epoca della sua uscita ho odiato profondamente Every Brilliant Eye. Del resto avevo già odiato Lost e avrei continuato così per ogni album dei Died Pretty successivo a Free Dirt, che giudicavo e ancora giudico la loro vetta inarrivabile.

Ma Every Brilliant Eye lo odiavo ancora più forte, perché quando lo ebbi fra le mani mi accorsi che il nome di Frank Brunetti che sul primo album era indicato, secondo la tradizione che il gruppo a lungo conserverà, primo fra i primi, stavolta non c’era proprio. Neppure quello di Mark Lock c’era, del resto.

I Died Pretty cominciavano a diventare un affare dei soli Ron Peno e Brett Myers.

Ce n’era ancora abbastanza per spettinarsi, certo. Che quando Myers comincia a soffiare forte diventa Ezechiele e noi dei poveri porcellini. E Peno è sempre un po’ la versione da orco di Dylan e di Young.

Però…sai quando avverti che il romanzo sta prendendo una brutta piega? Ecco, Every Brilliant Eye era quel momento lì. Poi con gli anni certe intransigenze si sono smussate, avendo accatastato tante delusioni quanto metà della mia collezione di dischi. E sono diventato più accomodante.

Col senno del poi e la schiena che comincia ad apprezzare più il riposo che la fatica, il terzo disco dei Died Pretty non è affatto male. Anche perché Brunetti è andato via ma, non si sa come, ha lasciato lì le sue tastiere.

Certo, Face Toward the Sun andava sfrondata di almeno due minuti. Che la schiena è diventata quel che dicevo ma le palle sono rimaste sempre uguali. E True Fools Fall e Rue the Day girano un po’ a vuoto, con una “brillantezza” che mal si combina con i toni tempestosi e torvi di cose come Prayer, Sight Unseen, Whitlam Square, From the Belly o del vertice del disco The Underbelly.

Arrivano e portano ancora polvere, i Died Pretty. Anche adesso che la tempesta è passata da un pezzo.

 

Registrato nuovamente a casa dopo l’esperienza californiana dell’album precedente ma in realtà “pensato” per gran parte a Londra nell’appartamento inglese di John Needham, Doughboy Hollow regala ai Died Pretty le prime soddisfazioni in patria, portando la band al primo posto della indie chart e al 24mo di quella ufficiale. Merito soprattutto ma non soltanto, della “spianata” di violini ad opera di Amanda Brown dei Go-Betweens che, come la famosa bibita che sa di rossetto sciolto, mette le ali al singolo D.C., ma non solo. Perché il quarto album della formazione australiana, pur scavando qualche cunicolo che li riporta ai giorni epici dei primi anni (come la splendida Sweetheart scritta pensando ad un serial killer ma mascherata da canzone d’amore, NdLYS) rievocati dagli scatti di Paul Tatz che sembrano volutamente un sequel della copertina di Pre Deity, ha una baldanza e una forza d’urto che può piacere a tratti anche a chi stravede per Springsteen e Patti Smith (Godbless) o per gli Smiths (Out in the Rain in particolare), e che ovviamente sono in tanti pure laggiù in Australia.

Euforia e malinconia si rincorrono dentro il labirinto dei Died Pretty, in una giostra magica. Forse per l’ultima volta.

 

Trace porta ai Died Pretty un buon successo commerciale, dovuto più che altro a un effetto “risonanza” del disco precedente che al valore intrinseco del nuovo album, forse il peggio riuscito della formazione australiana che ne prenderà le distanze evidenziandone le debolezze e confessando tacitamente (con un assoluto e risoluto silenzio stampa promozionale, NdLYS), come in effetti fosse più il frutto di un obbligo contrattuale che di una reale esigenza artistica.

Si tratta in effetti di un album spento, fatti salvi un paio di episodi come Harness Up (che, inspiegabilmente, esce con due videoclip differenti per il mercato autoctono e quello americano che la Columbia sta puntando a conquistare. Ma brutti entrambi, NdLYS) e il funky inacidito di 110 B.P.M.. E dire che il risultato è, a quanto dice la Sony Music sul sampler Caressing Swine che viene regalato a noi giornalisti, il risultato di una scrematura di una trentina di pezzi che i Died Pretty hanno preparato durante il tour di Doughboy Hollow.

Della ciambella promessa, stavolta, solo il buco.

 

Penalizzato da una sfilza di recensioni scritte “a tavolino”, ovvero pensate già prima che il disco fosse uscito, sulla scorta emotiva della delusione regalata da Trace, Sold è invece il disco che riscatta la dignità dei Died Pretty dopo le brutture del dell’album precedente.

Non un’assoluzione piena ma il tempo ci avrebbe insegnato che se volevamo custodire a lungo nel cuore i nostri eroi giovanili, dovevamo concedere loro una magnanimità di cui dieci anni prima non saremmo stati capaci. Negli anni Novanta lo avremmo imparato con Morrissey e con i R.E.M. ad esempio.

E così, togliendomi dal capo il cappuccio da boia, posso dire che Sold è un album due volte onesto: la prima quando dichiara candidamente che la band si è un po’ venduta alle logiche dell’ascolto facile e la seconda quando, con tutta la consapevolezza del caso, lascia però intravedere le tracce di un passato che sembra riaffiorare tra i solchi (o forse sono crepe?, NdLYS) del disco.

Prendete ad esempio una cosa come Cry, un torrente elettrico che sembra straripare da tutte le parti. Oppure, per mettervi al riparo dalle ecatombi, nuotate nelle acque più quiete ma non meno torbide di Which Way to Go o sfidate i salmoni risalendo le correnti di Cuttin’ Up Her Legs in cui Peno porta un biglietto con dedica all’ex-compagna, senza mazzi di fiori in mano.

Oppure fidatevi di chi ha già messo i suoi, di fiori, su una lapide che non è ancora pronta a ricevere la salma. Anche se sembra “allegramente morta”.

 

Nel 1998 i Died Pretty varcano di nuovo la soglia della Citadel. Zoppicando, come fanno da un po’. Using My Gills as a Roadmap è un po’ come una coda di lucertola, che continua a dimenarsi anche dopo che l’hai tranciata dal tronco vivo del rettile.

È una vita agonizzante, quella che si dibatte sulle nove tracce del nuovo disco dei Died Pretty, ormai più prossimi alla morte di quanto potessero augurarsi quando decisero di battezzarsi così. Pezzi mediamente lunghi il doppio di quanto sia necessario come Gone, The Daddy Act, She Was, Paint It Black, You Devils e Away tentano forse di recuperare i cocci dello specchio infranto di Mirror Blues, senza più averne la visione.

Il ritorno alla casa madre, da molti annunciato anche a posteriori come un recupero delle loro radici, è un bluff.

La semiotica è una scienza imperfetta.

 

I Died Pretty ci lasciano con un sogno piccolino. Con il canto di Ronald Peno ridotto ormai ad un fastidioso miagolio, come un gatto che fruga tra sacchetti di pattume elettronico cercando qualcosa di commestibile.

Peccato che di veramente commestibile dentro Everydaydream ci sia davvero poco. E quel poco, sicuramente poco assimilabile ai Died Pretty.

Riuscireste a capire chi ha messo fuori dalla porta la busta di That Look Before? Oppure le carcasse di orologi a cucù guasti e i vecchi numeri sgualciti di Radiorama che si trovano dentro i sacchetti di Call Me Sir, di Special Way, di The Evening Shadows? O a sospettare siano stati proprio i vecchi leoni impolverati di Free Dirt o gli eroi arrugginiti di Doughboy Hollow?

Su dal primo piano qualcuno canta in falsetto guastandoci il mattino.

Forse è arrivato il momento di alzarsi. E di andare anche noi a buttare la spazzatura.

   Franco “Lys” Dimauro

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