LONE JUSTICE – Lone Justice (Geffen)

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Nei primi mesi del 1985 l’attesa per il disco di debutto per i Lone Justice raggiunge nella comunità californiana vette raramente toccate per una band di estrazione cow-punk e roots rock. A contribuire era stato un contratto sostanzioso presso una “casa” prestigiosa come la Geffen, di un’ambasciatrice d’eccezione come Linda Ronstadt e di una serie eccezionale di “guest star” come Mike Campbell, Annie Lennox, Little Steven, Benmont Tench, Bob Glaub, Joe Chiccarelli e Jimmy Iovine coinvolti a vario titolo nella lavorazione del disco. Nomi altisonanti e mainstream che lasciavano però presagire quel che in realtà il disco confermò: una versione annacquata, radio-oriented e, soprattutto, enfatica di quanto la band aveva portato in scena nei due anni di concerti che avevano preceduto l’esordio discografico. Del resto, con una dozzina di ingegneri del suono messi a loro servizio ed intenta a modellare il suono gli obiettivi di David Geffen e della band erano palesi già scorrendo le infinite note di produzione elencate nella busta interna.

Per i Lone Justice, insomma, sarebbe stato meglio morire da piccoli. Invece crebbero assieme a quelle aspettative tradite con dieci canzoni di roots-rock per nulla viscerale, nonostante la prepotenza vocale di Maria McKee. La grande occasione dei Lone Justice (e del roots-rock tutto) è dunque un’occasione parzialmente mancata anche a fronte di scatenati hoedown come Working Late o Soap, Soup and Salvation e dell’esuberante East of Eden che apre la scaletta facendoci sperare in un rodeo che alla fine si trasforma in uno spettacolo di toro meccanico.

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DEXYS MIDNIGHT RUNNERS – Don’t Stand Me Down (Mercury)

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Suicidarsi, però vestiti bene. Questa, più o meno, è l’idea che Kevin Rowland ha in mente quando decide di mettersi a scrivere, con la sua bella calligrafia, il terzo disco dei Dexys. Più di metà del gruppo però non ci sta, non ne vuole sapere di fare un disco senza singoli, senza ritornelli, senza strizzate d’occhio e pieno di canzoni che durano dai sei ai dodici minuti, infarcite di chiacchiere e minchiate varie. Billy Adams, Helen O’Hara e Nick Gatfield decidono di suicidarsi con lui. Nick poi ci ripenserà, ma a quel punto erano già cadaveri. Eccellenti ma pur sempre cadaveri.

Don’t Stand Me Down non lo digerisce nessuno, come nei piani di Kevin. E il mondo dei Dexys Midnight Runners va a puttane.

Eppure, quanta bellezza c’è ancora dentro queste canzoni dove la soul music, è il caso di dirlo, va a morire e le torch songs diventano piccoli cappi per strozzare le budella oppure scoppiano come mille palloncini come nel coro di Knowledge of Beauty? Frutterà pochi spiccioli, tutti spesi in cocaina. E in mal di fegato. E cazzotti.

Seduti come dei laureandi alla sessione di laurea, i Dexys prendono la loro pergamena e la strappano davanti alla commissione. Non ci sarà nessuna festa, nel cortile dell’ateneo.

Franco “Lys” Dimauro

THE SLICKEE BOYS – Uh Oh…No Breaks! (Twin/Tone)

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La “slikee-delia” cui il gruppo di Washington è approdato con Cybernetic Dreams of Pi diventa pratica endemica di riassemblaggio sonoro su Uh Oh…No Breaks!, l’album pubblicato nel febbraio del 1985. Il disco è già di per se costruito su episodi di varia origine ed epoca (le cover di Glendora e Going All the Way del ’79 erano state pubblicate sul primo volume di Battle of the Garages nel 1981, così come allo stesso periodo risalgono Disconnected, Gotta Tell Me Why, Can’t Believe e The Brain that Refused to Die pubblicate su singolo o su raccolte varie). Più recente il resto del repertorio, con delle belle cover di band di serie Z come Death Lane dei Dogs e Jailbait Janet degli Afrika Korps e quattro brani scritti “per l’occasione”.

La natura eterogenea si sposa con la goliardia e la schizofrenia artistica tipiche degli Slickee Boys che però dal canto loro sembrano preoccuparsi di recuperare certo spirito “roots” (rockabilly, garage-rock, punk) che l’eccessiva palette stilistica sembrava aver smarrito. Gli Slickee continuano a fare (cattivi) sogni cibernetici. Noi a sognare di loro.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DEAD MILKMEN – Big Lizard in My Back Yard (Fever)

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Dal nord-est americano nel 1985 i Dead Milkmen si presentano al pubblico come una sorta di risposta ai Violent Femmes di Milwaukee.

Un umorismo a volte un po’ macabro e a volte dal gusto discutibile, quello della band di Philadelphia e un suono legnoso e sgraziato non intaccano la tenuta del disco che si fregia di canzonette spassose come Beach Song, Tiny Town, Big Lizard, Swordfish, Plum Dumb, V.f.w., Rastabilly, Laundromat Song, Nutrition in cui sembra a volte veder spuntare gli zazzeroni dei Gruesomes.

Funky, rockabilly, reggae, cow-rock e punk miniaturizzati con la tecnica dozzinale del dilettante e con rapace avidità, senza alcuna pretesa se non quella di fare delle grasse risate di serie Z.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CRUZADOS – Cruzados (Arista)

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I Cruzados furono l’alternativa più credibile e verosimile dei Los Lobos, incanalando influenze tex-mex al loro rock fertilizzato con concime biologico.

La band era la nuova incarnazione dei Plugz, autori di uno dei più begli album di punk californiano della stagione precedente, adesso impegnata a rincorrere la nuova febbre dell’oro che vede i talentuosi musicisti della nuova scena scavare nella storia musicale americana cercando di tirare fuori qualche pepita da riportare alla luce del sole. Il suono del gruppo di Tito Larriva si allinea pertanto strategicamente a quello di band come Del Fuegos, Lone Justice, Los Lobos, allungando anche il collo oltre lo steccato del mainstream ed evitando qualsiasi intransigenza dettata dall’appartenenza all’underground rock.

Ed è proprio questa manifesta tendenza a lasciarsi inglobare nell’anthem-rock da AOR il “limite” maggiore della band, ciò che in qualche modo impedisce al disco di guadagnarsi la stella di autenticità, nonostante un paio di ottimi numeri come Motorcycle Girl e Some Day o la piacevole Rising Sun, e ai Cruzados di acquisire quella credibilità necessaria per ottenere domicilio perpetuo nei nostri cuori.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AMERICAN MUSIC CLUB – The Restless Stranger (Grifter)

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Quando sarai morto, splenderai nella notte.

Così scrive Mark Eitzel in uno dei pezzi più brucianti del debutto dei suoi American Music Club, il disco che col senno di poi si volle definire come il primo album slow-core e che dunque avrebbe aperto la strada all’arrivo di band come Red House Painters, Low e Codeine. All’epoca dell’uscita, nel 1985, i parametri di confronto sono però ancora altri: il cow-punk dell’altro Club californiano e, dal punto di vista vocale, gli Smiths.

In realtà non somigliavano significativamente ne’ agli uni ne’ agli altri.

E, a ben vedere, anche i tratti che poi saranno caratteristici dello slowcore, ovvero quello che io definisco l’indie-rock senza unghie, sono limitati solo ad alcune tracce. Perché, in gran parte del disco (la nevrosi alla Feelies di Mr. Lucky, i rasoi elettrici della lunga coda di $ 1,000,000 Song, il furioso rock alla ‘Mats di I’m in Heaven Know, il clima goth di How Low?), le unghiate ci sono, eccome. Pure se, si sente, sono ancora quelle di un cucciolo in gabbia e se le impronte che gli American Music Club lasciano sul pvc diventano cruccio di ogni etologo e biogeografo dell’epoca risultando spesso, a dispetto del nome che si sono scelti, una indecifrabile macchia epidermica che confonde tratti americani con decisi margini anglosassoni (gli Smiths di cui abbiamo detto ma anche Joy Division e Cure e anticipando le mosse di band come Tindersticks e Gene).

Chi volesse dunque trovare, attratto dall’etichetta, un “distillato” puro di american music, non lo troverà. Ci troverà invece un suono ibridato, dolce e funesto allo stesso tempo, sperso fra neo-romanticismo sassone e un keyhole-film sulla vita da beatnick americano.

Bambi muore sul ciglio di una qualsiasi strada californiana.

Sangue e olio si mescolano sull’asfalto.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SCIENTISTS – You Get What You Deserve! (Karbon)

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Il primo ingresso negli studi inglesi Berry Street nel gennaio 1985 segna l’inizio dell’animosa spaccatura con la Au-go-go. Records con cui la band, nonostante l’espatrio e la firma in calce ad un contratto con la Big Time, è ancora legata. È dunque l’inizio di una discografia sempre più aggrovigliata in cui il vascello dei bucanieri naviga in un mare di raccolte più o meno ufficiali, dischi dal vivo, riedizioni e assemblaggi vari.

Ecco dunque che la prima session di registrazione nella nuova patria esce in due versioni diverse per missaggio e per sequenza dei brani col titolo di Atom Bomb Baby sotto la “vecchia” bandiera e You Get What You Deserve per la Karbon (con l’aggiunta di tre pezzi pubblicati anche come singolo sul Demolition Derby EP e registrati due mesi prima a Bruxelles).

Stilisticamente, a dispetto della nuova skyline che vede muoversi le loro ombre, siamo ancora in quel torbido fiume di sangue che scorre nella swampland, ora ribattezzata badland. Risacche di catrami blues (Psycho Cook Supreme), sciami di mosche sarcofaghe come quelle che sciamano su Murderess in a Purple Dress, rovinose cadute di massi (Bad Priest) e baccanali psicotici (Go Baby Go, If It’s the Last Thing I Do, Lead Foot) saturano l’aria come esalazioni di zolfo.  

L’Inghilterra apre le porte alla nave di Ulisse e della sua ciurma venuta a depredare il Regno delle sue vacche sacre.

           

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SIMPLY RED – Picture Book (Elektra)

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Tenuti un po’ a distanza dai tanti nasini all’insù mascherati dietro i nasi spioventi del popolo del rrrrock, i Simply Red avrebbero dominato sulle radio e sulle televisioni per lunghissimo tempo, finendo più avanti negli anni per ingolfare il mercato con raccolte e restyling del proprio repertorio quelli sì, davvero irritanti.

Però, al di là delle antipatie che i loro autori sono facili tirarsi addosso, Picture Book è un disco che è un peccato non avere in casa. Suonato e cantato come Dio ordina e con dentro dieci pezzi un più bello dell’altro.

Una cosa come Heaven, per dire, sarebbe stata perfetta per la ben più venerata Amy Winehouse, decenni dopo.

Ma qui siamo nella metà degli anni Ottanta, Amy ha appena due anni e il mondo si ritrova improvvisamente con gli abiti sporchi di cappuccino quando passano in radio cose come Jericho, Money’s Too Tight (to Mention), Come to My Aid che sono rhythm ‘n blues ingombranti, tanto più se si pensa che a suonarci sopra ci sono finiti ben tre musicisti dei Durutti Column, ovvero una delle più eleganti e schive band del post-punk inglese. Qui invece è tutto abbastanza sfacciato, fino a sfociare su No Direction quasi ad una trivialità alticcia da pub. Grugniti e sputi, mentre la band incalza sul palco, con un corredo di tastiere che avrebbe fatto meglio a lasciare a casa.

L’eleganza però c’è, ed è un’eleganza tutta british, su Holding Back the Years. Un lentaccio che sa di pantaloni alla zuava e di berretti logori, di pomeriggi piovosi, di ragazzini irrequieti che pisciano sul muro di qualche fabbrica abbandonata, di locomotive che scorrono lente su binari arrugginiti, trasportando altra ruggine, di miniere di carbone, di attese infinite, di volti persi e mai più trovati. Basterebbero questi quattro minuti di trombe sordinate che soffiano su una nebbia impossibile da scacciare per spostare il disco di debutto dei Simply Red dalle retroguardie dove per un qualche pudore lo abbiamo sistemato fin sugli scaffali frontali della nostra discoteca. Così da allungare il pugno che troppo spesso teniamo stretto in tasca e distenderlo in un atto prensile che ci riconcili con loro e con noi medesimi.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE REPLACEMENTS – Tim (Let It Bleed edition) (Rhino)

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Sto davanti a Tim. Di nuovo.

La prima volta avevo quindici anni, adesso più del triplo.

Intorno tutto è cambiato ma Tim riesce ancora a riportarmi all’età sciagurata dell’adolescenza, agli anni delle “prime volte”. Ora che Ed Stasium ci ha messo le mani sopra e rimettere ordine fra i volumi, ancora di più, ancora meglio, ancora più forte.

Sono i Replacements col fiocco (il nuovo missaggio di Stasium), senza fiocco (la versione “corretta” in digitale del disco originale), con la camicia sbottonata (le versioni alternative e spesso implumi del terzo disco) e ancora quelli coi pantaloni slacciati e a torso nudo (quelli del set live che occupa un intero disco).

Siamo noi abbigliati e svestiti allo stesso modo. Siamo noi che ce ne sbattiamo del mondo, siamo noi feriti a morte eppure imbattibili, bersagli ignudi con la corazza. Noi stravaccati su un autobus che si affaccia sul precipizio. Noi coi libri sotto il braccio, in mancanza d’altro.  

Sto davanti ad un Tim che sanguina, di nuovo.

E sanguina soprattutto quando, sul quarto dei dischi presenti nella reissue della Rhino, la band accende gli ampli sul palco del Cabaret Metro di Chicago in una notte d’inverno del 1986 e dopo averli accesi, li bruciano fino a ridurli in cenere con una scaletta che vede pezzi come Johnny’s Gonna Die, I Will Dare, Tommy Gets His Tonsils Out, Unsatisfied, Jumpin’ Jack Flash, Borstal Breakout e poi quelle Bastards of Young, Kiss Me on the Bus, Dose of Thunder, Little Mascara che da quel disco provengono e che hanno ancora i tagli sulla carne, non ancora ricuciti, non ancora cicatrizzati.  

Young, young, young, young. Take it, it’s yours, take it. It’s yours.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WEIMAR GESANG – The Colours of Ice (Supporti Fonografici)

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The Colours of Ice esce nel 1985, dopo che i Weimar Gesang sono diventati già uno dei nomi più
rispettati della dark-wave italiana grazie al 12”
Even Stone Pales e alla bellissima cassetta Our Silent Growth (oltre che a quella condivisa con i Plastic Trash e allegata al secondo numero della fanza VM), omaggi taciti ai Dead Can Dance e ai Cure nei quali la personalità del terzetto milanese fatica ad emergere, a lasciare la sua impronta. Operazione che invece riesce loro benissimo con The Colours of Ice, pentaedro di ghiaccio che si inserisce con i Neon di Rituals e i Carillon del dolore di Capitolo IV nella rosa delle produzioni dark italiane dell’anno.

Malgrado la parsimoniosa durata, in un periodo nel quale la formazione lombarda è invece
in pieno tsunami creativo,
The Colours of Ice riesce anche grazie all’apporto di Kevin Harris (in quello stesso periodo impegnato con i Christian Death di The Wind Kissed Picture, NdLYS) a fornire un identikit preciso della nebulosa dark del “canto di Weimar”, della sua raffinata tenebrosità, del suo lirismo mitteleuropeo, della sua eleganza neo-romantica. Il microcosmo che ebbe l’onore di apprezzarne la caratura se ne sentirà orfano per sempre.


                                                                                  Franco “Lys” Dimauro