GIORGIO GABER – Le donne di ora (Fondazione Giorgio Gaber)  

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Gaber e Fossati si annusano l’un l’altro già all’epoca di La mia generazione ha perso.

Il primo lo vorrebbe come produttore, come raffinato “sarto” per le canzoni che sta preparando quando la malattia lo sta già divorando. Il secondo ambirebbe ad averlo al suo fianco per un progetto poi abortito di spettacolo teatrale. Alla fine ad occuparsi del disco di Gaber finirà una buona parte dell’entourage di Fossati (il figlio Claudio, Riccardo Tesi, Pietro Cantarelli, Beppe Quirici) ma non il cantautore genovese, troppo impegnato nel suo progetto Not One Word.

Quella collaborazione si realizza, prodigio della tecnica, oggi. A quindici anni dalla morte di Gaber. Si intitola come quella canzone che Gaber progetta come estratto dall’ultimo album cui riesce, tra mille sofferenze, a lavorare. Ma quel pezzo, Le donne di ora, non solo non verrà pubblicato come singolo ma, in un ultimo ripensamento, verrà addirittura eliminato dalla scaletta di Io non mi sento italiano.  

Quel pezzo, di cui si era già parlato nella bella biografia scritta da Sandro Neri un decennio fa, riaffiora mentre Fossati ha già pensato di “restaurare” una parte del repertorio di Gaber per consegnarlo in mano ad una generazione che vede in lui un nome intoccabile ma che, nei fatti, non ne conosce forse nessuna canzone. È dunque un disco che ha più valore “didattico” che altro. Un sunto molto, molto ristretto (“tascabile” lo definisce Fossati) su un arco temporale di contro molto ampio del Gaber autore di canzoni.

Un’operazione sicuramente azzardata e molto poco “propagandistica”, vista la scelta delle quindici tracce selezionate in un repertorio vastissimo da cui sarebbe stato gioco facile prelevare canzoni e “ammonimenti” ad effetto (I reduci, La peste, Qualcuno era comunista, La libertà, Destra-Sinistra, I borghesi, Io se fossi Dio, tanto per dirne di qualcuna). E invece no, Fossati e la Fondazione guidata dalla figlia Dalia scelgono di sviscerare soprattutto il Gaber un po’ demodè di Porta Romana, Le strade di notte, Chissà dove te ne vai, La ballata del Cerutti, addirittura quello della Rolling Crew disinnescando di fatto il rischio di illecita adozione politica di cui Gaber è stato suo malgrado spesso vittima. Le donne di ora ha dunque un basso profilo e ci restituisce in gran parte il Gaber meno attuale, meno pungente, meno guerriero, forse anche quello meno necessario e dubito fortemente che possa far breccia nel cuore delle nuove generazioni, per le quali forse sarebbe il caso di elaborare un secondo lavoro più concettualmente controverso ed intrigante.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE LONG RYDERS – Metallic B.O. (R.W.Y.C.O.)

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Sorta di testamento apocrifo regalato ai fans attraverso il fan club della band all’indomani del suo (primo) scioglimento, Metallic B.O. è il disco che in qualche maniera è chiamato a rappresentare i Long Ryders che non ti aspetti. I Long Ryders alle prese con un repertorio insolito e a tratti disarmante che se da un lato si trascina dietro i vecchi trascorsi di Griffin tra le fila degli Unclaimed con una bella versione della You’re Gonna Miss Me degli Elevators e di una lunga tirata sulla Blues Theme di Davie Allan e dall’altro paga un incomprensibile tributo a John Lydon che passa attraverso Anarchy in the UK e Public Image, vede fioccare l’amore per il folk-rock di Dylan e la musica tradizionale americana in mezzo a stranianti cover versions di pezzi dei Pogues e di Michael Jackson.

Il taglio dell’insieme è comunque semi-amatoriale e, tranne poche eccezioni, del tutto trascurabile. Ma la nostalgia rimane.

 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

THE THANES – No No No No (Larsen) / THE INDIKATION – Don’t Send Us No Flowers E.P. (Larsen) / THE BOSS MARTIANS – The Set-Up (MuSick)

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Registrato come il loro recente album su Screaming Apple nei fantastici Toerag Studios di Londra, riecco i Thanes con un 45 su Larsen dedicato alla storica British Invasion: sono infatti le arcinote No No No No dei Sorrows e What More Can I Do degli Zombies a fornire i calchi per le ennesime prove di gran classe di Lenny Helsing e compagni. Come per tutti gli altri dischi della band di Edimburgo, imperdibile. Ma non credo che i tanti fans avessero affatto bisogno della mia firma come garanzia.

Medesimi studi ed etichetta pure per il nuovo 7” degli Indikation, band norvegese guidata dall’ex Peau de Peche Frode Skjold in crescita rampante tra le preferenze di neobeats e mods europei, me compreso: le quattro canzoni che riempiono i solchi di questo Don‘t Send Us No Flowers E.P. hanno tutto ciò che un 45rpm deve avere: grandi melodie, Farfisa scattante, canzoni che ti si attaccano come la vanillina, roba che ti vien subito voglia di mettere su una festa solo per il piacere di sbirciare sotto le miniskirts delle invitate. Menzione speciale per Three Little Words e Swedish Girl, capaci di accendere in me flashbacks di una band prepunk come gli olandesi Zipps e per la bella cover dei Fresh Windows che ci riporta in piena freakbeat-era. Fenomenali.

Ciò che non mi piace è invece quanto accade dentro al nuovo album dei Boss Martians. The Set-Up smaschera una band che credo deluderà a non poco chi ha amato dischi ricchi di pepite beat e surf come i quattro che l’hanno preceduto. Non un disco confuso, piuttossto un disco che mostra chiaramente la direzione che la band ha voluto intraprendere ovvero quella di un power-pop non troppo brillante peraltro a volte attraversato da pruriti hard (Stress Case, The Set-Up) e non basta certo l’organo di Nick Contento a servire da sutura con i trascorsi garage/surf dei Boss. Oddio, con gente come gli Ataris in giro, si meriterebbero pure di fare un giretto sui pattini per le charts. Ma di questo onestamente non abbiamo che minchia farcene.

                                                                                             Franco “Lys” Dimauro

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THE REMAINS – Live 1969 (Sundazed)  

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Avevo letto lodi sperticate su questo live inedito dei Remains e a leggerle avevo pensato mi avrebbe costretto in qualche modo a rivedere, in maniera ampliata, la storia dei fenomeni di Boston, terminata troppo presto dopo un tour a fianco dei Beatles che doveva essere il loro trampolino di lancio per il mercato mondiale e che invece finì per decretarne la fine (salvo poi riformarsi parzialmente anni dopo e senza più carburante negli iniettori per un mediocre disco come Movin’ On).

Vuoi vedere che, come ha lasciato intendere Greg Prevost sul suo profilo social, questo spin-off dei tardi anni Sessanta, questa reunion occasionale fosse davvero il momento di apoteosi suprema di quella breve avventura? Che qualcosa di prodigioso, di miracoloso fosse stato riversato sul pubblico che assistette a quel concerto una-tantum suonato al Boston Tea Party nel 16 marzo del 1969?

Ascoltando la registrazione di quell’evento invece io, pur essendo credente e aver atteso in ginocchio e col cuore pronto a ricevere il segnale, non ho visto sgorgare il sangue dagli occhi di San Gennaro. La scaletta prevede quasi esclusivamente cover, sacrificando il ricchissimo paniere della band di Larry Tamblyn. Il che mi appare già uno spreco insensato. Ma a parte questo, i Remains non mi sembrano avventarsi sul repertorio con la veemente frenesia degli anni d’oro o che le nuove versioni di standard come Hang on Sloopy, Like a Rolling Stone o All Day and All of the Night possano in qualche modo o per qualche ragione essere preferite a quelle degli storici Live…in Boston o di A Session with The Remains. O perlomeno, io non ne vedo alcuna.     

Detto questo, i Remains “restano” (perdonate il bisticcio di parole voluto) dei giganti dell’epoca beat, con un catalogo di canzoni sopraffino in grado davvero di fare la differenza dal resto del mercato delle formazioni beat che spopolavano in America. Però, lo furono per due soli anni. Forse faremmo bene, mettendo a tacere i pruriti di fanatismo che ci vengono a punzecchiare l’epidermide, a farcene una ragione.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE DUM DUM BOYS – Let There Be Noise (Bondage)  

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Tony Collins e Anthony Norman erano l’avamposto neozelandese della rivoluzione punk, quando il punk era ancora una rivoluzione. Narra la leggenda (ma le leggende sono belle proprio perché sono narrate e non hanno bisogno di verifica) che dopo essere riusciti a trovare una sezione ritmica più o meno stabile e aver registrato il materiale per il loro album, si siano comodamente messi ad una fermata dell’autobus di Auckland con un banchetto in legno per smerciare tutte le copie che potevano di Let There Be Noise. Che non devono essere state moltissime ma abbastanza per alimentare lo status di band di culto che era il massimo cui i Dum Dum Boys potessero aspirare.

Le qualità sono minime ed impacciate il giusto ma sono tutto quello che serve in quel momento: Let There Be Noise scorre infatti veloce ed impetuoso come un bel disco punk deve, memore della lezione dei fratelli maggiori Radio Birdman e dello zio Iggy cui rubano il nome, oltre che dell’aratro elementare dei Ramones, usato per delimitare i confini di canzoni come Idiot Boy, Escape from Hell e Stalking the Streets.

Un classico minore, senza dubbio. Ma non un classico inutile.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ROLF VASELLARI – Virgin Prunes: tutta la furia del sublime (Crac Edizioni)  

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Un  libro dei Virgin Prunes. In libreria. Scritto in italiano.

Sepolto in mezzo alle solite biografie che raccontano di quante scopate si è fatto Lemmy e di quante seghe si è fatto Bowie, a raccolte di interviste sgrammaticate sponsorizzate col logo di Virgin Radio e ai libri con le foto a colori dove brufolose pop-star da una stagione raccontano della loro passione eterna per la musica, prima che scompaiano. Loro e la passione di cui scrivono mentre succhiano dalla cannuccia del loro milkshake alla fragola.

Un libro, peraltro vecchio (uscì originariamente nel 1985 col titolo di The Faculties of a Broken Heart), sui Virgin Prunes dicevo.

Che erano già sconosciuti quando calcavano i palchi vestiti come un circo di zombies e che adesso a tutti devono sembrare una qualche compagnia teatrale del tardo medioevo costretta dalla corte reale a vivere di oboli girovagando per le piazze del reame. Un’opera di cui già allora Colin Newman, produttore di quel mausoleo gotico e pagano che fu …If I Die, I Die, diceva “è fuori dalla mia comprensione come qualcuno possa scrivere un libro sui Virgin Prunes”. Un volume che è dunque, prima di tutto un atto di devozione e di amore.  

Rolf Vasellari li incontra quando hanno appena incassato la defezione di Derek Rowan, l’amico di lunga data di Bono Vox al quale deve il nomignolo Guggi e da cui il cantante degli U2 deve il suo. Una perdita importante e dolorosa per una band che da dieci anni vive in una totale e catartica simbiosi personale ed artistica e che fa del gioco di ruolo uno dei punti forti dei suoi spettacoli. E infatti l’addio di Guggi decreterà a breve l’intero crollo del tendone dei Virgin Prunes.

Il libro di Vasellari si occupa della materia con gli stessi tratti espressionisti tipici della band irlandese, accumulando immagini, interviste, disegni, pensieri, testimonianze, liriche che prendono il loro posto sul palco e poi scompaiono di scena, lasciando posto alla suggestione successiva.

Ed è anche un libro pieno di religiosità e di amore. Che sono forse quel che meno ti aspetteresti da una band che mesceva nell’eccesso e nel turbine del riprovevole come i Virgin Prunes.

E così adesso anche in Italia abbiamo un libro dei Virgin Prunes che “suona” esattamente come un disco dei Virgin Prunes.

E che in mezzo agli altri libri, è come acqua sporca in un lago di acqua minerale.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

MOLOTOV – ¿Dónde jugarán las niñas? (Surco)

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Prendete i RAtM,  spurgateli dai proclami politically correct di Zack de la Rocha e sostituiteli con il linguaggio raffinatissimo parlato in qualunque bar per camionisti del Nuovo Messico, quel dolce stil novo che armonizza chica con fica e lazzo con…

aggiungete il sapore latino di qualche marimba e una copertina esplicita e invitante ed avrete un’idea di cosa trovare dentro questo album dei Molotov.

Uno di quei dischi che avrà fatto incazzare non poco le mammine chicane e che adesso, in virtù della distribuzione affidata al colosso Universal, rischia di far scempio delle secrezioni biliari delle mamme premurose di gran parte del restante pianeta.

Al di là dell’effetto esotico suscitato dall’ascolto dell’idioma messicano innestato su basi canonicamente sfruttate da altri accenti (un po’ quello che successe due annetti fa con i Delinquent Habits), ¿Dónde jugarán las niñas? si muove scaltro e disinibito tra riffoni proto-RAtM (¿Porque no te haces para alla?Matate teteMolotov Cocktail Party), lascive rumbe (Voto latino), aperture acustiche degne di Carlos Puebla (Gimme tha Power), scurrili funkettoni simil-Peppers (PutoCerdo) anche se sui vostri scaffali potrete tranquillamente ficcarlo tra un Beastie Boys, un Fun Lovin’ Criminals e uno Smash Mouth qualsiasi, esortando cortesemente la vostra mammina ad abbandonare velocemente la vostra cameretta, almeno prima che parta l’invito a “fottere tua madre” e che le vostre fantasie erotiche vi fidanzino con la ragazzina candidamente smutandata in copertina. Per chi guarda a un palmo dal naso e crede che MTV sia l’enciclopedia del rock moderno.

Gli altri si dedichino ad esercizi più impegnativi.

                              Franco “Lys” Dimauro

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THE BASEMENTS – I’m Dead (Lost in Tyme)

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A dispetto alla facilità di linguaggio non sono poi tantissime le garage band di ultima generazione che ti fulminano al primo ascolto, soprattutto se sei cresciuto ascoltando autentici animali paleolitici come Gruesomes, Tell-Tale Hearts, Wylde Mammoths, Gravedigger V o Untold Fables. I giovanissimi Basements, da Salonicco, possono a tutti gli effetti appartenere a questa striminzita categoria. I’m Dead è un esordio davvero strepitoso, una tanica del miglior carburante sixties-punk che va ad alimentare un motore a cinque tempi d’assalto.

Un pezzo come l’iniziale Wrong, strapazzata dall’armonica e dai singhiozzi di una chitarra in pieno spasmo yardbirdsiano, obbliga già ad una resa immediata e assoluta. La zoppicante Wiseman che segue a ruota sposta e modera i toni ma già la successiva What’s Going On torna a quel suono pieno di riverberi cavernosi che fu tipico dei Wylde Mammoths.

Al più classico neogarage si rifanno pezzi come She Put Me Down, la criptica I Wanna Come Back e il giro optical di I Don’t Want You No More mentre Go Away chiude il tutto con un assatanato jungle-beat alla Bo Diddley da antologia.     

I’m Dead candida i Basements tra le migliori garage-band del nuovo decennio e voi al podio dei fessi, se ve lo fate scappare.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

PAOLO CONTE – Paolo Conte (CGD)  

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Paolo Conte è, più che un cantautore, uno stato d’animo.

Questa è l’enorme distanza, impossibile da coprire, fra lui e gli altri.

Paolo Conte racconta un mondo tutto suo, un mondo elitario, atavico ed appartato, tutto vissuto fra stanze d’albergo, teatri, calici, orchestre e sale da ballo. Un mondo impermeabile ai fatti di cronaca, alla politica, agli astrusi viaggi filosofici e che del mondo esterno accetta o subisce solo le lusinghe o gli inganni meteorologici. Vento, sole e pioggia servono da coreografia all’intimità delle vicende, accentuano il dramma, i toni grotteschi, la malinconia, la comicità della sit-com che l’Avvocato racconta in fotogrammi sempre diversi ma tutti legati al tema della pellicola, creano un microclima da acquario umano dentro cui i protagonisti delle storie del cantautore si muovono come pesci bipedi ammiccanti e taciturni che si corteggiano senza mai cedere del tutto all’affondo carnale ma concedendosi invece totalmente alla passione meretrice e adulatoria che sottende alla passione, la accende e la governa.

Nell’84 se ne esce con un disco omonimo, l’ennesimo, che sembra un eccesso di modestia e che invece è un trionfo di poesia. Un disco dove quel mondo invade ogni cosa e straripa, ci sommerge e ci trascina dentro facendoci “abitare” quelle storie, come se ne fossimo i protagonisti e ci guardassimo muoverci dentro quel film, raggiunti da quella confidenzialità che ci mette in grado di immedesimarci in quegli odori e in quei suoni fino a sentirli veramente, fino a permetter loro di cambiare l’arredamento della nostra stanza rendendolo sovrapponibile a quello tutto ciniglia e taffetà che Paolo Conte descrive con raucedine ammiccante.

Portandoci nel suo mondo. Che è un mondo incantato di uomini e di donne. Del tutto diverso da quello che vedremmo scostando quelle pesanti tende di velluto.        

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

REVEREND BEAT-MAN AND THE NEW WAVE – Blues Trash (Voodoo Rhythm)  

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Era solo questione di tempo.

Poi, il Reverendo Beat-Man avrebbe scritto il suo capolavoro.

Adesso, quel momento è arrivato. Quel capolavoro si intitola Blues Trash.

Che è il titolo prevedibile che vi aspettavate ma non è esattamente quello che vi aspettate. Non come ve lo aspettate, in ogni caso.

Non è quel gran casino da bottega da rigattiere che potreste immaginare, insomma. Blues Trash brucia piuttosto come una greve pira dentro cui ardono le vecchie ossa dei Black Keys e di Jack White. I loro amici e parenti stanno lì davanti al rogo, a rendere loro l’estremo saluto. La Magic Band del Capitano Beefheart applaude e serve da bere, mescendo dal torbido. I Dead Brothers raccolgono le ceneri e le mettono dentro le urne e le dividono ai presenti, perché ognuno ne tenga una sul davanzale di casa o sulle mensole del salone. A monito futuro.

Auuuuuwlll! The white wolf is back in town!

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro