GIORGIO GABER – Il Grigio (Carosello)  

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Pur essendo perfettamente coerente col percorso artistico di Giorgio Gaber, Il Grigio fa storia a sé. Siamo nel pieno di quel lungo periodo dopo Piccoli spostamenti del cuore in cui le canzoni di Gaber si inabissano per riaffiorare solo anni dopo su Io come persona quando arrivano in scena i due atti del monologo de Il Grigio. Un’ora e mezza in cui non si canta una sola nota e gli strumenti (un sintetizzatore e delle percussioni) servono da contorno atmosferico e meteorologico. Non è una novità, perché c’è stato un precedente illustre come Il caso di Alessandro e Maria, portato in teatro con Mariangela Melato qualche anno prima ma questa volta oltre al pamphlet di sala c’è anche un supporto fonografico.

Non è la sola novità: a differenza dell’altra volta Gaber è adesso un uomo solo più che mai, che ha scelto l’isolamento dal mondo. Ma a turbare la sua quiete arriva un elemento non previsto, come spesso accade. Nello spettacolo è rappresentato da un topo, grigio come il tempo. Grigio come noi.

La casetta dove invece si è rifugiato Gaber è invece tutta bianca, circondata da un prato verdissimo. Un’oasi. Una “svizzerina” ai bordi della metropoli, dove Gaber può meditare su tutto, quasi indisturbato. Non fosse per quel ratto che strisciando si insinua come un dubbio, come un’incertezza, come un piccolo ingranaggio disubbidiente nella grande macchina della mente. Fino allo scontro finale, all’acquisizione della consapevolezza di quanto sia necessario qualcuno o qualcosa che non faccia addormentare i nostri dubbi e ci distragga dalle nostre verità, dallo scudo comodo delle nostre ideologie che diventano muri invalicabili che rischiano di seppellirci dentro.

Avvincente saga di un eroe che combatte contro ogni idea, persino la sua, Il Grigio ci impone novanta minuti di silenzio dissenziente. E altrettanti di applausi.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

SEÑOR NO – 94/20 (Bang!)  

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Tecnicamente non il nuovo album della band spagnola, che del resto ne ha appena realizzato uno fresco fresco in chiusura dell’anno scorso, ma una collezione di pezzi tratti dai loro singoli.

Un modo per passare il lockdown chiuso in casa assieme ad un branco di mastini baschi invece che con i virologi che vi insegnano come scrollarvi il pisello.

Undici canzoni cantate nella lingua di Dalì ma che vibrano di chitarre detroitiane e su cui si aprono le ali di quel pterodattilo australiano chiamato Radio Birdman.

Undici canzoni in fila, come voi davanti al supermercato. Incolonnati per comprare una scatoletta di tonno norvegese o una bibita americana, cantando lodi all’Italia.

Non un minuto di respiro per grattarvi il sedere, così non rischiate di infettarvi pure là sotto. Nessun compromesso con i concertini asettici dalle camerette che stanno inondando la rete come e più della COVID.    

Gente che dice “signor no”.

Dovrebbe bastarvi.

A me basta.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PUBLIC IMAGE LTD. – Ceci n’est pas une pipe

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Nel 1978, mentre Sid Vicious massacra a coltellate Nancy Spungen e Paul Anka uccidendo di fatto il punk, Johnny “il marcio” ridiventa Lydon e dà vita al dopo-punk: recluta il primo eroinomane chitarrista dei Clash (Keith Levene), un altro reduce dei gloriosi “Four Johns” (John Lydon, John Richtie aka Sid Vicious, John Gray e appunto John Wardle aka Jah Wobble amavano farsi chiamare così quando andavano in giro a contrarre epatiti nei giorni di fuoco del punk, NdLYS) e il batterista dei canadesi Furies (Jim Walker) per allestire una delle più alienanti formazioni del post-punk britannico. Perfetta prosecuzione ideologica del dissacrante breve sputo punk dei Sex Pistols, i Public Image Ltd. sono una camera da elettroshock sulle cui sbarre il ghigno da malato psichiatrico di Lydon può fracassarsi gli ultimi denti buoni rimasti.

First Issue è divorato dal di dentro.

Al di là del “facile” ma vincente assalto punk del manifesto Public Image, il primo album del gruppo inglese è un padellone ammorbato da un’ossessiva, angosciosa e maniacale ricerca del brutto. Dall’atmosfera greve e medievale dell’introduttiva Theme fino al dub nazista di Fodderstompf passando per l’arte oratoria e teologica resa manifesta in Religion I e per il marziale tormento di Annalisa, First Issue ci accoglie in una camera di tortura dove urla agonizzanti e maniacali, chitarre lancinanti e scomposte e ritmi ossessivi e pesi ci calano addosso come una condanna a morte. Ancora più nichilista di Never Mind the Bollocks, il primo album dei Public Image Ltd. ancora oggi fatica a passare per radio. Le conclusioni, per una volta, provate a trarle da voi.

 

Il secondo atto dei Public Image è un disco deforme e oltraggioso che si nega alla bellezza, schivandola con un atto supremo di abnegazione. Metal Box è il raschiamento uterino del ventre fecondo del dopo-punk. Particelle di suono che collidono e si sfregano mentre vengono risucchiate nel vortice ingordo di un buco nero. Public Image creano un disco insano e spettrale evitando la facile trappola della messinscena gotica ed ossianica dei nuovi vampiri del dark.

Per questo, per questa sua totale assenza di ogni “appiglio” letterario, il pozzo dentro cui ci fanno scivolare i PiL è ancora più infido e profondo. Ancora più osceno e crudele. Liberando i demoni interiori (tra cui quelli della morte di mamma Lydon, cui Johnny dedica un singolo tutto per lei intitolato Death Disco nell’estate dello stesso anno, finito in top 20 nonostante le sue urla da bertuccia e le scintille dissonanti della chitarra di Levene, NdLYS), Metal Box ci mette davanti allo spettacolo nudo delle nostre atrocità, scuoiando la musica bianca e innestando sotto la sua carne la polvere d’amianto liofilizzata del dub, creando un mostro macilento e sfigurato che si agita sotto una paranoia che ha la densità dell’acqua ristagnante. Un lavoro sfibrato e sfibrante anche nel formato (raccolte in tre dischi separati, le dodici tracce costringono l’ascoltatore a fare visita al piatto stereo ogni dieci minuti come un cancro alla prostata ma anticipano pure, e di tanto, l’ascolto “casuale” che diventerà la norma il secolo seguente, NdLYS) dove il salmodiare monocromatico e agonizzante di Mr. Lydon galleggia esanime come una rivoltante Leucòsia del disgusto sopra un fondale di rumori, sibili ed effetti di synth e chitarre che di Veleno non hanno solo il nome.

Metal Box è impermeabile ad ogni sorriso. Ad ogni anelito d’amore.

Non conosce la pietà ne’ la compassione, non conosce la misura del perdono e neppure i limiti del peccato. Non conosce l’alternanza delle stagioni, la lenitiva carezza del tempo, la saggezza delle rughe, la tenerezza di un abbraccio.

Solo l’austera e spietata disciplina della crudeltà.

 

L’intransigenza artistica di John Lydon si spinge ancora oltre gli orrori di First Issue e Metal Box porgendo sul tavolo della Virgin una beffa travestita da boquet di fiori intitolata Flowers of Romance. I Public Image trascinano il post-punk giù per le scale dei Townhouse Studios e ne registrano il rumore.

Nessuna canzone, dentro il terzo album dei Public Image. Solo un gran fracasso di pentolame e un malato di meningite che farnetica sbattendo le porte.

Il terzo Public Image è l’apoteosi dei tamburi e di Nick Launay che quei suoni riesce a catturare con una focalizzazione dello spettro sonoro quasi fotografico, tanto da stuzzicare gente dal palato non proprio facile come Kate Bush e Phil Collins. Avete presente quel pattern che “veste” quasi per intero In the Air Tonight e Intruder di Peter Gabriel? Ecco, anche se l’accostamento tra l’eleganza nerovestita (e poi trattata col “suo” gated reverb) di Collins e i deliri psicopatici di Lydon sembrano oltremodo azzardati, tutto inizia proprio da qui, dalla follia terminale di un disco invendibile come questo, sgombro di ogni frivolezza, austero nella sua anarchia severa. Un treno di latta che sfreccia traballando sui binari scardinati di una musica incollata a fatica, metafisica, volubile, privata di qualsiasi legame molecolare. Flowers of Romance è la certificazione dei Public Image come elemento deviato nella tavola periodica del dopo-punk inglese.

 

I Public Image, o quel che ne rimane (Lydon e Atkins, anche lui dimissionario da lì a breve), rientrano nel loro corpo nel 1984. Per non uscirne più. Da questo preciso momento quella che era una delle formazioni più evanescenti ed estreme della new-wave inglese diventa con This Is What You Want…This Is What You Get una band abbastanza ordinaria, trasformando la fortissima ed irrequieta componente ritmica di un capolavoro come Flowers of Romance in una decisa spinta disco-funk che crea una definitiva spaccatura con il claustrofobico ed annichilente vuoto d’aria dei tre dischi precedenti. Ne rimane appena qualche traccia in un paio di episodi della “…This Is What You Get”-side. Per il resto, il deforme splendore cede per la prima volta alle lusinghe dello specchio, compiacendosi della propria fisicità e regalando al mondo per la prima volta “quello che cerca”: una canzone da cantare. Pur se con le dita nel naso.

 

Interrogato a proposito della sua creatura, John Lydon aveva dichiarato “nessuno di noi è un musicista. Siamo più che altro degli operai, dei macchinisti al servizio di una fabbrica chiamata Public Image”.

Era vero.

Verissimo.

Cosicché per realizzare il loro primo vero capolavoro “musicale”, Lydon recluta alcuni dei musicisti migliori sulla piazza. Gente che solo un matto avrebbe pensato di mettere insieme a forma di gruppo vero: Steve Vai, Ryuichi Sakamoto, Bill Laswell, Ginger Baker dei Cream, Tony Williams (del giro di Miles Davis), Bernie Worrell dei Funkadelic, il violinista indiano Shankar, Malachi Favors dell’Art Ensemble of Chicago, addirittura Ornette Coleman (anche se il suo contributo non venne mai registrato e resta nell’aura della leggenda). I PiL di Album sono la superband per eccellenza: dodici musicisti in grado di fare di fare la differenza e costruire da quella carpenteria fatiscente una delle migliori architetture pop della metà degli anni Ottanta.

Dodici apostoli al servizio del Dio Lydon, esattamente nove anni dopo la sua crocifissione.

Se il disco precedente aveva azzerato l’impeto sperimentale dei primi anni, il nuovo “Album” è il decisivo salto nella nuova dimensione bidimensionale di una musica inoffensiva, costruita ad hoc per scavalcare le mura del disinteresse popolare dietro cui i Public Image si erano volutamente fortificati per anni.

A parte la voce di Lydon, incapace di adattarsi a più di una nota, tutto dentro Album suona perfettamente modellato per raggiungere l’obiettivo di una nuova ingegneria pop/rock costruita a testa d’ariete dove nulla è lasciato al caso, neppure gli indomabili assolo di Steve Vai che sembrano voler sfuggire alle redini. Tutto fa parte di un unico abile schema di gioco, di boccacce ed imprecazioni ben studiate, capaci di piccoli splendori pop come RiseF.F.F. o Home. Che era “quello che volevamo” e quello che, alla fine, ci è stato dato.

 

È la chitarra più innovativa di tutta la new-wave inglese a lampeggiare dentro Happy?, il disco che dopo la scorpacciata di session men di Album, riassetta i Public Image a forma di band vera. Oltre a John McGeoch a fiancheggiare Lydon ci sono stavolta Lu Edmonds (già con Damned, Mekons e Shriekback), Allan Dias e Bruce Smith (Rip, Rig + Panic, Pop Group, Slits). Alla produzione c’è però Gary Langan, una delle menti dietro il progetto Art of Noise e una delle mani dietro i progetti di pop ballabile più riusciti dell’Inghilterra degli anni Ottanta (Billy Idol, ABC, Spandau Ballet, Nik Kershaw, Hipsway, Belouis Some, Scritti Politti o la famosa Owner of a Lonely Heart degli Yes). Il suono da lussuriosa pattumiera dance in cui Happy? si infogna subito dopo l’anthem Seattle che lo inaugura è dunque in gran parte demerito suo ma non è una sua esclusiva. Lydon ama già da un po’ rivestire di plastica la sua musica, adeguarla ai tempi. Era già successo con This Is What You Want…This Is What You Get e con Album. Happy? è dunque una replica di quei toni funky sfarzosi che i Public Image hanno sostituito al tribalismo metallico dell’epoca Levene/Wobble/Atkins.

I PiL ribadiscono il valore della superficialità contrapposto a quello del tormento, della felicità presunta al livore sincero. Hanno trovato la maniera di farsi accettare dal mondo rivendendogli la sua stessa immondizia, impacchettata e lustrata a dovere. Johnny il Marcio (che adesso, dopo otto anni di causa legale contro Malcolm McLaren, può tornare ad usare il suo vecchio appellativo dei giorni punk) continua a farsi beffe di noi.

 

La domanda inaugurale è la medesima che campeggiava sul vecchio disco: Felice?

Di certo Mister Lydon sembra più felice adesso di quanto lo sia mai stato in passato. Come se avesse imparato a convivere con se stesso e con gli altri. Non sappiamo se sia una felicità vera, e il punto interrogativo non fa che confermarci i dubbi in merito ma di certo la musica dei PiL è diventata nel tempo sempre più allegra, baldanzosa e apparentemente spensierata. 9 è l’ultimo bagno nella merda pop del decennio che ci stiamo ormai lasciando alle spalle. Un tripudio di enfatica musica colorata con i peggiori smalti degli anni ’80 e che allo stesso tempo anticipa la passione per i ritmi sintetici del Lydon solista che verrà (l’Hi-NRG di Warrior). Dentro le nuove dieci canzoni scorre tutta la plasticazza funk degli anni Ottanta, anche quella più becera (Like That è quasi una italo-disco) e non per niente al lavoro di produzione c’è quel Stephen Hague che ha modellato il suono di band come Erasure e Pet Shop Boys.

Perdonabile solo perché a proporcela sono Lydon e McGeoch. E perdonabile a fatica anche tenendo conto di queste attenuanti.

Sembra di stare dentro un disco degli INXS o dei New Order. Con in più la voce salmodiante di John Lydon, il che non è detto sia una ragione in più per star comodi. Anzi, forse il contrario. Dietro di lui, nei momenti migliori e peggiori del disco, un coro di voci nere che sembrano uscite dal cast di Sister Act. I PiL scivolano via come su una buccia di banana.

 

Bella la copertina di That What Is Not dei PiL.

È un po’ la pipa di Magritte.

Ma no, non è una pipa.

E no, non è neppure quell’altra cosa con le consonati diverse.

Però da quell’impressione. E di impressioni spesso si muore.

That What Is Not è infatti morto sul nascere, per la critica. Senza neppure aspettare il primo vagito.

E invece è un album fichissimo, se non ci si ferma aspettando Godot con la speranza che i PiL tirino fuori un altro di quei dischi applauditi da tutti che in realtà hanno ascoltato solo in dieci.

Perché i PiL sono ormai una band di new-wave traslucida e volgare. Che può permettersi di pagarsi i fiati dei Tower of Power ma continua a fare pernacchie e linguacce. Che ha il miglior chitarrista di tutto il post-punk ma lo costringe a suonare come il guitar axe di una band di NWOBHM. Che dà alla gente “quello che vuole” sapendo che la gente non sa quello che cerca.

Che può sfoderare ancora bigiotteria sfavillante, come Covered, come Acid Drops, come Emperor, come Love Hope, come Luck’s Up sapendo che le gazze arriveranno in picchiata sfracellandosi il becco a terra per un culo di bottiglia che però sembra quel che non è. Come tutti noi.   

 

Non doveva esserci futuro per i sogni inglesi e per quelli personali. E invece John Lydon il futuro se l’è preso tutto e quel futuro è adesso un presente in cui abita sempre meno a disagio, tra vita casalinga, reality show e ritorni più o meno programmati alla sua dimensione artistica, finanziata anche attraverso i grossi guadagni ricevuti come testimonial pubblicitario.

This-Is, il disco realizzato a venti anni dal precedente, dimostra come oltre ad aver dissipato gran parte della sua fortuna finanziaria, Lydon abbia smarrito anche una buona parte di ispirazione. Cosicché i ragazzini che dovessero iniziare ad avvicinarsi alla band attratti da un fuorviante “questi sono i PiL” si porterebbero a casa in realtà solo una pallida copia.

Ne rimane, quello si, qualche tratto. La voce fastidiosa da suocera petulante di Lydon ovviamente. Ché quella è e quella rimarrà per sempre. La batteria incalzante. Certe divagazioni reggae. A quelle si aggiunge stavolta più di una tentazione elettronica, tentazione in cui il buon John è già caduto col suo disco solista e nella collaborazione con i Leftfield nel tentativo un po’ goffo di dimostrare di essere, fra l’altro, anche il papà dei Prodigy. Ne viene fuori un disco molto pasticciato, dove qualche buona idea (Human, Deeper Water, Reggie Song) si trascina dietro una lunghissima zavorra di canzoni inconcludenti che “sono i PiL” eppure non lo sono.

 

John Lydon alle prese con un wc guasto.

John Lydon che dice parolacce, come quando era un ragazzino coi capelli verdi.

In mezzo, altre nove canzoni.

Questo, succintamente, il contenuto di What the World Needs Now…, decimo disco nella scomposta colonna discografica dei PiL.

Come il disco precedente, quello che ne sanciva l’ufficiale rientro in scena, questo nuovo spara un po’ a salve. Anche se, va detto, il senso di diffuso fastidio che era percepibile su This-Is qui è mitigato da scelte musicali e registri vocali meno insistenti e ripetitivi. Che poi questi tiri non sempre vadano a segno è un dato di fatto ma del resto quella dei PiL non credo sia voglia di alimentare una nostalgia che, in virtù di una discografia zigzagante dall’ermetismo più assoluto alla disco music, non è mai sbocciata in nessun vivaio, se non per qualche singolo vaso.

I Public Image hanno sempre navigato a vista fra onde di odio e di amore, insomma. Alimentando il malcontento sin dalla prima strofa della prima canzone. Facendo dischi in cui tutti cercano non si sa bene cosa e tornandosene a casa con la consapevolezza di non averla trovata, qualunque cosa fosse. Un plotone di marines cui il sergente Lydon impartisce ordini come Hartman nella camerata di Full Metal Jacket.

Quei cessi li voglio così lustrati e sfavillanti che di venirci a fare i suoi bisogni ne dovrebbe essere orgogliosa anche la Vergine Maria!

Signorsì signore.

Sebbene abilmente camuffata nell’introduttiva Penge, la voce adenoidea di Lydon, con l’ovvio processo senile, è ancora più nasale e disturbante. La musica dei PiL invece, come sempre, fa un sempre un po’ quel cazzo che le pare. E stavolta, non è neppure sgradevole.

Dedicato in parte all’amatissima moglie di Lydon Nora Forster End of World è un album che esce dall’abisso blu in cui il mostro PiL si era cacciato e torna a smuovere la superficie dell’acqua, come in certi fotogrammi di Jaws. Poi, il morso che ti strappa la carne non arriva mai e torniamo tutti a casa sani e salvi ma stavolta, rispetto all’impermeabilità cui ci avevano abituato gli ultimi dischi dei PiL, bagnati. Considerato in prospettiva, nella prospettiva della discografia dei Public Image dell’ultimo decennio almeno, End of World è infatti un album immenso capace di incrociare influenze diverse che qui a tratti prevedono addirittura un sottile omaggio all’hi-nrg disco (Being Stupid Again) e di piegare tutto in un discorso coerente alla loro incoerenza, se riuscite ad afferrare il concetto.

Dentro, ognuno può trovarci almeno un pezzo da amare e uno da odiare, uno da cui diventare dipendenti e uno cui restare completamente indifferenti. La fine del mondo, sembra spiegarci Lydon, avverrà incrociando per strada mille persone in fuga, tutte diverse. Ad ognuna lanceremo uno sguardo. Rimpiangeremo quelle che non potremo vedere più. Ringrazieremo Dio per cancellare dall’orizzonte quelle che spariranno per sempre. I Pil avranno raccontato allora ognuna di loro.    

                                                                                             

Franco “Lys” Dimauro

PRETTY THINGS – Cross Talk (Warner Bros.)  

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Cross Talk è l’ultimo disperato tentativo dei Pretty Things di reinventarsi all’infinito. Cosa che non può riuscire per un tempo illimitato. E così, all’imbocco della strada per la new-wave il gruppo, nuovamente ricompattato con il rientro di Wally Waller e Dick Taylor, fallisce miseramente. Cross Talk cerca in realtà di inseguire, più che le nuove frontiere della nuova onda inglese, un punto impreciso situato fra il pub rock, il power pop e quelle vaghe linee doo-wop e reggae che in quei generi erano sempre avvertibili sotto pelle, tanto che il pezzo conclusivo sembra quasi una parodia dei Police, nascosta sotto un titolo alla Sex Pistols. A voler essere sinceri non è neppure quel disco terribile che molti sostengono sia. Solo, ancora una volta, sembra di trovarsi davanti ad un’altra band, come era già successo almeno due o tre volte durante negli anni precedenti. Cosa peraltro legittima, non fosse che il continuo reinventarsi senza mantenere dei tratti fisiognomici precisi (cosa che è riuscita ad esempio agli Who e ai Rolling Stones), finisce per far disinnamorare gli amanti, costretti a vedere sul talamo qualcuno che di chi si amava non ha più neppure l’odore. Il che potrebbe anche essere eroticamente stuzzicante, non fosse che l’erotismo dell’amante in questione sia andato perduto assieme a tutto il resto.

Franco “Lys” Dimauro

 

 

EPIC SOUNDTRACKS – ☆Rise Above☆ (Rough Trade)

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Immaginate Lee Ranaldo e Kim Gordon dei Sonic Youth, J Mascis dei Dinosaur Jr, Martyn Casey dei Bad Seeds, Anthony Thistlethwaite dei Waterboys, Rowland S. Howard dei These Immortal Souls, Will Pepper degli Hypnotics tutti insieme in uno studio. E poi immaginate accanto a loro un eterno ragazzo che non ha molta fiducia nelle proprie capacità di cantante e di intrattenitore e che ha paura del pubblico, tanto che per anni ha deciso di stare nelle retrovie, nascosto dietro i tamburi degli Swell Maps, dei Crime + The City Solution, dei These Immortal Souls. E che ora però ha qualcosa da raccontare.

Sottovoce.

Perché Kevin è un ragazzo vulnerabile che si è scelto un nome da eroe dei film western, un alter ego che è un amico immaginario. E per il suo album di debutto ha scelto lo stesso titolo di un pezzo dei Black Flag, ma ci ha messo ai margini due stelle.  

☆Rise Above☆ è un disco pieno di coperte di Linus.

Ogni volta che Kevin poggia le dita sul pianoforte o sulla chitarra, se ne tira addosso una.

Mentre tutt’attorno fa autunno.

E i Beach Boys tirano a secco le loro tavole da surf.

E Kevin e i suoi amici camminano su un tappeto di foglie scroscianti, dopo aver zittito ogni strumento che si erano portati dietro per fare casino.

Poi Kevin si alza dal pianoforte e gli altri lo abbracciano forte.

E rimettono gli strumenti nelle custodie.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

DJ GRUFF – Zero Stress (Zeros3ss)  

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Dire che l’esperienza Sangue Misto si è consumata con la sola realizzazione di SxM, il capolavoro che tutti sappiamo, è in realtà una delle menzogne e degli insabbiamenti storico-musicali più eclatanti di sempre. In realtà, al di là dei tag di copertina, l’esperienza della crew bolognese è storia ben più lunga, frammentata e trasversale che si snoda attraverso una pletora di dischi che vanno da Rapadopa intestato a DJ Gruff (se proprio non vogliamo scavare come cani da tartufo fino alle radici dell’Isola Posse All Stars) fino ad almeno 107 elementi dei Messaggeri della Dopa (o, volendo forse “stirare” un po’ troppo, l’omonimo disco dei Melma&Merda), passando per tasselli-chiave di un puzzle che comprende Fastidio di Kaos, Neffa e i Messaggeri della Dopa di Neffa e questo incredibile Zero Stress intestato al solo Gruff, disco realizzato da chi ha ancora le palle ed il carburatore pieno.  

Gruff conferma il suo ruolo di sentinella dell’anima più intransigente dell’hip-hop, una fede cui non verrà mai meno, sputando massicce dosi di veleno ai “$ucker$” colpevoli di aver svenduto il rap alle leggi dell’intrattenimento nazional-popolare più becero, da Jovanotti agli Articolo 31 in avanti.

I personaggi coinvolti sono fondamentalmente quelli della “grande famiglia” di Gruff, ovvero i guaglioni dei Sangue Misto, dei Radical Stuff e dei Casino Royale, Kaos One, Gopher D, tutti impegnati a muoversi dentro il labirinto funky di Grandmaster Gruff e pronti a farsi fare a pezzetti, a listelli, a coriandoli in ventidue tracce che perpetuano la storia dei Sangue Misto riciclandone piccoli pezzi che vengono a galla in brani come Tifititaf e Mefangoscià e rimettendoli in circolo, in una caleidoscopica ruota panoramica che si affaccia su una delle più belle, incorruttibili storie del rap italiano.         

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DATURA4 – West Coast Highway Cosmic (Alive Naturalsound)

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I Datura4 sono il progetto che ha salvato la vita artistica di Dom Mariani allargando a dismisura il suo pubblico, trovando rifugio non più tra i fanatici del power-pop che il musicista australiano ha esplorato in tutte le sue forme per più di trent’anni ma nella numericamente più ricca compagine di chi ama il rock-blues di chiara matrice seventies. Un regalo non da poco che Dom Mariani ricambia facendo di quello che sembrava un progetto estemporaneo, un vezzo da rockstar ormai prossima alla pensione, un’attività a tempo pieno e a regime serratissimo.

West Coast Highway Cosmic è infatti il quarto album in cinque anni. Insomma, non siamo ancora arrivati allo stakanovismo di King Gizzard and The Lizard Wizard ma poco ci manca. Musicalmente invece è proprio tra il pubblico dei “rivali” che il nuovo disco sembra voler trovare consenso. Non che i Datura4 stiano diventando una replica di quelli, ma disco dopo disco certe analogie, certi riferimenti si sono fatti più prossimi, sconfinando in prossimità di certi campi seminati a prog, senza mai scavalcare il recinto.

Guardano un po’ incuriositi, appoggiati alla staccionata, questo si. Indecisi se buttare i piedi di là e poi alla fine ritraendosi in pascoli meno insidiosi (Get Out, A Darker Shade of Brown) se non addirittura nel granaio (You Be the Fool). Eppure è proprio in questo annuncio disatteso, quando il suono sfugge al boogie alla Canned Heat in cui rimane intrappolato in più di un’occasione che questo nuovo album sembra offrire le sue cose migliori o perlomeno quelle che potrebbero centrare in pieno il target che Mariani sembra essersi prefissato da cinque anni a questa parte, radunando folle lungocrinite nei festival estivi, se mai torneranno e se mai avremo ancora i capelli lunghi.       

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

X – Alphabetland (Fat Possum)

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Dopo il risicato antipasto dello scorso anno, gli X tornano con un album completo.

Tornano in tempi cattivi, tanto da decidere di anticipare la versione fisica del disco pubblicandolo in versione “fluida”, in attesa che riaprano le vecchie catene di montaggio del vinile e allo stesso tempo sfruttando l’enorme quantità di tempo libero che i fruitori si sono trovati a dover gestire.  

Quelle di Alphabetland sono canzoni che corrono veloci come ai tempi che furono, undici giri di campo fatti mediamente in due minuti e mezzo, in un caso addirittura in novantasette secondi. Per una band di ultrasessantenni, un risultato di altissimo livello. Si, perché gli X che tornano stavolta sono quelli che una notte dopo l’altra costruirono una della band più leggendarie del punk californiano.

John Doe, Exene Cervenka, D.J. Bonebrake, Billy Zoom.

Che pronunci i nomi e ti si scioglie il sangue come ti iniettassi di eparina.   

Se chiudi gli occhi, puoi sentire i loro fantasmi prendere corpo nella tua stanza e inseguire ancora Paulene. Li puoi sentire ovunque, anche se in Free, Delta 88 Nightmare, Angel on the Road, I Gotta Fever e Cyrano DeBerger’s Back un po’ più attaccati al tuo cuore.

Li puoi immaginare belli e disperati come allora.

Perché, come dice Exene in chiusura del disco e Dio nella notte dei tempi, “siamo polvere e polvere torneremo”. Ma prima di allora avremo ancora del tempo per spalancare le finestre e liberare nell’aria la musica degli X.    

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THESE IMMORTAL SOULS – I’m Never Gonna Die Again (Mute)  

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Il secondo album dei These Immortal Souls supera di gran lunga il primo per tensione drammatica avvicinandosi molto al blues noir dei Beasts of Bourbon, abbeverandosi alla stessa mammella di latte nero e superandolo in depravazione. Rispetto al disco di debutto la chitarra di Rowland S. Howard non si limita ad una presenza atmosferica ma torna a dominare gran parte della scena, allestendo degli splendidi dialoghi sconci e immorali con il pianoforte di Genevieve come quelli di My One Eyed Daughter, The King of Kalifornia, Insomnicide, Up on the Roof, Shamed accentuati dall’incalzare di una batteria che da tribale diventa adesso barbara. Se l’album precedente apriva una qualche ferita, I’m Never Gonna Die Again muove il coltello dentro quel solco della carne con compiacimento e livore, con Howard intento ad usare la sua sei-corde per scavarci dentro come fosse un tomahawk su un tronco di abete rosso.

L’intimismo, sebbene ancora presente in dosi massicce, sfuma adesso verso una dimensione plateale, quasi epica e cerimoniosa, diventando celebrazione condivisa della perdizione cui le anime sembrano votate e predestinate.

La casa di These Immortal Souls viene avvolta dalle fiamme.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

LITFIBA – 3 (I.R.A.)  

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Prima di sprofondare nel rock più becero e tamarro di cui diventeranno eroi incontrastati per tutti i secoli a venire, i Litfiba elaborano il disco che Berlinguer avrebbe definito del “compromesso storico”. Il gruppo si trova ad affrontare e gestire il grande salto di popolarità, privilegio concesso solo ed esclusivamente a loro tra le nuove leve del rock italiano. Pelù e Renzulli sono disposti ad immolarsi al sacrificio, svendendo la vecchia officina new-wave (scelta biasimevole quanto si vuole, ma del resto tutta l’intera filiera new-wave era già fatiscente, NdLYS) e comprando una nuova, scintillante per quanto opinabile quattro cilindri hard-rock.

Maroccolo e De Palma sono invece affatto propensi alla muta.

Antonio Aiazzi non si schiera e subisce la scelta.

Ma per 3, il disco che rappresenta lo snodo cruciale fra i primi Litfiba e quelli successivi, la band è ancora musicalmente credibile.

La crepa però è già evidente e, mentre la nave procede verso il sudamerica (dove finalmente approderà con Pirata), lo scafo imbarca acqua. Ma regge la traversata. Pezzi come Ci sei solo tu, Louisiana, Paname nella loro enorme e preziosa diversità fungono da robuste paratie, mentre il capitano Piero Pelù si trasforma sempre più in un supereroe da fumetto sui bucanieri e inizia a circumnavigare con i suoi vocalizzi le coste estreme del buongusto e della pantomima, pur senza ancora posar piede.        

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro