MICEVICE – You Monster Headache (Desvelos)  

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È ormai cronaca nota quella del felice matrimonio tra la giovane manovalanza della cinematografia italiana e gli altrettanto aitanti rampolli della indie-culture nostrana e quindi non desta scalpore alcuno sapere che Paolo Virzì abbia scelto Giovanni Ferrario per sottolineare i fotogrammi del suo ultimo Caterina va in città. La musica di Micevice, con o senza l’apporto di immagini o icone di questo nuovo neorealismo bagnato di nostalgia, funziona sempre anche in formati francamente invendibili come quello di questo MCD che comprende un pezzo trainante che è un missile, il classico hit killer a cui Micevice ci hanno viziati con quella bomba H che era Power to the Guitar Sound tutta chitarre scattanti, arie sornione alla Mark Smith/Jazz Butcher, ritmica pulsante e metronomicamente implacabile. Perfetta. Quello che segue è però roba per feticisti, ovvero una versione solo strumentale della title track e due estratti dal loro secondo album Bipolars… ovvero i pezzi scelti appositamente da Virzì per le scorribande di Caterina: le sognanti e narcolettiche Kill Someone e Opium & Speed con Paolo Benvegnù alle backing vocals.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

THE HOMOSEXUALS – Astral Glamour (Messthetics)

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Una manciata di dischi alla fine degli anni ‘70, puntualmente ignorati dalla critica dell’epoca inasprita dal rifiuto della band di saltare sui carrozzoni promozionali e venerati da quella futura forse per il vezzo chic per cui ciò che è molto out deve necessariamente essere molto cool hanno ingigantito il mito degli Homosexuals tanto da spingere la Messthetics a celebrarne il ricordo con questo triplo CD contenente l’opera omnia. Gli Homosexuals erano delle marionette post-punk, e non nel senso dispregiativo del termine: chitarre “scheggiate” infarcite da testi carichi di humour e non-sense che sfociavano in fremiti punk (My Night Out), paurosi e scoordinati sbrodolamenti free (lo sconquasso a-ritmico di Perfect Baby), cantilene surreali (Nursery Chymes) e piccole gemme new wave (Vociferous SlamAstral Glamour) in cui sembra si sentire gli XTC in fasce. Non essenziali. Ma curiosi, questo si.

 

                                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

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ROLLING STONES – Voodoo Lounge (Virgin)  

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Non si può essere ribelli tutta la vita. Ed è anche giusto che sia così. E del resto non puoi comprare un disco degli Stones, il ventesimo disco degli Stones, sperando di trovarci ancora dentro (I Can’t Get No) Satisfaction o Sister Morphine. Il testimone della ribellione, dell’anticonformismo, dell’indolenza tossica, della beatitudine teppista è passato ovviamente ad altri rappresentanti più giovani e credibili. Qualcuno di loro ha già abbandonato a sua volta la staffetta, dopo essersi accorto che era un candelotto di dinamite e non una torcia olimpica quello che teneva in mano. Kurt Cobain, l’ultimo di questa lunga schiera di anime ribelli, è morto tre mesi prima che uscisse Voodoo Lounge, proprio mentre i Rolling Stones ne stanno ultimando le registrazioni.

In questa furiosa stagione gli Stones rappresentano l’ovvietà rassicurante di un rock che non ha più bisogno di eccessi. Un tiepido rifugio montano dove potersi riparare dalla tormenta. Del torbido mondo che il titolo pare voler annunciare non v’è traccia alcuna dentro il disco. Pare per scelta del produttore che ha eliminato le canzoni e ripulito gli arrangiamenti più “tribali”. Quel che viene dato al pubblico è un disco di elegante e vetusto Stones-sound di mezz’età.

Rock e blues che non fanno più male. Domati e resi inoffensivi dalla capacità illimitata di Richards e Jagger di poter scrivere decine di canzoni usando il medesimo clichè. Ecco così che You Got Me Rocking, New Faces, Brand New Car, Moon Is Up, Thru and Thru, Baby Break It Down sfoggiano titoli nuovi per fisionomie già familiari. Gente che ti ha già preso per il culo più volte e del cui abbraccio torni a fidarti perché poi, alla fine, è meglio cedere alle lusinghe della delusione già sperimentata che a quella ancora da sperimentare.      

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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BRIAN JAMES – The Guitar That Dripped Blood (Easy Action)

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Per Halloween ho ricevuto un disco con un teschio in copertina. Benone.

Dietro il teschio c’era la faccia non meno inquietante di Brian James: ancora meglio.

La copertina è firmata da Graham Humphries, uno che con Brian collaborò ai tempi dei Lords of the New Church per disegnare le copertine dei primi due album della band che Brian condivideva con l’altro reduce Stiv Bators, standogli al fianco come aveva fatto Cheetah Chrome ai tempi dei Dead Boys. E il buon Cheetah, finalmente libero dagli impegni sia pur estemporanei con i Rocket from the Tombs, ora suona al fianco di Brian sul pezzo che inaugura questo album. Poi, va via. E il disco continua la sua corsa, con la bellissima The Regulator dominata dalla voce di Adam Becvar dei Lustkillers e altre otto canzoni che, al volume consigliato, sgretolano giù le pareti. Il suono è scuro ed incalzante, vicino a certe cose catramose di quegli altri eroi blasfemi chiamati New Christs così come a certa roba infame dell’Iggy Pop degli anni Novanta (American Caesar, se qualcuno ne ricorda ancora l’impatto).

Grazie per aver bussato alla mia porta senza chiedere ne’ dolci ne’ tirare scherzi idioti, Mr. James. E per aver portato la sua chitarra. E averne fatto colare del sangue, sul mio giradischi.

 

                                                                                           Franco “Lys” Dimauro

 

A SHORT APNEA – An Indigo Ballad/Five Greeny Stages (Wallace)

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Coraggio è una parola che non dovrebbe mai mancare dal vocabolario di chi fa musica. E di chi l’ascolta, va da se. Eppure spesso, sfogliando i moderni dizionari del “suonar contemporaneo” la trovate tra le locuzioni arcaiche. Quelle cose un po’ in disuso che sanno tanto di studi classici, ginnasio e sbadigli di fronte all’ennesima divagazione sulle visioni mistiche di Dante.

Ecco, la musica degli ASA è questo che ci chiede, perché è questo che ci regala: coraggio.

Ne sono dimostrazione questi due piccoli flashes live immortalati da Wallace su due dischi dalla confezione analoga, rossa per il primo, verde per l’altro. Due dischi senza mercato (coraggio, dicevamo. Anche la Wallace ne è ricca…) se non si vuole considerare mercato quella schiera di avanguardisti che guarda agli A Short Apnea, giustamente, come i paladini di un certo sentire cosmico. Due istantanee speculari. La prima ricca di elettronica avvolgente e pulsante, che si stende e si rannicchia, si espande e collassa su se stessa, moto ondoso in perpetuo mutamento.

Five Greeny Stages ha invece un tono più anarchico, zorniano, free e si dipana in un quarto d’ora di registrazioni risalenti al medesimo periodo, quello delle foglie morte del 2000, tagliate e ricucite assieme a formare una violenta raffica di visionarietà anarcoide. Coraggiosi, davvero.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

SEID – Among the Monster Flowers Again (Sulatron)

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Non mi aveva colpito allora (2002) e non mi scalfisce ora che viene ristampato in vinile, questo esordio dei norvegesi Seid. A non convincermi è innanzitutto la voce di Bernt Erik Andreassen, totalmente inespressiva e, quando azzarda un po’ di cattiveria in più come succede sulla Fire Song accesa da un bel riff alla Motorpsycho (band con cui all’epoca del disco i Seid dividevano la sala prove, NdLYS) del tutto fuori contesto.

Ma è pure l’arredo sonoro, sgraffignato dalle gallerie psichedeliche dei Pink Floyd, dalla cosmonave degli Hawkwind, dalle turbine Iron Butterfly e dal salone secentesco dei Genesis che non riesce a trasmettere quella giostra di emozioni a cui Among the Monster Flowers Again sembrerebbe ambire.    

Più di una buona idea sembra affiorare in pezzi come Lois Loona, Sleep, The Tale of the King on the Hill ma i campi LYSergici evocati dalla sfruttatissima icona di copertina dispensano una gioia che è artificiosa più che artificiale.

Ricordo una serie di sbalordite recensioni dell’epoca che ne parlavano come di un capolavoro space/prog.

Mi stupii allora e continuo a stupirmi adesso.

E mi chiedo cosa custodiate nelle vostre discoteche.

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

 

BLUR – The Great Escape (Food)

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11 settembre 1995: scosto le tende e sono a Londra. Apro le finestre e lascio uscire la musica di The Great Escape dentro quello che sarà l’ultimo 11 settembre fiero di essere tale, nella mia vita e in quella di moltissimi altri.

Le quindici canzoni del quarto disco dei Blur sono quelle scelte dalla band per l’imminente girone di ritorno contro il Manchester (l’andata si era giocata il 14 agosto con la vittoria schiacciante dei primi sui rivali Oasis) anche se, mentre gli avversari perseverano nel loro sogno beatlesiano, i quattro londinesi continuano a muoversi sotto il cielo dei Madness replicandone le suggestioni molto british e ricalcandone in almeno un caso (Fade Away) gli arrangiamenti, imprigionati e allo stesso tempo desiderosi di fuggire (The Great Escape…) da una formula che non riesce più a contenere le ambizioni di Albarn e compagni. Che cominciano a traboccare copiose da una The Universal in cui la band, in una versione romantica dei drughi kubrickiani, fa visita addirittura a Burt Bacharach, giocando a vedersi adulta. Riuscendoci. È il vertice languido di un album che gioca con fare sbruffone e schizofrenico tra allegria e malinconia, con la consueta giostra di cori da uscita dal college, tastiere dementi, chitarre ruggenti figlie dei Jam e dei Kinks e improvvisi nodi alla gola.

L’album che consegna definitivamente i Blur alla storia della musica contemporanea. E me a loro. 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

LE BAMBINE – Irruzione nel XX Secolo (AUA)

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Se le cose fossero andate diversamente, Vito Ciampa sarebbe da cinque anni la voce di One Dimensional Man, stimatissima ed abilissima noise-blues band veneta figlia della scapigliatura dei Surgery e dei Jesus Lizard. Certo, se le cose fossero andate diversamente anche Hendrix sarebbe adesso un anziano signore avvinghiato alla sua sei corde e Stiv Livraghi il lupo mannaro delle notti lodigiane.

Se le cose fossero andate diversamente.

Ma le cose non sono andate diversamente e Vito ci ha lasciati in una brutta giornata del 1996. Di lui ci rimane il ricordo di una voce profonda e decisa che dominava sull’impetuoso hardcore de Le Bambine prima che questo si sfigurasse nelle esperienze free dell’ultimo periodo poi ulteriormente sviluppate dall’ex batterista Stefano Giust.

Marcata da quel tono drammatico ed istrionico che potremmo riallacciare, fatte le debite differenze, al Demetrio Stratos meno esasperato e al primo sciamanico Piero Pelù, l’ugola di Vito era lo strumento declamatorio che emergeva dallo sconquassato ventre hardpunk di un gruppo che la AUA ci dà ora il dovere di riscoprire stampando questa Irruzione nel XX Secolo, l’inedito disco registrato all’alba dei Novanta e rimasto fino a ieri nel doppiofondo di chissà quale cassetto.

Sette le tracce incluse, tutte dall’assetto parecchio robusto ed impetuoso, memoria di un passato in cui il punk cercava di contaminarsi “tagliando” le originali, elementari intuizioni con altre, talvolta antitetiche, culture. Una scelta che porterà da un lato a risultati dannosissimi (non saprei che nomi fare, tanta è la merda metalpunk che gli anni ci hanno scaraventato addosso, NdLYS), dall’altro a geniali vie di fuga per la sopravvivenza di un genere che (e questo disco è qui ad urlare vendetta) aveva tante, troppe cose da dire.

Franco “Lys” Dimauro

 

DAVID BOWIE – Diamond Dogs (RCA)

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Ziggy Stardust e Aladdin Sane avevano messo in corto circuito la creatività di Mr. Bowie. La ricerca di nuove ispirazioni lo porta a pubblicare un pallido disco di cover degli anni Sessanta per tenere buono il pubblico mentre Bowie cerca nuove fonti di ispirazione. Tra il 1973 e il 1974 tra i libri e i film da cui cerca nutrimento, resta impressionato dal mondo distopico e crudele di 1984 di George Orwell e da Metropolis di Fritz Lang. L’idea nuova, che però cozzerà su una montagna di permessi, diritti ed autorizzazioni troppo alta da sormontare anche per uno venuto da Marte, è quella di realizzare una sorta di musical ispirato a quello che Orwell e Lang dipingono, credibilmente, come il futuro prossimo venturo. I divieti imposti dagli eredi e dal copyright (a scavalcare Bowie per la rilettura del secondo ci penserà Moroder nel 1984 pagando, secondo quanto dichiarato dallo stesso produttore italiano, delle royalties vertiginose) costringono David Bowie ad accantonare il progetto e a ridimensionarne il contenuto, consegnato al suo pubblico di fedelissimi nel 1974 ed inscatolato dentro una copertina inquietante sotto il titolo di Diamond Dogs. Il nuovo personaggio messo in scena da Bowie si chiama Halloween Jack, un cocainomane terminale che vive sui tetti di Manhattan introdotto sul disco da una folla urlante (in realtà il pubblico californiano accorso per l’ultimo tour dei Faces, NdLYS) e braccato dai Cani di Diamante. Assieme al riff topico di Rebel Rebel con Bowie costretto a sopperire alla sei corde di Mick Ronson (però sul disco la sua chitarra è sapientemente doppiata da quella di Alan Parker) è l’unica vera concessione che David/Jack fa al rock ‘n’ roll sfavillante dei dischi precedenti e che, nonostante le si voglia identificare con l’anima del disco, sono quasi del tutto marginali allo spirito dell’album che vuole invece replicare il clima opprimente del libro di Orwell e del suo “controllore” con la voce di Bowie che, mentre esplora la devastazione psicologica di una città spettrale, sperimenta le tonalità più cavernose della sua carriera profetizzando quello che diventerà il registro vocale preferito dalle successive compagini dark e facendosi largo dentro quello che, perseguendo gli obiettivi originali, ha tutta l’aria di un musical decadente e perverso.

Attenti ai Cani di Diamante.

Attenti alle fauci feroci del 1984.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE JAM – All Mod Cons (Polydor)  

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Sul primo vagone del terzo album, i Jam danno l’ultimo saluto al punk che è appena passato. È la breve canzone che dà il titolo al nuovo album. Il disco che segna per il trio londinese lo scarto deciso dalla furia dei primi due album e la virata verso un approccio più mite e ad una scrittura più ponderata, meno “di petto”.

All Mod Cons lascia dunque la corsia del punk e si avvia vigoroso ma anche un po’ malinconico verso lo svincolo dell’età adulta, portando con sé il disgusto dell’adolescenza che è ancora quello ribelle di My Generation degli Who ma è ora, soprattutto, quello amaro di A Well Respected Man dei Kinks.

Weller per la prima volta (succede in English Rose) si apparta anche dal resto della band, alla ricerca di una individualità nuova che è già lontana dal branco mitizzato dai mod, dai rockers, dai punk, fiero di mostrare le proprie ferite e i propri amori (sentimentali e musicali). Ecco così uscire dal salvadanaio i soliti Who e Kinks (omaggiati apertamente su singolo e su album con So Sad About Us e David Watts), ma anche i Beatles (il giro di basso di To Be Someone rubato a Taxman) e gli Small Faces (la coda baluginante di effetti psichedelici di In the Crowd).

Diventare grandi tenendo ancora la mano di papà. Imparando ad inciampare. Rialzandosi.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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