BEBALONCAR – Suicide Lovers (Rubber Soul)

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La musa ispiratrice è, ovviamente, l’attrice jugoslava ricordata in Italia per Ho incontrato un’ombra e per gli sketch con Lando Buzzanca e Gino Bramieri. Chi si immaginasse però una pioggia di colori vintage alla Pizzicato Five, resterà deluso: Bebaloncar è una band impregnata di umori folk anche abbastanza cupi e introversi, quasi sempre adagiati sui suoni felpati di una chitarra acustica cui si innesta un organo retrò ma anche strumenti orchestrali che ne accentuano la drammaticità, ne forgiano il carattere umbratile, schivo che a me ricorda più Douglas Pearce che i Velvet Underground e i Jesus and Mary Chain citati dalla band stessa e quindi, come è abitudine della pigra stampa ufficiale italiana, adottata per creare il framing del prodotto. L’uso del flauto sprigiona semmai qualche paragone con il neo-folk anglosassone dei primi anni ’70, pur senza assorbirne lo spirito progressista ma riadattandolo al livore contemporaneo, creando un disco di grande fascino. Uno shoegaze inaridito, a piedi scalzi, purulento come le ferite che si aprono sulle piante rinsecchite dei nostri piedi.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CRISTINA DONÁ – Tregua (Mescal)

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Un debutto coi fiocchi, quello della trentenne Cristina Donà. Voce folk capace di cantare testi complessi e intelligentissimi con la leggerezza dell’ape e arrangiamenti che si increspano, diventano obliqui o fanno spazio (come nella splendida Senza disturbare) ad una interpretazione sempre misurata ma capace di farsi creta e argilla, modellandosi su ogni canzone come fosse un abito di seta.  

Qualcosa che viaggia fra Robert Wyatt e Jeff Buckley.

Un cuscino di piume in un letto di spine.

Superbamente prodotto da Manuel Agnelli, Tregua è un disco di meraviglie che invece non conosce soluzione di continuità.

Sta lì come un bimbo abbandonato in una cesta mentre fuori incombe la battaglia.

Aspetta di essere raccolto. O abbandonato definitivamente alla sua sorte.

Un disco che ci educa alla bellezza e alla vita, alla lungimiranza che è una disciplina della sopravvivenza. All’abbandono. E alla saggia consapevolezza che non esiste il superuomo, ma solo superdonne. Quantunque rare.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BLACK SNAKE MOAN – Revelation & Vision (Dead Music/Tufo Rock) / MONOS – Jizz (autoproduzione) / LISA BEAT E I BUGIARDI – La decima vittima/Io non esisto più/Sole (Area Pirata)

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Black Snake Moan è un po’ l’Uffe Lorenzen italiano, un musicista impegnato ad attivare le sue mani coordinandole col suo terzo occhio, in un mondo di ciclopi. Revelation e Vision sono, già dal titolo, esplicative di questo approccio, dipanato in due tracce speculari dove un pregevole lavoro di organo onirico si intreccia alle sempre evocative e pregiatissime trame chitarristiche di Marco Contestabile, uno che suona con gli artigli piumati. Senza disperdere il seme in onanismi superflui, Black Snake Moan usa il dono prezioso della sintesi e regala due tracce essenziali, due fazzoletti di pascolo verde dove potrete saziare il vostro unicorno, sempre che nel frattempo non vi siate dati al birdwatching e che non proviate piacere a guardare gli uccelli altrui.      

Non conosco le dinamiche che hanno portato il 7” dei Monos a finire nella mia buca postale ma non posso che essere grato al demone del rock and roll per la sua intercessione, trovando gran diletto nei dodici minuti di esposizione al virus della band fiorentina. Robaccia impastata con tutte i liquidi corporei che potete immaginare. Sei pezzi veloci. Una ravanata alle palle e via l’altra. Con le teste infilate fra le tette, come negli anni gloriosi in cui il sesso era un tabù e che è stata spazzata via da quest’epoca così poco incline al peccaminoso in cui se commenti un bel paio di chiappe ti rinchiudono a Rebibbia.

Atmosfere sicuramente più leggere nel nuovo, secondo singolo dei Bugiardi, alle prese con una cover dei MiniVip, band che tenni a battesimo quasi due decenni fa sulle pagine di un giornaletto italiano ormai datosi a contenuti osceni, e con due originali come Sole e Io non esisto più che battono su quel versante più incline al blue-eyed soul e alla bubblegum del glorioso beat italiano e che sono l’elogio alla spensieratezza capellona cui anche Cochi e Renato pagarono tributo e di cui non ne avremo mai abbastanza.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ENZO CARELLA – Barbara e altri Carella (It)

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La nascita dell’It.pop, quarant’anni prima che venisse chiamato così e mille volte meglio di quello che adesso è stato omologato da Tommaso Paradiso o Franco126.

Un uomo col “cuore fuori moda”, Enzo Carella.

Deriva esistenziale del Battisti più sperimentale, variante alla morfina dell’Alan Sorrenti che invece in quel periodo si perde fra le polveri e i bagordi di Los Angeles e New York, variabile imprevista da insolazione sugli sketch di Venditti (Lupo riannoda il giro armonico de Il telegiornale strangolandolo sulla medesima idea di proto-spot, NdLYS), artificiose acrobazie disco-pop sul “trapezio” di Renato Zero, quelli di Carella sono proto-mostri di languida ed esuberante musica pop “rossa con le mandorle”, intrecciata alle zollette di zucchero intinte nel petrolio di Pasquale Panella. Sono storie d’amore che si prendono in giro da sole, galleggiando nella banalità in cui gli altri affondano, felici di affondare. Tornando addirittura sul luogo del misfatto, con una Malamore che era stato un successo inaspettato due anni prima e che qui su Barbara e altri Carella torna con la sua scorta di cerotti e con la banda adesiva prosciugata e la striscia di garza abrasa.

Mezz’ora essenziale, con numeri di stralunata vertigine pop come Carmé, Sentimenti, Barbara, Foto, Amara e Malamore a separare il fiele dal miele e poi mischiarli di nuovo assieme, facendoci bere l’una e l’altra in un’unica, indistinta colata di succo agrodolce.       

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STRAY CATS – Gonna Ball (Arista)

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Mentre in America non se li fila nessuno se non qualche sparuta comitiva di ragazzi che bruciano ancora dell’entusiasmo sull’onda lunga di Grease, in Inghilterra e in Europa gli Stray Cats diventano delle star raggiungendo col debutto la top ten degli album più venduti in Olanda, Svezia e Inghilterra.

Il seguito a quell’esplosivo esordio e soprattutto la risposta a quel clamoroso successo (il disco viene realizzato solo per i mercati stranieri che hanno accolto la proposta retrò della band senza storcere il naso, NdLYS) è pronto nel giro di pochi mesi pur ottenendo meno successo in virtù di una leggera sterzata verso suoni dall’aria meno ribelle e più oleografici e di una manifesta volontà di dimostrare le affinate capacità tecniche del terzetto, Setzer in primis. La sua maestria negli assoli vorticosi di Crazy Mixed Up Kid, nel felpato rockabilly di Baby Blue Eyes, nel boogie metallico ma fuori luogo di Wicked Whisky, nella slide sudista di You Don’t Believe Me (che fa capolino pure nella bella Little Miss Prissy) o nel trascinante shuffle di Gonna Ball rappresentano la testa d’ariete di un disco che disserta più verso il country-blues, la ballata old-style, il Chuck Berry più stereotipato e il jazz da cool cats. Come a dire che i gatti saltano ovunque. Anche se nel nostro o perlomeno nel mio immaginario ci piacciono più quando saltano sui secchi della spazzatura che non sulle formine della marmellata di nonna.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NEW ORDER – Power, Corruption & Lies (Factory)

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Dopo aver drenato le ultime scorie Joy Division con Movement, i New Order si abbandonano alle frivolezze. L’impatto della musica disco e della electro, di Giorgio Moroder, delle scalette del Danceteria, del Funhouse e del Roxy così come dei mastemix di Shep Pettibone trasmessi da KISS FM si trasforma da subito in nuova via di fuga dalle titubanze espressive del disco d’esordio. E così se la batteria di Age of Consent ha il compito di mitigare lo shock riciclando pari pari il passo di batteria di Love Will Tear Us Apart e ravvivandone il giro di tastiera, spetta soprattutto a The Village, 5 8 6, Your Silent Face, Ultraviolence ed Ecstasy con le loro sincopi elettroniche e le loro macchine sintetiche il compito di farsi ambasciatrici del “nuovo ordine” e della volontà di liberarsi dall’ingombrante passato. Operazione riuscita solo parzialmente visto che quanto in quel periodo funziona, soprattutto in pista, su singolo (Everything’s Gone Green, Temptation), non riesce a forare la troposfera dell’entusiasmo per raggiungere i livelli più alti dell’euforia soltanto intravista quando si tratta di spalmare l’entusiasmo su un prodotto meno immediato lasciandoci con la sensazione di aver colto un frutto ancora acerbo e di una torta che affoga nel maraschino.   

                                                                                Franco “Lys” Dimauro 

THE DEVIL DOGS – The Devil Dogs (Crypt)

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Cinque anni di follia punk, quella dei Devil Dogs, nati come compagine trash-garage come Rat Bastards e finiti alla corte di Billy Childish per farsi produrre un album che invece verrà riscritto, risuonato e ri-prodotto in toto da quelli che nel frattempo hanno scelto di cambiare le sembianze di ratti per abbracciare quelli di cani. E abbaiando per davvero, su Suck the Dog, invito alla fellatio neppure troppo velato che Childish gli lascia in eredità assieme a Pussywhipped e Hosebag. Nel frattempo, la musica ha introdotto elementi di surf vocale come quelli dei vecchi zii Dictators e Ramones spingendosi fino ad urinare sfacciatamente sul sepolcro di Be True to Your School, ha strizzato l’occhio al pop mestruale di Spector, ha inglobato una sorta di attitudine boogaloo non molto lontana da quella dei Raunch Hands ed è però rimasta, ostinatamente, garage e punk muovendosi fra i DMZ (dei quali rifanno Ball Me Out) e i primi Saints, sporcandosi nel fango e uscendone sudicia si, ma con quell’aria di genuina e strafottente innocenza che darà loro l’accesso nel paradiso dei giovani per sempre.

1 2 3 4 5 6 7, all bad dogs go to heaven.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BLACK CROWES – 1972 (Silver Arrow)

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Un tributo ad uno degli anni fondativi del sound dei Black Crowes. Un capriccio da studio mentre impazza il tour celebrativo per i trent’anni di Shake Your Money Maker, che nel frattempo, fra un’ondata pandemica e l’altra, sono diventati trentadue. Costretti dunque a ripiegare in studio ingannando l’attesa per la ripartenza del tour i Black Crowes hanno pensato di rendere omaggio ad alcuni loro eroi di sempre: T. Rex, Temptations, David Bowie, Little Feat e ovviamente, Rolling Stones e Rod Stewart. Insomma, i fratelli Robinson si calano le braghe e cagano nell’orto di casa. O comunque nei paraggi, risultando fra l’altro più efficaci nei momenti più inaspettatamente legate al glam-rock che a quelle più squisitamente roots, soul e southern-rock, pur senza nulla aggiungere a quanto era stato già stato detto, meglio, cinquant’anni fa. Senza neppure avvicinarsi, tanto per dire, alla sporcizia New Orleans che trasudava da Rocks Off degli Stones ma piegandola a un banalotto rock and roll coprofilo e lasciandoci col dubbio che i corvi si siano trasformati in avvoltoi e che nel cambio non ci abbiano guadagnato ne’ loro, ne’ noi.

                                                                                         Franco “Lys” Dimauro 

 

BAD MOJOS – Songs that Make You Wanna DIE! (Voodoo Rhythm)

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Il corrosivo punk dei Bad Mojos ricorda quello eticamente scorretto dei Dwarves e dei gruppi Estrus degli anni Novanta. Veloce e disperato, ma sempre abile a trovare il ritornello azzeccato, il riff paradossalmente memorabile, il senso della struttura (provate, a caso, I Wanna Be Rejected, Weekend Warrior o Cold Blooded Murder) pur dentro una struttura tutt’altro che accogliente e ospitale. Questa attitudine controbilancia l’emorragia ramonesiana delle altre tracce e che rasenta il plagio su I’m a Sinner o la follia alla Germs che si avverte su Beatin’ on the Bars.

Comunque lo si giri, roba marcia come i denti di Rotten. Forse, anche di più.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MOVING TARGETS – Burning in Water (Taang!)

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I Moving Targets furono, a tutti gli effetti, gli Hüsker Dü del Massachusetts. Più di quanto lo fossero, da quelle parti, i Volcano Suns. Una pioggia di melodia dentro una tormenta satura di vento elettrico. Un paragone che è inevitabile, sul loro debutto del 1986, con la pelle che bruciava ancora per gli schiaffoni presi in faccia da un disco come Candy Apple Grey e che si aggiungevano ai precedenti.

Carambole perfette fra basso, chitarra e batteria e un’atmosfera di epica decadenza urbana cantata da Kenny Chambers e dalla seconda voce di Pat Leonard ad avvolgere tutto come un maglione di feltro per ripararsi dal freddo. A volte mediate addirittura da un sax intirizzito da quello stesso freddo, come nel bellissimo finale di Shape of Somethings, prima di tornare al tepore della sua custodia. Canzoni issate a baluardo della nostra fragilità come gargoyles alati, perché il nemico non si avvicini, perché rinunci alla scalata, perché non si accorga che potremmo spezzarci come lastre di vetro, che potremmo bruciare nell’acqua. Ed evaporare.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro