THE WARLOCKS – In Between Sad (Cleopatra)

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Bobby Hecksher decide di metterci la faccia su quello che è il disco più intimo e personale dei suoi Warlocks, dedicato al fratello Robert. Se la copertina lascia presagire un album cantautoriale, va detto che In Between Sad è in realtà un’opera corale dove il dolore personale di Bobby ha modo di venire esorcizzato da un lato spingendo il pedale sull’acceleratore “spaziale” tipico degli Spiritualized, dall’altro infeltrendo in un umorale tappeto che evoca i Cure di Disintegration. Una terza via è quella di una sorta di gelido synth-pop con tanto di evocazioni dei Visage e piccoli pungiglioni elettronici e che è probabilmente lo spicchio (rappresentato da pezzi come Ambien Hotline e Toxic Years) che, per quanto acerbo, è piaciuto di più alla Cleopatra Records che per la quarta volta ha deciso di imprimere il proprio logo su un album della formazione californiana.

L’effetto stordente tipico dei primi dischi dei Warlocks è dunque fortemente stemperato e disinnescato in più punti da un tormento che è più psico-fisico che sonoro ma la forza impattante degli eroi di Los Angeles, adesso disciolta in una temperie interiorizzata, resta ancora affascinante.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CHROME – Alien Soundtracks (Siren)

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Rifletteteci….

Quante foto dei Chrome avete visto in vita vostra?

Una? Forse due?

Magari siete stati davvero avidi e tenaci e ne avete viste tre o quattro.

Ma davvero non di più.

Fate mente locale e fate i vostri calcoli.

I Chrome non avevano un’immagine pubblica ma un immaginario.

Un immaginario fortissimo di identificazione con l’alieno che fa paura, l’ignoto mutante che viaggia di galassia in galassia, il truce viaggiatore del cyberspazio, il dirottatore delle sonde interplanetarie.

Vascelli pirata.

Pattumiere interstellari dove giacciono le scorie di satelliti che non avranno mai nessun porto d’attracco.

L’Universo Parallelo.

Svegliati Neo. Matrix ha te. Segui il coniglio bianco.

Alien Soundtracks, il dissestato album che dopo i tribalismi marocchini di cui è disseminato il disco di debutto apre il varco all’ingresso di Helios Creed sulla nave spaziale di Damon Edge: è la torre di Babele del Sistema Solare.

Suoni sovrapposti, frequenze dissonanti, fruscii, feedback futuribili, lerciume elettrico, fusibili che fondono, sibili di cherosene, lamiere soffocate dal ghiaccio.

The Monitors suona come se l’astronave degli Stooges di Fun House fosse andata ad impattare con quella degli Hawkwind di In Search of Space mentre la filastrocca demenziale di ST37 sembra rimettere in sesto le “macchine” di Lothar and The Hand People, Slip into the Android è una sinfonia dislessica, un tritacarne dove vengono maciullati i corpi del prog-rock e del free-jazz, Chromosome Damage sono i Germs chiusi nella cabina di pilotaggio mentre Darby Crash sputa sul finestrino, All Data Lost è il rumore del vostro hard disk che fonde e va in loop mentre ascoltate Are You Experienced?.

Un groviglio parossistico di psichedelia, progressive, krautrock, motor city sound, space rock, di Grateful Dead e Brian Eno, di Frank Zappa ed MC5, di Faust e Jimi Hendrix, di Destroy All Monsters e Gong.

Un concept album svitato e zappiano sulle avventure di Pharoah Chromium, un alieno abitante del pianeta Grux.

Del resto Helios Creed, hawaiano di nascita e californiano di adozione, è uno che vanta almeno due o tre “incontri ravvicinati” con marziani e venusiani.

Molto più probabilmente li ha solo sognati, e ora brama di dipingerli in musica.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

SPIRITUALIZED – Everything Was Beautiful (Bella Union)

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Alcuni decenni fa Jason Pierce è asceso al cielo.

E, a differenza di quell’altro profeta che vi viene in mente, non è più tornato.

Ci guarda da lassù, intonando i suoi gospel ad un passo da Dio, con i cherubini ingaggiati come sezione fiati a riempire di gioia il suo space-rock “spirituale”.

Da allora, prova ostinatamente a farci lievitare insieme a lui, donandoci l’ebrezza del volo che se non è trascendentale è sicuramente antigravitazionale.

In questo senso, Everything Was Beautiful ha di sbagliato solo il tempo verbale usato per il titolo che avrebbe benissimo potuto essere traslato al presente. Perché qui dentro tutto è bellissimo, anche e forse soprattutto la lunghissima ballata che lo chiude e che annuncia un ritorno a casa che anche stavolta verrà disatteso, una pittoresca ballata folk cui lentamente si aggiungono suoni e colori e che è (facciamo assieme ad Hello, Hi di Ty Segall, via) il primo vero capolavoro di questo 2022, una scheggia di meteorite da custodire come segno del periodico passaggio sui nostri cieli della cometa Spiritualized, la striscia brillante che separa il nostro pianeta collassante dal tappeto fluorescente che fa da tappeto ai piedi di Dio.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

OSEES – Weirdo Heirdo (Castle Face)

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Gli Osees hanno creato la congiunzione perfetta fra kraut-rock e psichedelia, costruendo una musica onirica e spaziale, cinematica e delirante, disturbante e liberatoria. Avanza come un enorme scorpione robotico in marcia verso lo spazio, sollevando le polveri di Stonehenge e fendendo l’aria con enormi lame circolari.

Weirdo Heirdo è una lunga cavalcata cosmica spinta da un motorik crauto che si protrae per un’intera facciata del loro nuovo disco, lasciando all’annichilente dirottamento fuori orbita di Don’t Blow Your Mind degli Spiders e alla dolce e melliflua Tear Ducks che divaga e plana su grandissime distese di tastiere sci-fi il compito di riempire la seconda. Fino a che non posiamo nuovamente i piedi a terra, rimpiangendo già quell’incredibile viaggio fra le polveri stellari.   

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE HEADS – Relaxing with… (Headhunter)

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Verso la metà degli anni Novanta gli Heads di Bristol tornarono a seminare il campo di erbacce abbandonato troppo presto dagli Hypnotics e dagli Spacemen 3, calando il secchio dentro un pozzo artesiano colmo di fango stoogesiano e di avanzi decomposti degli Hawkwind e tirando su questo abbeveratoio immondo fatto di stoner e space-rock che in America vedeva nei primi Monster Magnet i maestri viventi indiscussi. Ne viene fuori una babele di lamiere contorte, un tripudio di distorsioni cataclismiche che raramente cede il passo a qualche riff sfrondato dagli eccessi (Television, Taken Too Much), solo per accanirsi subito dopo con maggior veemenza. Mentre la loro città diventa capitale del suono elettronico e delle contaminazioni delle sue tribù urbane, gli Heads riscoprono la forza dell’elettricità brada dell’epoca analogica, dell’esibizione virile del cock rock e del rumore bianco e innalzano attorno a Bristol un’invalicabile recinzione di cavi elettrici.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

VIBRAVOID – Zeitgeist Generator (Stoned Karma)

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C’è un Vibravoid per ogni anno. Quello di quest’anno si intitola Zeitgeist Generator ed è l’ennesimo satellite irto di spike acidi che orbita ad anni luce dal nostro pianeta, a debita e prudente distanza. In alcuni episodi il nuovo disco della formazione tedesca suona un po’ come una svaporata versione dei Kula Shaker e della Madchester che fondeva la fisicità del groove con l’anima psichedelica del rock retroattivo, mentre le porzioni migliori arrivano quando (come nella superba Dance on Mars) ad avere la meglio è il loro lato cosmic-rock che abborda gli Hawkwind e i cosmonauti teutonici degli anni Settanta. Il tutto viene riportato comunque ad una forma molto digeribile e “pop” che ricorda appunto le meraviglie per molti prodigiose dell’Inghilterra degli smiley gialli cosicché non stupirebbe vedere esplodere The Game sotto le luci dei vari festival alternativi che torneranno ad affollare i parchi in un futuro che immaginiamo radioso almeno quanto quello prospettato dai Vibravoid in verticale sul nostro Pianeta per diffondere nuovamente se non il Verbo, almeno le preposizioni articolate della neo-psichedelia.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LOOP – Heaven’s End (Head)

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Nel 1987 i Loop “isolano” il ronzio delle chitarre dei Jesus and Mary Chain e danno alle stampe Heaven’s End, primo album di una trilogia di assordante feedback-pop. Quello del gruppo di Londra è un sound corazzato, figlio degli Stooges (dei quali riprendono pure il passo greve di We Will Fall nella simbiotica Forever) ma anche del motorik tedesco più sconcio. Il suono è dispnoico e opprimente, poco propenso alla melodia e invece votato ad una sorta di impassibile trance indotta dal rumore.

I Loop non sembrano mostrare pietà, sferzano bordate chitarristiche dall’impatto furioso, fino a farci lacrimare i timpani. Un abissale fragore inghiotte lo shoegaze dentro un buco nero che lo dirotta verso un immane space-rock hawkwindiano.

I viali del paradiso sono cinti da mura invalicabili.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

ANANDA MIDA – Karnak (Go Down)

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Il viaggio stavolta dura appena una ventina di minuti ed è solo un’appendice ai due album sin qui pubblicati dagli Ananda Mida, tanto per leccarsi le orecchie in attesa di Reconciler. Si tratta di tre brani registrati dal vivo ovviamente in epoca pre-COVID di cui due strumentali (una versione senza voce di Anulios più una jam-session con Mario Lalli degli Yawning Man/Fatso Jetson.

Un EP per i fanatici della formazione veneta, che a questo punto dovrebbero essere già un bel po’: anodo e catodo hanno fatto il loro dovere e fatto scoccare una scintilla che si è presto trasformata in una fiamma ben più vigorosa e duratura dei tanti fuochi di paglia che infiammano i cuori per qualche stagione o dei fuochi fatui che vaporizzano sopra gli amabili resti di chi ha già affidato ai vermi la sua dimora terrena. Karnak, pur non esibendo alcuna sorpresa, serve a tenere viva quella fiamma portandoci a casa un po’ del calore delle torrenziali esibizioni live degli Ananda Mida. Musica dai polmoni d’acciaio. E Dio sa quanto questo voglia dire adesso. Respirate…    

Franco “Lys” Dimauro 

MONSTER MAGNET – A Better Dystopia (Napalm)

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Che Dave Wyndorf avvertisse, sempre più forte, il bisogno di scrollare i Monster Magnet dagli stereotipi metallari dentro cui pure avevano rischiato di scivolare, era apparso evidente con le versioni rivedute e corrette di Mastermind e Last Patrol e con la psichedelia pesantissima che cominciava a filtrare dalla giara di Mindf**ker e che ora trabocca letteralmente da A Better Dystopia, interamente pensato come un omaggio allo space-rock, al proto-stoner fino ad autentici deliri psichedelici anni ‘60/’70, con cover di oscurissime perle nere di band come Josefus, Poobah, JD Blackfoot, Jerusalem, Higher Elevation, Morgen, Dust, Pretty Things ma anche un paio di perversi stomp ultraprimitivi per spirito ma recenti per concezione come Solid Gold Hell degli Scientists e Motorcycle dei Table Scraps di cui vi parlai in tempi non sospetti (il numero di visualizzazioni di quel post mi lascia intendere che a pochi sia interessato frugare nella loro vicenda, e chissà che adesso i Monster Magnet non contribuiscano a far crescere se non l’interesse perlomeno la curiosità dei miei lettori, NdLYS) correndo il rischio, altissimo, di perdere una gran fetta di quel pubblico che si era avvicinato alla band nei primi anni Zero grazie a dischi come God Says No e Monolithic Baby!.

Se importa poco a loro, figurarsi a me che posso crogiolarmi fra il torbido riscatto degli alberi spogli di verde ma carichi di canzoni come Death dei Pretty Things, Situation dei Josefus, Be Forewarned dei Macabre e piombare nel vertigo psichedelico di The Diamond Mine degli Higher Elevation, It’s Trash dei Cave Men, Mr. Destroyer dei Poobah o Born to Go degli Hawkwind e mandare a fare in culo questo pianeta, una volta per tutte, con tutti i suoi abitanti, infilandomi in un buco nero che li sgombri dalla mia presenza. Portando con me i Monster Magnet e poco, pochissimo altro.   

                                                                       Franco “Lys” Dimauro

 

BLACK HELIUM – The Wholly Other (Riot Season)                              

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Il mio scaffale di dischi dedicato ai gruppi “black” (non nell’accezione che si soleva dare negli anni ’50 ai cosiddetti race records, sia chiaro) è ormai straboccante di roba. Dai Black Angels ai Black Merda, dai Black Lips ai Black Keys, dai Black Rebel Motorcycle Club ai Black Moses, dai Black Crowes ai Black Mountain, dai Black Grape ai Black Sabbath, dai Black Flag ai Black Widow diciamo che il nero è nel rock, come nella vita, il colore che sta bene a tutti.

Alla lista si aggiungono ora questi Black Helium, in verità giunti al secondo album con questo The Wholly Other che miscela sapientemente Doors e Black Sabbath, space rock, doom e wall of sound psichedelico.

Sei brani dalla durata spesso spropositata, come potete ben immaginare. Come i dieci minuti del letargico mantra di Death Station of the Goddess, sospeso su una sorta di nulla psichedelico per tre quarti di durata prima di schiantarsi su un muro di rumore che la manda a brandelli. Oppure l’altrettanto estesa chiazza d’olio di Pink Bolt, con la nave cosmica degli Hawkwind costretta ad un pit-stop che ne rimetta in sesto i pistoni e ne ricalibri le pulegge. Quando il suono si ricompatta, come su Two Masters o Hippie on a Slab, lo fa attorno a un monolite di fumosa distorsione valvolare che ricorda gli Spacemen 3, gli Heads e i Loop, salvo poi disperderne le polveri nello spazio, aprendo le urne cinerarie di One Way Trip e Teetering on the Edge come degli enormi vasi di Pandora che non riescono più a trattenere i mali del mondo con cui sono stati riempiti per millenni.       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro