THE LIBERTINES – Up the Bracket (Rough Trade)

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Non capita tutti i giorni di vedersi prodotto il proprio disco di debutto da uno come Mick Jones.

E, a dirla con obiettività, non capita a tutti di incrociare una band come i Libertines, con un suono così profondamente british e allo stesso tempo così sfatto, così strafottente, così nervosamente inquieto, così punk pur senza mostrarne le convenzioni ma sfoderando un suono a tratti molto affine a quello altrettanto spettinato degli Strokes, attivato da un’analoga voracità giovanile e da un narcisismo che è elemento basico di una rock ‘n’ roll band che si risolve a volte in un garage rock stilizzato come quello di Horror Show, talaltra in fughe alla Undertones come Up the Bracket o I Get Along o in un rockabilly baldanzoso alla maniera dei Woodentops come quello di Vertigo. Oppure sparando in cielo una stella luminosa come Time for Heroes, epica e decadente meraviglia tutta bagnata di spruzzi Buzzcocks e Slaughter and The Dogs, di sputare una The Boy Looked at Johnny dove sembra di ammirare John Cooper Clarke alla guida di un complesso doo-wop, di farcire Begging con un solo di chitarre dove convergono freakbeat e punk.

Piace, di Up the Bracket, la sua aria maleducata. La sua urgenza. Ma anche, visto che siamo venuti per cantare e non solo a far caciara, l’inesauribile guizzo melodico che fa capolino come l’invitato perfetto che arriva proprio quando pensi la festa alcolica sembra sia ormai al capolinea e ti resti solo da spaccare il mobilio della camera da letto oppure sboccare sulla moquette. E invece decidi di restare ancora.          

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Plundered #1 / #2 (Plundered)

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La Crypt sotto mentite spoglie inaugura la sua nuova collana Plundered mettendo fuori dalla porta due bidoni di frattaglie con dentro i resti dei bagordi dei Mummies.

Pezzi di carne cruda, interiora sanguinolente e rifiuti organici di frat-rock e garage primevo, ossa di rock ‘n’ roll, brandelli di R&B.

All’appello mancano alcune delle portate migliori (A Girl Like You, She Lied, Come On Up, Uncontrollable Urge, Shot Down, Out of Our Tree) delle gozzoviglie seppellite all’epoca dentro i sarcofagi delle mummie, il che ci fa ben sperare per un nuovo volume (il terzo della serie nel frattempo se lo sono “accaparrati” gli Sting-Rays, NdLYS) anche se, come strillano le copertine, si tratta di andare a ripescare più che tra gli originali poi suonati dalla band, di andare a disseppellire le “radici” della loro miscela incendiaria di thrash ‘n’ roll basico. Che è, questo si, missione compiuta e dovuta.

Do the Mummy!  

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

NOMEANSNO – Sex Mad (Psyche Industry)

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La follia isterica ma metronomica dei NoMeansNo fu il vero anello di connessione fra il punk e quello che anni dopo si definirà math-rock, in un insieme ordinato di riff tellurici che piovono dall’alto come i blocchi del Tetris e come quelli si ricompongono in un frastagliato skyline a valle dello schermo. Con il terzetto canadese la barbarie punk trova dunque un suo ordine, ristabilendo una connessione con la rigida disciplina dei King Crimson. Non si tratta infatti di destrutturare il punk ma, al contrario, di una sua ri-strutturazione secondo schemi logici e algebrici analoghi a quelli che i Primus applicheranno al funk-metal.

Il basso rotondo e metallico, protagonista assoluto della seconda parte del disco, sembra un’armatura di cavi elettrici destinata a contenere la rabbia perversa della chitarra e soffocare l’urgenza pirotecnica esibita nei due devastanti pezzi di apertura e che nello strumentale Obsessed e nella successiva scheggia funk-punk di No Fgnuick affronta a viso aperto la sezione ritmica in un serratissimo scontro a fuoco per poi placarsi gradualmente, mutandosi in una sorta di strisciante premonizione fugaziana nei sei minuti di Self Pity ed emergere in chiusura dell’album nello tsunami di Revenge a sigillo di uno dei dischi più intelligenti del punk degli anni Ottanta.

Roses are red

violets are blue

I hung myself

So fuck you.

Franco “Lys” Dimauro 

                                                                       

FLEUR DE LYS – Circles – The Ultimate Fleur de Lys (Acid Jazz)

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La miccia inesplosa della stagione freakbeat inglese. E, assieme ai Creation e agli Eyes, la band più formidabile di quell’effimero e fugace momento musicale che tentò di vestire con gli sgargianti abiti di Carnaby Street la musica nera sviluppando gli aminoacidi della scena mod britannica.

Una sequenza micidiale di singoli diluiti in cinque anni diversamente raccolti a posteriori su raccolte come Reflections, You’ve Got to Earn It e I Can See a Light e ora, di nuovo, su questa uscita definitiva che ruba il titolo al famoso pezzo degli Who scelto come secondo singolo e con un Jimmy Page in gran spolvero alla chitarra nonchè alla bella biografia scritta da Paul Anderson (che è qui chiamato a curare le note di copertina) e Damian Jones più di un decennio fa e pubblicata anche quella dalla Acid Jazz che da anni coltiva, verso la band londinese, un’autentica venerazione ahimè condivisa con pochi altri. Circles si snoda dunque lungo tutto il percorso della band di Keith Guster (i Fleur de Lys furono uno dei rari casi in cui è il batterista ad essere il perno attorno cui hanno ruotato tutti gli altri musicisti e non il viceversa, che è la norma NdLYS), dalle mirabolanti impennate post-beat degli esordi alle divagazioni soul degli ultimi anni, fino alle sortite sotto gli alias Chocolate Frog e Shyster (oltre all’impetuosa e immensa Hold On dei Rupert’s People finita anche nel repertorio di Leighton Koizumi), al singolo finale Two Can Make It Together/The Bitter and the Sweet intestato a Sharon Tandy e alle demo realizzate con quest’ultima (Yeah I Do Love You, Gotta Get Enough Time).

Mancano anche stavolta le tanto discusse (sui forum, più che altrove) sessions con Hendrix su cui girano da anni voci leggendarie che a questo punto non verranno mai confermate del tutto, ma credo che le venticinque portate su piatti d’oro, d’argento e di bronzo basteranno a farci alzare dal tavolo con le pance soddisfatte. Altrimenti, occupate pure la tavola per il secondo turno.

                                                                                      Franco “Lys” Dimauro

ACHILLE LAURO – LAURO (Sony Music)

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Un trap-boy mancato.

Una drag-queen mancata. 

Un glam-hero mancato.

Un Renato Zero mancato.

Un Vasco Rossi mancato.

Achille Lauro è l’occasione mancata del pop italiano. 

Lo si attende, attratti dalle sue multiformi proiezioni, lo si guarda, lo si commenta tra ammirazione e disgusto, lo si attacca, lo si difende, come fosse un’installazione della Biennale. 

Però poi, quando ci di ferma ad ascoltare ciò che il personaggio contiene, ci si ritrova come i bambini quando acchiappano una bolla di sapone. LAURO, il suo nuovo disco, suona già come il Vasco Rossi scoppiato di Cosa succede in città. Un pulviscolo di luoghi comuni sulla generazione X, sul siamo solo noi, sulle stupide canzoni d’amore, sulle ragazzine cresciute troppo in fretta, sulle raccomandazioni disattese in nome di una trasgressione un po’ grottesca e un’esaltazione della vita tossica che era già vecchia negli anni Settanta, figurarsi ora che la vera trasgressione sarebbe liberarsi da tutte queste minchiate da adolescente con troppi soldi in tasca e poca voglia di studiare. La spettacoralizzazione delle banalità, rivestita sul palco da un’espressività a metà fra l’avanspettacolo e le ridondanti pantomime glam anni Settanta, si svuota sul semplice supporto audio mostrandosi come un’implume accozzaglia di altrettanta banalità musicale con una Latte+ che riduce Prince ad un incolore funky alla Kolors o una Barrilete Cosmico che non è altro che un Celentano 2.0, nettamente inferiore alla versione 1.0, come certi aggiornamenti della Windows e che pure, sommata a Pavone, regala i migliori cinque minuti del disco, seppur naufragando nella stessa ovvietà.  

Come certi tappi di sughero, LAURO galleggia nell’acqua senza affondare. Non per abilità ma per un difetto di densità. Eppure si resta lì a guardarli, scambiando l’una cosa per l’altra. 

 

                                                                            Franco “Lys” Dimauro

 

THE VIBRATORS – V2 (Epic)

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Considerati quasi una nota a margine nella storia del punk inglese, i Vibrators furono invece un’accesissima fiamma destinata a bruciare per tantissimi anni come un fuoco sempiterno. Impacchettata ancora calda, era stata, a dispetto dell’età anagrafica dei suoi compoenti, la band più “giovane” a finire nel cartellone dello storico 100 Club Punk Festival accanto ai tre gruppi maggiori del punk britannico e quella freschezza l’avrebbero mantenuta ancora a lungo, diventando loro malgrado i custodi del punk-rock old-school londinese quando i Sex Pistols erano già stati inghiottiti da sè stessi e i Clash e i Damned avevano già abbandonato la causa lasciando il campo alla generazione dello street-punk e dell’Oi!. 

E così il 4 aprile del ’78 approdano all’Old Grey Whistle con il nuovo carico di canzoni che qualche giorno dopo faranno bella mostra di sè su V2, mischiando zucchero (Fall in Love, 24 Hour People, Automatic Lover, Flying Duck Theory) e petrolio (War Zone, Destroy), chewing gum rimasticati (Pure Mania) e ruote dentate (Troops of Tomorrow), Chuck Berry, Ramones, Buzzcocks, power-pop, pub-rock, melodia e linguacce con una tenacia che si sarebbe presto trasformata da “pura mania” a “pura parodia”.    

                             Franco “Lys” Dimauro 

THE NOMADS – Hardware (Amigo)

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Orgogliosi di aver scoperto, con due anni di ritardo, che Peter Case aveva scritto un pezzo assieme a Jeffrey Lee Pierce pensando a loro, i Nomads piazzano Call Off Your Dogs in apertura di quello che, per durata, è il loro primo vero album. Hardware è però, più che la definitiva conferma della band svedese come testa d’ariete del garage-punk scandinavo, un parziale seppur non definitivo allontanamento dalla formula originale. La forbice, già aperta, con chi in quelle latitudini detiene già lo scettro del purismo sixties più filologico (Stomach Mouths, Backdoor Men, Crimson Shadows) si allarga ancora di più.

Da questo momento la musica dei Nomads si muove non in contrasto ad esso, non in perfetta simbiosi, ma in “parallelo”. Offre un’alternativa, una differente ma non meno potente carica emotiva che si schiude inglobando caratteri idealtipici del rock and roll anni Cinquanta, dell’hot-rod music, del proto-punk della prima metà degli anni Settanta e del cow-punk americano. Tutte caratteristiche ben presenti in Hardware ma un po’ appiattite da una produzione stereotipata che mette in risalto in maniera prepotente il drumming appiattendo il suono delle chitarre ad un poco definibile rumore di fondo che finisce per demolire la carica di pezzi come 10086 Sunset Boulevard, Temptation Pays Double o Check Your Backdoor dove l’elemento típico delle chitarre “strisciate” alla Ward Dotson è ben presente e cerca di creare un canale di deflusso tra pennate mutuate invece dal più classico stile punk-rock e proto-metal in cui i Nomads incespicano sovente e che diventeranno uno dei tratti caratteristici del garage rock spurio di band come Lime Spiders ed Exploding White Mice, nelle lontane terre australiane.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro   

SOUL ASYLUM – Say What You Will… (Twin/Tone)

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Medaglia di bronzo della scena punk di Minneapolis, nel 1984 quasi nessuno avrebbe scommesso sul cavallo zoppo dei Soul Asylum. La vendetta sarebbe arrivata, lentamente meditata, solo agli inizi del decennio seguente, con la conquista di radio e classifiche e una nuova pelle che aveva perso tutte le squame di cui era invece ricoperta agli inizi e che sono esposte in bella vista su Say What You Will…, disco fenomenale per l’enormità di generi che vengono lambiti, presi di mira, assaltati e poi dirottati altrove.

L’altrove è ovviamente il cortile di Minneapolis dove il punk è stato demolito e in cui ne sono state accatastate le carcasse e dove i cani randagi della città vanno a ficcare il loro muso bavoso. Da quel mucchio di ferraglia emerge il suono dei Soul Asylum che tuttavia non ne hanno uno, ma mille: il loro disco di debutto è quanto di più fantasioso si può realizzare dopo aver appreso le norme basilari per suonare uno strumento. In questa apparente mancanza di identità sta proprio la grandezza del loro album di debutto, un topo alato che sbatte le sue braccia palmate dappertutto, sbattendo la testa sul soffitto come un pipistrello cieco.

L’impatto di canzoni come Dragging Me Down, Do You Know, Spacehead, di quell’incredibile sputo clashiano di Long Day (il cui combat-reggae infetta anche la buffa Walking e la conclusiva Black and Blue, NdLYS) o dell’hardcore bruciante di Masquerade viene reso ancora più estremo da folgori schizoidi come Voodoo Doll, Happy, Stranger, Religiavision o il rockabilly sferragliante di Money Talks finendo per bruciarci nel braciere olimpico al pari dei più fortunati fratelli che rubarono loro podio e medaglie, in quell’edizione delle olimpiadi punk di Minneapolis che non verranno più dimenticate.        

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STONE TEMPLE PILOTS – Core (Atlantic)  

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Nel 1992 siamo già al riassunto precoce del grunge. E a fare il riassunto ci pensa una band che da Seattle dista più di mille miglia. Si chiamano Stone Temple Pilots ed assemblano il loro disco di debutto mescolando le urine di band come Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains, Green River, Temple of the Dog, My Sister’s Machine, Soundgarden. Forse, anche un po’ di piscio Jane’s Addiction e di escrementi Mind Funk. L’apoteosi del rock americano a cavallo degli ultimi due decenni del ventesimo secolo in un blister che puoi infilare agilmente nell’ano, come consiglia uno dei migliori farmacisti della stagione tal Brendan O’Brien al cui banco da speziale andranno a servirsi da lì a breve i Pearl Jam e i Soundgarden medesimi.

Il disco esce lo stesso giorno di Dirt degli Alice in Chains, ma rispetto a quello vende il doppio. È meno malato, meno perverso, meno doloroso. Il suono degli Stone Temple Pilots è costruito per perforare le casse e penetrare dentro le vene della generazione X con i suoi mille grumi di sangue, fino a provocarne una trombosi. Ma è pur sempre una caricatura maliziosa e furbastra del suono di Seattle, che mostra nel truce rifferama di Sex Type Thing e nell’epico mid-tempo di Plush tutto il suo compiacimento nel masticare e risputare sul pubblico uno stereotipo, approfittando del nostro livello di assuefazione e di dipendenza disperata dai grugniti grunge.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

MARTIN STEPHENSON & THE DAINTEES – Boat to Bolivia (Kitchenware)

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Un debutto pieno di morbidezze quello dei Daintees di Martin Stephenson, sulla scia di Prefab Sprout, Scritti Politti, Commotions, Aztec Camera e in genere di tutta la soft-wave e il blue-eyed soul degli anni Ottanta. Sviluppato in desinenze che affondano anche nel jazz da intrattenimento, nella musica reggae, nel folk di Paul Simon, nel rock and roll di Buddy Holly. Un disco a tratti irritante proprio per questa sua ambizione di legare ingredienti diversi che infatti non legano, lasciando che ogni pezzo abbia una fisionomia a sé stante rispetto alle altre. E così ecco che ad una Running Water che marcia al ritmo dei Blasters si affianca una Piece of the Cake che sembra caduta da Tapestry di Carole King, che il passo felpato alla Gershwin di Coleen o che l’R ‘n B alla Housemartins di Look Down Look Down paiano stridere con il Leonard Cohen nascosto dietro le nuvole di Rain e che la bellezza mozzafiato di una Crocodile Cryer sfuggita dalla manina del McAloon mentre giocava con gli aquiloni sembri fare un po’ a pugni con la sdolcinata Slow Lovin’ in cui sembra di spiare un Boy George in vena di tenerezze o con la Little Red Bottle che si teme ad ogni giro di pentagramma possa trasformarsi in una indigesta canzone meticcia alla Santana.

Martin Stephenson piazza il suo bersaglio lontanissimo, fiducioso nella sua vista e nella sua mira. Poi salta in sella e spara con una mano sola, confidando nella sua grandissima abilità di tiratore.

Colpisce.

E va vicino, vicinissimo al cerchio più piccolo, quello a forma di cuore.

Lo sfiora, ma non lo centra.

Poi soffia sulla canna ancora calda, come nei vecchi film dei cowboy, e va via.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro