THE HELLACOPTERS – Grande Rock (White Jazz)

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Al terzo album gli Hellacopters sono ormai un’istituzione dell’hard-rock europeo. Grande Rock resta fondamentalmente attaccato agli stessi modelli, pur spostando gradualmente lo sguardo verso un suono più stereotipato che tuttavia non riesce ad esplodere con la straripante virulenza nugentiana che pare voglia esprimere “in potenza” (la versione “riveduta e corretta” pubblicata venticinque anni dopo sarà, a confronto, davvero incendiaria, NdLYS) e che resta in qualche modo “imprigionata” fra i solchi. Il tiro del gruppo svedese rimane comunque formidabile, una doccia fredda di chitarre che si ricompatta creando un sostegno tenace, ruvido a linee vocali limitate spesso a poche strofe e sempre pensate per i grandi bagni di folla e l’adrenalina collettiva. Pezzi come The Electric Index Eel, Action de Grâce, The Devil Stole the Beat from the Lord, Move Right Out of Here, 5 Vs. 7 sono classici al primo ascolto, punture d’imenottero che arrossano la pelle, rock che non conosce le redini.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

dEUS – The Ideal Crash (Island)

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A furia di giocare con la porta girevole del loro suono, i dEUS devono essersi chiusi le dita nello stipite. Così eccoli presentarsi all’appuntamento col terzo album con le nocche fasciate.

La follia pirotecnica dei primi album appare completamente dissolta, presentandoci il collettivo belga alle prese con un bellissimo, ma molto più “stereotipato” indie-rock, affine seppur non sovrapponibile a quello di band come Built to Spill, Elbow o Grant Lee Buffalo. Il tappeto su cui Tom Barman stende le sue liriche intrise stavolta più di humour nero che di folli non-sense ha su The Ideal Crash la morbidezza del pelo d’angora e sfoggia una malinconia neoromantica e un cattivo umore da pigiamone felpato che si rivela in canzoni ritmicamente immobili, sontuosamente avvolgenti e dal minutaggio rassicurante (quando le canzoni hanno una stucchevolezza piacevole, come in Put the Freaks Up Front, The Magic Hour, Sister Dew o Everybody’s Weird) oppure esasperante (nei casi opposti, vedi Instant Street, Dream Sequence #1, Magdalena).  

Se trovate erotici gli scaldasonno, i Pisoloni e le trapunte potrebbe essere il vostro disco del secolo. In caso contrario, tornate tranquillamente al bar sottomarino di qualche tempo fa.      

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

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NASHVILLE PUSSY – Let Them Eat Pussy (Amphetamine Reptile)

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La foto di copertina è una esplicita trasposizione fotografica non solo degli show dei Nashville Pussy ma dell’intera loro formula fatta di sesso e rock and roll. L’intuizione di Blaine Cartwright di aggiungere del piccante sul piatto di chilli dei suoi Nine Pound Hammer è vincente e fa della band di Atlanta una delle più grandi attrazioni nei rodei del rock ‘n’ roll a stelle e strisce.

D’altronde si sa chi da anni vince la sfida tra un pelo di fica e una mandria di buoi.

 

E i Nashville Pussy sono entrambe le cose.

Il loro suono tamarro imbevuto nell’alcol motorhediano e sudore da camionista del sud, combinato col degradante sesso da motel sono una formula cui non è facile sottrarsi, se sei posseduto dal demone del r ‘n’ r.

I Nashville eiaculano e squirtano dodici volte mentre mangiano pollo fritto e bevono caffè americano. E poi vanno via lasciando una lunga striscia di umori e di polvere.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HYDROMATICS – Parts Unknown (White Jazz)

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Scott Morgan, Tony Slug, Nicke Andersson, Theo Brouwer con in mano le macchinine a frizione della Sonic’s Rendezvous Band e degli MC5. Che sgommano e fanno fumo davvero, come nei film d’azione. E anche quando non sono automobiline prestate (come in quel capolavoro alla Dark Carnival che è Calling LWA), potete immaginare la polvere che sollevano, quando non addirittura le pietre.

Parts Unknown è un disco di rawk ‘n roll furioso e compatto, dentro cui le energie di ognuno non vengono lesinate e ogni singolo accordo, ogni singolo colpo di tamburo concorre a creare un assordante e corroborante rumore di pattume r ‘n’ r.

A cinquant’anni suonati, Scott Morgan ve le suona davvero e vi sputa in faccia dall’inferno.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NIKKI SUDDEN – Red Brocade (Bang!)

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La Bang! Records ristampa uno dei dischi migliori, se non il migliore, di Nikki Sudden. Nonostante si ostini in fin dei conti a suonare all’infinito la stessa canzone. Red Brocade però ha dalla sua una perfetta calibratura di suoni, cosa rarissima in un disco di Sudden, almeno fino a quel momento. Il che dona qualche pennellata di colore anche ai pezzi più sbiaditi e lo avvicina stilisticamente a quella progenie di cantautori che, nonostante gli siano più o meno coetanei, quando lui seminava l’embrione degli Swell Maps stavano ancora chiedendo una chitarra a mamma e papà, da Steve Wynn ad Howe Gelb, da Dan Stuart a Hugo Race. Nonostante, dunque, non manchino le copie carbone, il disco riesce ad accendersi in vari momenti, pur senza mai bruciare del tutto. Sono canzoni che viaggiano dentro una sorta di bolla atemporale, buone per qualsiasi stagione oppure mai. Comunque fedeli a sé stesse fino al parossismo narcisista che magari nasconde l’incapacità di rinnovare un songwriting che sembra collassare su sé stesso ma che tuttavia mantiene un suo innegabile fascino.

Tie Me Up, uno dei pezzi che si distingue dal tono garbato del resto per il suo “tiro” glam-rock, è ad esempio l’archetipo di quelle canzoni che da lì a breve avrebbero decretato il successo, seppur da one-hit wonders, dei Dandy Warhols. Un pezzone da 20 carati che a Sudden però non porta alcuna fortuna, neppure rivenduto ad un Compro Oro.

Figurarsi il resto.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE GREENHORNES – Gun for You (Each Hit)

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Da Cincinnati con una scorta di carburante trafugato chissà come da qualche vecchia pompa di benzina abbandonata nei lontani anni ’60 da qualche beat convertitosi ad hippie i Greenhornes di Gun for You ci deliziano con un disco pieno di musica sixties che va ben oltre il capriccio dell’ennesima garage-band, ravvivando quel suono che andava a pescare direttamente nel northern-soul e la musica da ballo dell’epoca, shake in primis. La stessa, insomma, da cui traevano ispirazione i primi Creeps, tanto per capirci. Che a loro volta guardavano a quanto fatto due decenni prima da formazioni come Them e Animals o i giovani Stones (My Baby’s Alright sembra un’out-take da December’s Children, NdLYS). In questo eterno gioco di rimandi, il quintetto sfodera un disco coi controbordi, in cui i “lentacci” contano quanto, se non più, dei pezzi più movimentati fra cui svettano Good Times e No More, garage rock imbastarditi dall’R ‘n B e dal soul pronti a catapultarci in un’epoca di grandi sogni di libertà.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RAY DAYTONA & GOOGOOBOMBOS – A Wild Shot of… (Mad Driver)

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Il rock and roll è sempre fuggire dal posto in cui ti trovi per rifugiarti altrove.

Proprio mentre gli anni Novanta stanno per chiudere la loro pesante porta, cinque ragazzi toscani lasciano le loro verdi colline salpando verso un posto indefinito oltre l’iperuranio, inseguendo la scia fosforescente del soprabito di Screaming Lord Sutch. A Wild Shot of… viene registrato tre mesi dopo la sua morte e pubblicato subito dopo dalla benemerita Mad Driver Records, dopo una tripletta di singoli che nel 1998 hanno fatto di Ray Daytona & GooGooBombos il gruppo di culto per eccellenza della scena r ‘n’ r italiana in virtù del mistero che sembra avvolgerli, delle stilosissime copertine e di un suono che sprofonda i piedi nei riverberi della musica dei combo di surf strumentale degli anni Sessanta, nelle piroette antigravitazionali della sci-fi music e nella declinazione punk del garage rock che qualcuno di loro ha già ampiamente collaudato quando nuotava in banco assieme ai lucci che affollavano le acque senesi a metà degli anni Ottanta a cui sono ascrivibili canzonacce maleducate come It’s Too LateJamie LeeX-mas EveTellin’ Lies. A dieci anni di distanza, quei piccoli pesci squamosi sono diventati la più terrificante creatura della Maremma e ora tira fuori la testa dalle acque dell’Ombrone.

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ROWLAND S. HOWARD – Teenage Snuff Film (Reliant)  

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Il 5 novembre del 1997 Epic Soundtracks, batterista dei These Immortal Souls, viene trovato morto nel suo appartamento londinese, stroncato dalla solitudine.

Non morirò di nuovo, avevano detto le anime immortali sul loro ultimo disco, di cinque anni prima. E invece c’erano ricascati.

Quella casa, quella città, Rowland S. Howard l’aveva lasciata due anni prima, tornando a vivere a Melbourne. Lì aveva cercato di riaggiustare la sua vita e la sua band, riuscendoci maldestramente con entrambe.

Alla fine, aveva deciso di realizzare un disco a suo nome, chiamando in studio tre vecchi amici come Brian Hooper, Mick Harvey e Genevieve McGuckin. Un ripiego per nulla accomodante, visto che Teenage Snuff Film è forse il disco più bello della sua discografia e sicuramente uno dei più belli della mia. Un album che si apre con la sordina folk di Dead Radio e che in un crescendo drammatico si chiude nelle apoteosi elettriche di Undone e Sleep Alone, svegliando i fantasmi urlanti di Velvet Underground e Stooges a forza di scudisciate apocalittiche.

Abominio e bellezza convivono in maestose gravures gotiche, come dentro un’incisione di Dorè. Spettri vestiti in abiti eleganti si muovono dentro i corridoi di Breakdown (and Then…), I Burnt Your Clothes, Silver Chain, Exit Everything e nella sorprendente cover di White Wedding di Billy Idol. Ogni passo è carico di un magnetismo assoluto, fatale, irreversibile. Attorno alle spire di tungsteno di Teenage Snuff Film corpi di donne e di uomini cadono dopo essersi bruciati le ali.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LOOSE – “Kiss Your Ass Goodbye!” (Sham Foundation)  

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Tre chitarre, un organo elettrico, un basso, una batteria.

I Loose arrivano così, all’improvviso, dalla provincia marchigiana, ad uno sputo di distanza da quello che gli storici definivano l’ombelico d’Italia e che nell’immaginario contemporaneo equivale invece a ben altro orifizio. Armati come una truppa d’assalto. Armati fino ai denti. Equipaggiati più dei Radio Birdman, più dei New Christs, più dei Celibate Rifles, più degli MC5, più degli Stooges.

All’anagrafe sono Paolo Pietrini, Massimo Contigiani, Maurizio Porcarelli, Gianvincenzo Lombi e i fratelli Gradozzi ma quando poggi la puntina sui tre microsolchi di Be Loose e sui dodici di “Kiss Your Ass Goodbye!”, usciti a distanza ravvicinata tra il 1998 e il 1999, ti sembra di vedere in azione gli avatar di Rob Younger, Deniz Tek, Wayne Kramer, Damien Lovelock, Ron Asheton, Fred Smith, James Williamson, Pip Hoyle.

Un nome e un logo di chiara ascendenza stoogesiana. Che può voler dire un’altra formazione che, come era successo dieci anni prima, si limita a mettere la carta carbone sulle pergamene degli Stooges e a tirare giù qualche scarabocchio.

E invece no.

Canzoni come High Time, Action Breed, Killer Instinct, Circle of Love, Destroyt City, Michigan, All of the Time, Shroud vanno ben oltre l’abile lavoro da amanuensi o il trucco ad effetto da illusionista. Dentro c’è, oltre ad un precipitato di polveri Detroitiane, un deposito di squame fluorescenti tirate via dai barracuda che infestavano il Mar di Tasmania a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

C’è una fortissima dose di amore e una altrettanto micidiale di veleno dentro ogni grammo di musica dei Loose.  

Come ogni dentro ogni nostra cellula.   

                                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

JAMIROQUAI – Synkronized (Sony Soho Square) 

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Una breve melodia discendente di sintetizzatore, poi una chitarra wah wah e un fraseggio di archi che piano piano vengono avvolti da un vortice di basso sempre più insistente e funky. È così che si finisce dentro Synkronized, atto terzo dei Jamiroquai.

L’assalto di Canned Heat è di quelli cui non puoi sfuggire. Una pentola in ebollizione e voi la selvaggina che ci finirà dentro.

E you know this boogie is for real.

Il suono dei Jamiroquai si è ingrassato come un suino e adesso secerne lardo funky e sudori disco come uno Screamadelica per le spiagge di Ibiza, anche se il riff portante di Black Capricorn Day, brano dalla pelle color ebano come quella di Stevie Wonder, è più vicino a quello di Jailbird che a quello di Loaded. È il periodo in cui la band costruisce piccoli “godzilla” mutanti come Planet Home, Supersonic e l’apoteosi di Deeper Underground aggiunta come bonus track in alcune versioni dell’album, testamento inarrivabile della classe di Stuart Zender che verrà licenziato dal gruppo proprio durante le registrazioni di Synkronized, reinciso nuovamente per intero per privarlo di ogni centesimo di rendita sui diritti d’autore. Ma è anche un disco pieno di riempitivi di poco conto come Butterfly, Destitute Illusions, Where Do We Go from Here? e King for a Day, singolo dal sapore barocco e totalmente fuori dalle corde del gruppo.

O, perlomeno, dalle mie.

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro