THE CHESTERFIELD KINGS – Pacco duro, grazie.  

4

La sfavillante epopea del revivalismo beat dei mid-eighties è stata una fase importante della mia vita, una di quelle passioni urticanti che ti passano da parte a parte stravolgendoti i sensi. Qualcosa che ti chiedeva una dedizione totale, un bagno purificatore dentro l’etica/estetica di un decennio troppe volte favoleggiato come beato ma ancora, si intuiva, tutto da scoprire, un crogiolarsi talvolta anche sterile nel disperato tentativo di perpetrare storicamente non solo l’anima di un suono ma di un intero universo arrivando addirittura a forme estreme di escapismo temporale esasperato (Shelley Ganz che si chiude in casa in un isolazionismo disperato, Mike Stax che data ’66 le sue lettere scritte quasi vent’anni dopo…NdLYS).

 

Qualcosa di totalizzante, acritico, estremo, puerile.

Giovanile fino a rasentare il paradosso: la quintessenza del rock ‘n roll. Here Are The Chesterfield Kings rappresentò per me e migliaia di altri coetanei una sorta di fonte battesimale.

Non un disco ma un autentico scrigno.

Un forziere pieno di quelle monete d’oro che i bucanieri deponevano sugli occhi dei defunti prima di spedire le loro anime all’Inferno.

Quattordici denari per ingraziarsi i servigi di Caronte e traghettare gli spiriti delle garage bands dei sixties nel girone dannato in cui i Chesterfields erano costretti a scontare le loro pene.

Era il rifiuto ostinato a diventare adulti.

Here Are è un disco che la storia non l’ha solo fatta, ma se ne è preso cura facendole da custode e loopandola ad uso delle generazioni che ne sconoscevano il sapore, fiutandone appena l’aroma tra i ricordi nebbiosi di un vecchio papà beat.

Un disco di sole covers, peraltro eseguite con l’unico intento di preservare lo spirito che alitava su ognuna di esse senza alterarne il sapore.

Una macchina del tempo a forma di catapulta.

L’esordio dei Chesterfield Kings non si fermava alla riscoperta dell’essenzialità beat già operata dal punk o alla rivalutazione della crudezza espressiva tipica di ogni musica teen che in molti avevano o stavano recuperando. No, Here Are era un disco che andava oltre: i cinque Re di Rochester affondavano gli incisivi in un baule pieno di pepite e le porgevano a noi con lo stesso identico, prezioso luccichio con cui erano state seppellite 15 anni prima.

 

Esasperando il concetto di rigore filologico, Greg Prevost e compagni arrivarono addirittura al punto estremo di risuonare, quando fu possibile, quelle 14 canzoni con gli stessi strumenti con cui erano state incise dagli autori originali.

Una austerità che ha del maniacale.

Feticismo e devozione assoluta verso un suono che da lì a poco avrebbe infettato le menti e i garages di quattro continenti e che avrebbe fertilizzato il terreno per la rivalutazione “creativa” dell’estetica sixties degli anni a venire. Un disco che, in pieno delirio new wave, metteva indietro i propulsori del tempo e rivolgeva non solo gli occhi ma tutti i sensi al passato spingendo alla ricerca un’intera generazione che stava folleggiando alla cieca su quella spontaneità di cui il punk si era fatto portavoce e che tornava ad affievolirsi sotto montagne di synths e a rabbuiarsi dietro l’intellettualismo esistenzialista dei profeti del dark sound.

Sonics, Rogues, Sounds Like Us, Painted Ship, Zakary Thaks, Chocolate Watch Band, Exotics, Shades of Night, Choir, Mourning Reign, Moving Sidewalks, Harbinger Complex e Nightshadows venivano tirati fuori dalla cantine e tornavano a brillare di luce vividissima. Da quel momento, lo si voglia ammettere o meno, qualcosa avrebbe cominciato a prendere un’altra strada.

Quando nel 2007 Greg Prevost mi confessò di odiare Stop! per me fu come trovarmi sotto le travi di casa mentre i sismografi registrano scosse telluriche proprio sotto il mio culo.

Perché lo avevo sempre considerato, e lo considero tuttora, un disco di una bellezza inarrivabile. Un classico dei classici, una macchina in grado di fermare il tempo. Dentro, dopo l’abbuffata di Here Are e dei primi singoli, ci sono le prime canzoni firmate dal gruppo.

Sembrano vecchi master di qualche oscura band del ’66 finiti dentro qualche bidone degli studi della 4th Avenue o della RCA.

I Chesterfield Kings sono cinque bavose appiccicate ai muscoli della musica sixties.

Passano lasciando una schiuma lattiginosa.

E diventano quello che mangiano.

Sono gli Standells, poi i Monkees, quindi i Turtles, i Sonics, i Royal Guardsmen, i Byrds, gli Stones, i Count V, i Moving Sidewalks, i Gonn, i New Colony Six, i Knickerbockers, i Dave Clark Five, infine la Chocolate Watch Band.

Non si limitano a depredare le loro canzoni, come fanno tutti.

I Chesterfield Kings di Stop! SONO quelle band.

Hanno realizzato il sogno di ogni gruppo neo-garage: suonare come si fosse sul palco di una battle of the bands del 1966. Caschetti e zazzeroni spioventi su una folla di teenagers infoiati dal rock ‘n roll. Un sabato sera qualunque della provincia Americana, dopo una puntata dei Three Stooges e un giro di contrabbando con la macchina di papà.

I Kings suonano così, esibendo con orgoglio un’adesione ai canoni stilistici ed estetici che ha del pauroso, reincarnazione legittima dei Rolling Stones sboccati dei mid-sixties, mettendo su un repertorio che è un distillato degli ascolti voraci di Greg Prevost e Andy Babiuk.

Un pezzo come She‘s Got Time ad esempio è un precipitato del suono texano degli Exotics mentre I Cannot Find Her è un matrimonio perfetto tra le chitarre folk dei Grassroots con le armonie vocali dei Monkees, She‘s Alright un tuffo nel suono di Larry and The Blue Notes, il dolce ciondolare di Cry Your Eyes Out nasconde un ponte che porta al castello dei 13th Floor Elevators mentre la veemenza di Say You‘re Mine non può non far pensare ai Beat Merchants, a Cuby + Blizzards o agli Stones teppisti di Get Off of My Cloud.

Le cover, come è tradizione per i cinque di Rochester, sono suonate con una competenza ben oltre la soglia dell’esasperazione fanatica. Stop!, Fight Fire, My Canary Is Yellow e Bad Woman sono sputate alle originali di Burgundi Runn, Golliwogs, Namelosers e Fallen Angels.

Stop! è una folgorante istantanea sul rock ‘n’ roll che fagocita se stesso per rendersi eternamente giovane, il privilegio e il regalo concessoci da cinque ragazzini americani che permisero anche a noi di vivere il sogno degli anni Sessanta, venti anni dopo.

Le beghe legali con la Mirror (probabile motivo del risentimento di Greg nei confronti di Stop! NdLYS) non ne permetteranno un duplicato digitale, rendendolo per sempre prigioniero del suo tempo.

La copertina del disco successivo era però un presagio di sventura.

Se sul disco di debutto, quello che aveva gettato l’ancora nella baia nascosta del punk delle garage band dei sixties, sembrava di vedere la reincarnazione dei Blues Magoos e sul capolavoro successivo uno scatto degli Stones dell’era Brian Jones, sulla copertina di Don’t Open Til Doomsday i Kings sembravano un’anonima band proto-hard degli anni Ottanta, con tanto di fumo dietro le spalle e t-shirt di dubbio gusto. Girata la copertina, ecco spuntare anche il nome di Dee Dee Ramone. Per i puristi della scena garage, uno sputo in faccia.

I Chesterfield Kings non sono gli unici ad avvertire la stretta di una scena che continua a celebrare se stessa fino a diventare grottesca. Miracle Workers, Sick Rose, Fuzztones, Morlocks, Creeps, Untold Fables, Fourgiven stanno analogamente allontanandosi dal concetto teocratico che vuole la musica garage punk completamente impermeabile a quanto musicalmente sperimentato dal 1967 in poi.

Hanno scavato dentro il cimitero beat e ora che iniziano ad avvertire i primi segni di stanchezza, hanno tentato a fatica di alzare la schiena e hanno visto che c’è tanta altra roba da scavare, da tirare fuori. Ci sono i Ramones, c’é il folk rock, ci sono gli MC5, c’è Johnny Thunders. E presto ci saranno anche i New York Dolls, gli Aerosmith, il blues del Delta, Jan & Dean e i Beach Boys. Lo sapevano già.

Solo, presi da quel lavoro di scavafosse, se ne erano dimenticati.

A ricordarglielo sono le centinaia di concerti che diventano sempre più una gara improponibile (ed impari, perché i Re suonano come nessun altro, all’epoca, NdLYS) a chi suonasse le cover più sconosciute o a chi rifacesse meglio The Witch dei Sonics. Ma Greg e Andy non si divertono più, in quell’acqua park dove le vasche non vengono più disinfettate e l’acqua è diventata stagnante.

Ecco che pensano a un disco come questo. Dove l’urgenza del garage punk più immorale e di cui Social End Product dei Blue Stars può essere eletta ad archetipo si accende in spiritate e crepitanti canzoni figlie del suono malato degli Spiders (Someday Girl) o si stempera in un power-rock con chitarre scintillanti (Everywhere), morbide ballate folky (You‘re Gone) e addirittura un angolo acustico come I’ll Be Back Someday. Eppure, malgrado non ci sia adesione agli schemi del suono d’epoca (nessun accenno di maracas o di tastiere vintage, per dirne una), non c’è neppure un totale scollamento dai canoni estetici del sixties sound. Ci sono splendide armonie vocali studiate sui dischi di Mamas and Papas e Monkees ad esempio, due delle fissazioni di Greg di quel periodo e che dal vivo fanno si che California Dreamin’ e Sunny Girlfriend finiscano a un passo da Ramblin’ Rose o Chinese Rocks per una delle scalette più belle del periodo.

Il suono dei Kings si è semplicemente innestato dentro un cubo di Rubik dalle molteplici sequenze. Qualcuno avvertirà questo come un tradimento (salvo poi tornare ad ascoltare i suoi merdosi dischi dei Journey, come dirà in seguito lo stesso Greg Prevost, NdLYS), qualcun altro come un’accozzaglia di canzoni prive di idee brillanti (lo Scaruffi che borbotta dalle sue enciclopedie), qualcuno ne avvertirà invece la vera portata. L’urgenza di una fuga, l’accensione di una nuova miccia, di un nuovo entusiasmo.

Non è forse questa la legge segreta del rock ‘n’ roll? O credete davvero sia vedere i Deep Purple che rifanno Smoke on the Water con la pingue che gli ricopre, molle, mezza cassa della chitarra?

Pubblicato simbolicamente a suggello della prima fase artistica, Night of the Living Eyes raccoglie quelli che furono i primi passi, completamente autoprodotti, del quintetto americano. Sono i primi tre singoli pubblicati per la loro etichetta privata, il secondo dei quali viene ritirato dal mercato dopo una prima tiratura di appena cinquanta copie a causa del suono della dodici corde sulla cover di I Won’t Be There dei Grodes che non convince l’esigentissimo Greg Prevost.

Sono, per molti versi, i Chesterfield Kings migliori. Quelli che affrontano impavidamente la missione per cui sono nati: infilare le mani nel beat-punk degli anni Sessanta e soffiare la polvere da quelle pepite per restituircele intatte nel loro splendore primordiale. I pezzi registrati dal vivo al Peppermint Lounge di New York nel febbraio dell’83 che occupano l’intera seconda facciata non tradiscono quella che è la missione per cui i Kings si sono immolati ad inizio decennio: tutte cover, come era nella primissima tradizione della band di Rochester. Larry and The Blue Notes, Cavaliers, Elite, Chocolate Watch Band, Bad Seeds, Barons, i Golliwogs dei fratelli Fogerty, Merseybeats, passati attraverso il setaccio del più fenomenale juke-box garage punk degli anni Ottanta.

Un carburatore intasato di benzina sixties che spruzza petrolio come fosse una trivella nel deserto sahariano.

I Re. E i loro fossili.

Il parziale allontanamento dal garage sound più canonico annunciato da Don‘t Open Til Doomsday diventa compiuto con la pubblicazione di The Berlin Wall of Sound del 1989, sfacciato tributo allo sleaze rock che grazie al successo planetario dei Guns n’ Roses è tornato in quegli anni prepotentemente alla ribalta.

Greg Prevost e Andy Babiuk assieme ai nuovi Paul Rocco e Brett Reynolds si trovano così a vestire i panni di nuovi New York Dolls e ad affidare il proprio nome a uno stupido stendardo con tanto di sciabole incrociate, scudo araldico e aquila imperiale nella più banale delle iconografie metallare.

Il disco mantiene le promesse della copertina. Rock ‘n roll maschio e stradaiolo prodotto da Richie Scarlet che proprio in quel periodo suona fianco a fianco con Ace Frehley dei KIϟϟ per il suo debutto solista Trouble Walkin’ e che è uno che le chitarre sa come farle colare fuori dalle casse.

Dee Dee Ramone regala anche stavolta un brano ma Come Back Angeline non ha lo stesso tiro di Baby Doll, quanto piuttosto quello della celebre Walkin’ the Dog di Rufus Thomas ma ben si adatta al clima da rodeo metallico di tutto il disco che però, nonostante la pioggia di fuoco di chitarre e la batteria che pesta come non mai e malgrado non sia avaro di belle canzoni (Richard Speck, Who‘s to Blame e Love, Hate, Revenge su tutte), non riesce a reggere il confronto con i tre dischi precedenti. L’omaggio al suono dei New York Dolls (nella versione CD è aggiunta la cover di Pills resa pari pari a quella delle Dolls medesime) e agli Heartbreakers è sincero e, come nella tradizione della band, competente, ma si allinea su uno stereotipo un po’ troppo abusato finendo per rimanere schiacciato dal suo stesso peso.

Che poi io preferisca questo disco a quelli dei vari Dogs D’amour, L. A. Guns, Little Caesar e agli stessi Hanoi Rocks è faccenda del tutto personale.

Ognuno è libero di di scegliersi i propri eroi.

E di liberare Barabba piuttosto che Gesù Cristo.

Nel 1990 i Chesterfield Kings, in piena crisi di identità, si abbeverano alla stessa fontana di “acqua sporca” cui si abbeverarono gli Stones degli esordi.

Come dei buskers metropolitani armati di strumenti acustici, eccoli otto anni dopo Here Are con un nuovo disco di cover versions.

Stavolta si tratta però di sfregare la lampada del blues del delta anticipando di un paio d’anni l’analogo esperimento di Jeffrey Lee Pierce.

Sono le ossa di Robert Johnson, Muddy Waters e Willie Dixon a venire alla luce, nella nuova opera di scavo dei cavalieri di Rochester.

Bruciati un po’ alla volta i ponti col proprio passato i Chesterfield Kings si concedono dunque la libertà di prendere in giro se stessi e i propri fan reinventandosi bluesmen e costruendo un disco anomalo che può suscitare fastidio a chi li vuole ancora immaginare capaci o semplicemente vogliosi di perpetuare all’infinito lo spirito delle teen band perdute degli anni Sessanta oppure esasperare all’inverosimile l’anima glam che è emersa negli ultimi anni.

Drunk on Muddy Water col suo carico di blues sporco coglie dunque tutti di sorpresa, alimentando le antipatie da parte dello zoccolo duro dei vecchi fan ancora refrattari al cambiamento che in questo periodo circondano la band.

Qualcuno beve, qualcuno piscia.

Si chiama il ciclo dell’acqua, anche se nei vostri libri di scuola ve l’hanno disegnato con il mare azzurro e le nuvolette bianche come gli agnellini di Heidi.

Forse il disco preferito da Greg Prevost fra tutti quelli incisi dai Chesterfield Kings è però quello più esplicitamente dedicato agli Stones, omaggiati sin dalla copertina (elaborata su quella originale di Aftermath) e dal titolo (Let’s Go Get Stoned), rivisitati con la solita carta carbone che i Re di Rochester riescono a maneggiare facendo dei ricalchi fedelissimi e citati qui e là anche nei pezzi firmati dalla band (clamorosa la versione tarocca di Simpathy for the Devil nascosta sotto Long a Go, Far Away) o nel trattamento stonesiano (siamo dalle parti di Dead Flowers) riservato al country di Merle Haggard Sing Me Back Home, invitati addirittura a suonarci dentro (ottenendo il cameo di Mick Taylor sulla cover di I’m Not Talkin’ e anche su una versione ad oggi inedita di Can’t Believe It).

Il suono degli Stones post-beat calza a pennello per i Chesterfield Kings infatuati dal glam e dallo street rock’n roll e Greg ed Andy, in questa sorta di parodia, hanno modo di sperimentare strumenti nuovi come il dulcimer, il sitar, il mellotron e nastri a rovescio usati però con grandissima parsimonia e relegati in fondo ad un disco che è invece pieno di striscianti chitarre blues e accordature aperte nella miglior tradizione di Mr. Keef e di boccacce simili a quelle del Jagger arrapato dei primi anni Settanta. Che è sempre un bel sentire. Anche se accentua la sensazione che i Chesterfield Kings, non essendo diventati i Chocolate Watch Band degli anni Ottanta si stiano accontentando di diventare i Rutles degli anni Novanta.

 

La sorpresa più grande per il pubblico dei Chesterfield Kings arriva però tre anni dopo, presentata con un titolo che non lascia adito ad alcun dubbio su dove sia andata a finire la serie di giochi di ruolo cui la band pare prestarsi da un po’: Surfin’ Rampage.

Non il solito tributo “muto” alla musica surf ma un autentico esercizio di stile vocale, strumentale, scenografico alla musica californiana di Beach Boys, Four Freshmen, Jan & Dean. Come è ormai tradizione della band di Rochester, un cortocircuito temporale praticamente perfetto già dalla grafica e dalle foto di copertina, con la band agghindata a dovere dal taglio di capelli fino al tacco degli stivaletti e la tavola da surf sottobraccio come i fratelli Wilson nel ’64, quando il mondo sembrava bello così com’era e non si volevano fare rivoluzioni.

Surfin’ Rampage è dunque un disco-cartolina che, beffando il tempo, potrebbe essere stato spedito più di trent’anni prima da Santa Cruz, Princeton-by-the-sea, Cayucos o Pismo Beach. Nessuna nota fuori posto, nessuna sbavatura, nessuna armonia vocale meno che perfetta. Il gruppo sembra intrappolato nella sua stessa perfezione maniacale, appagato della sua identità di gruppo-replica seriale in grado di poter riprodurre qualsiasi cosa (il garage-punk, lo sleaze rock, i New York Dolls, gli Heartbreakers, gli Stones, il blues, la surf music) con una efficacia ed una dignità pari a quella originale. Manca però il “carattere”, quello che era emerso su dischi come Stop! e Don’t Open Til Tuesday e che è andato via via disperdendosi in operazioni nostalgia di gran prestigio ma su cui è ormai impossibile fantasticare.

Il rientro nel vecchio recinto del Sixties-punk porta in bella vista il titolo dello storico programma televisivo della ABC dove erano di casa i Raiders di Mark Lindsay che scrive assieme ai Re di Chesterfield uno dei tre brani omografi che compongono la scaletta di Where the Action Is! ovvero, Here Are The Chesterfield Kings…again.

A venti anni esatti dalla loro prima entrata in scena dunque i signori di Rochester tornano ad infilare le mani nelle Nuggets dell’epoca d’oro del beat-punk, con classe inalterata ma con risultati comunque meno esplosivi rispetto al debutto. Di certo meno ricchi di fascino.

L’omaggio oleografico dell’esordio si è adesso un po’ ingrigito e Where the Action Is! suona più come un disco di nostalgici che come un rabbioso tributo alla furia delle prime punk songs della storia. E, nonostante la buona scelta della scaletta e l’interpretazione sempre molto fedele alle coordinate originarie, questo nuovo disco dei Chesterfield Kings risulta alla fatta dei conti un po’ ovvio se non per un veloce e banale ripasso di canzoni che, nel frattempo, abbiamo già ascoltato in cento altre versioni fino ad averne a noia (I‘m Not Like Everybody Else, 1-2-5, Little Girl, Sometimes Good Guys Don‘t Wear White, Five Years Ahead of My Time, Ain‘t It Hard, Happening Ten Years Time Ago, ecc).

Poco più che un disco di routine, insomma.

Un album che vende per oro ciò che d’oro è solo placcato.

Nel 2002 Little Steven apre il suo Underground Garage trasformandosi, inaspettatamente, nel nuovo guru del sixties-punk creando nuovo interesse attorno al fenomeno. Quali che siano state le dinamiche non saprei ma Little Steven si ritrova in qualche modo a “battezzare” il disco della rinascita dei Chesterfield Kings. È lui a firmare le visionarie note di copertina e a collaborare fattivamente in almeno un pezzo. E, successivamente, a ristampare il disco per la sua etichetta personale.

L’altro nome prestigioso a partecipare al disco è Jorma Kaukonen, che presta la sua chitarra per un paio di pezzi.

Ma The Mindbending Sounds of The Chesterfield Kings è soprattutto il disco con cui Andy Babiuk e Greg Prevost si riappropriano in toto del loro stile, dopo aver disperso il seme su dischi blues e surf e dopo un modesto album di cover come Where the Action Is!. Non mancano le scopiazzature ma stavolta l’album, interamente firmato dalla band, è un ottimo e ricco vassoio di muffin drogati cucinati negli stessi forni delle pasticcerie di Electric Prunes, We the People, Chocolate Watch Band, Rolling Stones (periodo Between the Buttons), Master’s Apprentices e Seeds.

Tra queste le scariche fluorescenti di Endless CirclesNon-Entity con la sua armonica arrapata, Stems & Flowers scritta con Sky Saxon e arrangiata in perfetto Seeds-sound, Transparent Life (a perfetta metà strada tra gli Electric Prunes e gli Stones di Paint It Black), il beat di impronta Easybeats di I Don’t Understand e Memos from Purgatory figlia del Sebastian F. Sorrow nato trentacinque anni prima sono quelli che fanno la parte del leone in questo disco pieno di chincaglieria d’epoca e di suggestioni psichedeliche. Bentornati a casa.

 

Dopo averci messo le mani e la faccia per The Mindbending Sounds of… ed essere riuscito con un po’ di astuzia ad infilarli nella colonna sonora di una classica commedia natalizia hollywoodiana come Fuga dal Natale, per il nuovo Psychedelic Sunrise Little Steven ci mette stavolta anche i soldi. Quello che sarà destinato ad essere l’ultimo atto dei Chesterfield Kings esce infatti sotto la sua produzione esecutiva e per la sua label. Nonostante il disco mostri una continuità concettuale ed una sorta di affiatamento artistico (la formazione resta invariata rispetto a quella del disco precedente) con Mindbending, il risultato è però una bolla di sapone.

Eccentrica, colorata, iridescente.

Ma pur sempre una bolla.

Tradito da un’ambizione forse un po’ eccessiva (i violini di Inside Looking Out, i forzati inserti pinkfloydiani di Elevation Ride, tanto per dirne di due) e da richiami fin troppo ovvi con il freakbeat che fu. Sparandone uno, sfacciato, proprio in apertura di disco. Proprio per questo forse il disco funziona meglio ascoltato ribaltando la scaletta, visto che come nei piatti malconditi il meglio rimane sul fondo: il garage punk arruffato di Dawn che svisa dalle parti di Fluctuaction, l’Alice Cooper impasticcato di Yesterday’s Sorrows, la ballatona roots Gone che invece tracima dalle parti di I’ll Be Back Someday, rendendo vana la speranza di un ritorno e mantenendo la promessa.

La presentazione del disco, l’11 settembre del 2007, si tinge di veglia funebre per la morte di Doug Meech, il ragazzo biondo dietro le pelli dei Chesterfield Kings Re del garage-punk portato via troppo presto dell’eroina. Live on Stage…If You Want It interamente registrato e filmato nella loro amata Rochester, viene pubblicato per spezzare il silenzio che è sceso sulla band, dichiarata morta un po’ di tempo dopo dallo stesso Greg Prevost e seppellita lì dov’era nata trenta anni prima.

Il trono è vacante

                                 Franco “Lys” Dimauro

 

Group 3.jpg

LILITH AND THE SINNERSAINTS – The Black Lady and The Sinner Saints (Alpha South)  

0

Non puoi disfarti dal peccato se non hai pentimento vero. Lilith, la “Signora Nera” dei Not Moving di Sinnermen torna dunque a circondarsi di peccatori, evoluti dallo stato larvale di uomini a quello di santi. Lilith non si è pentita. Infila la cannuccia nella sua coppa di fiele e assenzio e sugge a piccoli sorsi. Poi mette qualche ciuffo di muschio e tabacco nella pipa ed aspira a grandi boccate e si schiarisce la voce. Quindi si infila nello stagno, lei anatra nera, a tossire veleno in uno specchio d’acqua pieno di oche starnazzanti.

I Sinnersaints che la accompagnano sono un’accolita di gente che pratica il malaffare musicale, l’avanspettacolo decadente dei locali parigini e della Germania nazista, il fango blues che il Mississippi abbandona come pelle secca della muta del suo corpo di serpente quando le sue acque si ritirano, i ratti grigi che si muovevano tra i capannoni industriali di Detroit e le periferie di Londra, l’immorale jazz dai mille sospiri e dalle mille folate di fumo sparse come incenso nelle stanze da letto di mille amanti incestuosi, la musica delle borgate italiane e sudamericane che sono terre di conquista che nessuno vuole conquistare.  

Tutta gente dalle facce legnose che quando sorride lo fa malvolentieri, con l’alito pesante e il ghigno di chi conosce il gusto del peccato.

Tutta gente che conosce così bene il suo strumento da limitarsi a corteggiarlo perché lui tiri fuori la sua anima struggente.  

Si riuniscono come piccoli grumi di sangue attorno a Lilith per realizzare un disco borderline e viscerale come The Black Lady and The Sinner Saints. Pieno di nuvole nere. Di nera speranza. Di nera felicità.  

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE PRIME MOVERS – Matters of Time (Throbbing Lobster)  

0

Una dozzina di pezzi fu quello che i Prime Movers consegnarono alla storia nella loro brevissima carriera, metà dei quali pubblicati su un mini album mixato da Pat DiNizio degli Smithereens e pubblicato giusto a metà degli anni Ottanta per sfruttare la visibilità acquisita con la (Come to) Where It’s At inclusa sul secondo volume delle Battle of the Garages e che dal nulla li aveva di colpo proiettati sullo stesso tavolo da gioco di Fuzztones, Miracle Workers, Plasticland, Vipers e Yard Trauma, band con cui condividevano lo stesso gusto per gli zazzeroni lunghi fin sul naso e una passione passatista per il garage rock degli anni ’60, risolta però dalla band di Boston in maniera meno filologica e più sporca, tanto da ricordare a tratti il suono degli Hüsker Dü (Something Called Time/She’ll Never Know), con le chitarre immersive a distorcere e sfibrare gli arpeggi che in altre epoche furono dei Byrds e dei Love. Un disco che mostrava la band in grande crescita rispetto al poco convincente singolo di esordio, con una compassata e inefficace cover di 1-2-5 degli Haunted che era meglio lasciare in mano ad altri. E che tuttavia ebbe ben poco spazio e ben poco tempo per crescere, tanto da lasciare solo un graffio nella storia delle band dimenticate degli anni Ottanta.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PIAGGIO SOUL COMBINATION and LAKEETRA KNOWLES – Soultimate (Area Pirata)

0

Lakeetra Knowles è la voce nera che ha scaldato di soul l’edizione pandemica dell’X-Factor rumeno, i Piaggio Soul Combination la formazione pisana che, sempre nello stesso periodo, portò il suo bagaglio di eleganti musiche vintage sul palco di Sanremo Rock. Soultimate, il disco che sancisce questa unione, è un altro ricco campionario di musiche imbevute di negritudine e risolte con un’eleganza di tocco e di forme che se da un lato sacrifica la “verginità” dei suoni da cui trae ispirazione dall’altra si fa apprezzare per l’altissimo appeal radiofonico e da dancefloor.

I Piaggio Soul Combination si mostrano capaci di poter aggredire piattaforme e classifiche in virtù di un suono moderno, forse anche fin troppo levigato, modellato su R&B, soul, funky, groove latino, Hammond-beat alla Brian Auger (I Can’t Believe), spezie spectoriane, disco music anni Settanta, un accenno a certo sophisti-pop anni Ottanta in stile Working Week/Swing Out Sister, estratti di beat dolcificato alla Knickerbockers e Merry-Go-Round (The Facts of Life) fino ad un esercizio conclusivo che ricorda il gospel secolarizzato dei Mercy Seat di Gordon Gano. Tutto suonato con una perizia invidiabile, Soultimate rischia di diventare il disco perfetto per l’ultima notte dell’anno, se avete voglia di fare baldoria dentro le mura di casa vostra.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RAY DAYTONA & GOOGOOBOMBOS – A Wild Shot of… (Mad Driver)

0

Il rock and roll è sempre fuggire dal posto in cui ti trovi per rifugiarti altrove.

Proprio mentre gli anni Novanta stanno per chiudere la loro pesante porta, cinque ragazzi toscani lasciano le loro verdi colline salpando verso un posto indefinito oltre l’iperuranio, inseguendo la scia fosforescente del soprabito di Screaming Lord Sutch. A Wild Shot of… viene registrato tre mesi dopo la sua morte e pubblicato subito dopo dalla benemerita Mad Driver Records, dopo una tripletta di singoli che nel 1998 hanno fatto di Ray Daytona & GooGooBombos il gruppo di culto per eccellenza della scena r ‘n’ r italiana in virtù del mistero che sembra avvolgerli, delle stilosissime copertine e di un suono che sprofonda i piedi nei riverberi della musica dei combo di surf strumentale degli anni Sessanta, nelle piroette antigravitazionali della sci-fi music e nella declinazione punk del garage rock che qualcuno di loro ha già ampiamente collaudato quando nuotava in banco assieme ai lucci che affollavano le acque senesi a metà degli anni Ottanta a cui sono ascrivibili canzonacce maleducate come It’s Too LateJamie LeeX-mas EveTellin’ Lies. A dieci anni di distanza, quei piccoli pesci squamosi sono diventati la più terrificante creatura della Maremma e ora tira fuori la testa dalle acque dell’Ombrone.

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RADIOHEAD – Come elefanti tra i cristalli

0

Non solo col senno del poi, un debutto ordinario.

Pablo Honey cerca di coniugare la Gran Bretagna e l’America, gli Smiths e i Nirvana, lo shoegaze e il grunge, gli U2 e i Pixies, gli Hollies e i Dinosaur Jr in maniera tutto sommato abbastanza scontata e sovrapponendo gli uni agli altri nel tentativo di tirare su un identikit abbastanza fedele ma anche abbastanza anonimo di una band che non ha ancora alcuna personalità, riscattata tuttavia dalla popolarità di una brutta rilettura di The Air that I Breathe di cui i trentenni non si ricordano più e che, in virtù delle sue parole di autocommiserazione e dell’ingresso seghettato e inclusivo del riff portante diventerà una sorta di inno generazionale al pari di quelli dei Nirvana. L’uso del crescendo chitarristico e del trucco abusato ma sempre efficace della successione repentina fra sonnolenza e veglia simulate dall’alternanza tra riff robusti e arpeggi pacati sono il marchio di fabbrica dei primi Radiohead, con la chitarra a spadroneggiare assoluta, in un vizio formale di emulazione che è peccato di gioventù perdonabile come le telefonate anonime. Quelle che iniziano per Pablo, honey….

 

Prendendo le distanze dal ruolo di teen-band, i Radiohead attenuano il gioco dei contrasti dinamici del debutto per acquistare carattere, solennità e drammaticità con The Bends, acquistando la consapevolezza del loro corpo e della propria fisicità e cercando di bluffare sull’altezza ma complessivamente tirando fuori un secondo album coi fiocchi, fatte salve quelle paludi di tormentata pedanteria che saranno sempre fra i tratti distintivi del gruppo inglese. Il timbro nasale di Yorke, simile a quello di un convalescente da intervento alle adenoidi non fa che accentuarne i tratti portandoli ai limiti del patetico (poi scavalcato dai Muse). Ma quella di Yorke è un’apatia funzionale alla chimica del gruppo, all’impronta emotiva che i cinque vogliono lasciare sul campo del brit-pop mutilandolo della gioia e della riottosa immagine da hooligan per portarlo su territori non molto dissimili da quelli dell’emo-core americano.

Dalla chirurgia estetica alla medicina interna, insomma. La musica dei Radiohead si fa endoscopica, si allunga e si espande. Si muove alla ricerca di qualcosa che sta sotto la superficie. Esagerando un po’ con l’anestetico, forse. Però The Bends resta il fungo sotto cui gli storpi elfi d’Albione si muovono al ritmo di Planet Telex, The Bends, Just (che stiracchia il riff già “allungato di Shot by Both Sides dei Magazine, NdLYS), My Iron Lung, Black Star o la svenevole sinfonia di (Nice Dream). Che è quel che basta, per il momento. Solo che è un momento ancora abbastanza piccolo. 


Dopo due dischi banalotti come Pablo Honey e The Bends i Radiohead cominciano ad averne le palle piene di essere una band comune. E pure noi.


Scongiurato il rischio, sfiorato con The Creep, di diventare l’ennesima one-hit wonder, odiano l’idea che qualcuno, dopo cinque/sei anni possa dire “i Radio… chi?”. Cominciano ad essere una band con delle ambizioni.


Come i Beach Boys e i Beatles. Guarda caso due dei modelli cui si ispirano, soprattutto concettualmente, per la realizzazione del loro primo capolavoro, un disco che dopo l’orgia di Blur, Oasis e Mansun (“i Man… chi???”, NdLYS) sposta verticalmente il fenomeno del brit-pop affrancandosi dai modelli stereotipati del solenne suono britannico così come dalle unghiate grunge assorbite in heavy rotation della programmazione BBC dei primi anni Novanta.


OK Computer guarda oltre, verso una forma di musica complessa ed ambiziosa, lontana dalle trappole delle charts e costruita attorno al piagnisteo di Thom Yorke, capace di sprofondare in malinconie smisurate come quelle di Exit Music e di cavalcare lunghissime vocali come quelle di The Tourist.


Il suono dei Radiohead si avvolge lentamente di silicio e si intreccia con influenze kraute figlie della matematica tedesca dei Can e dell’elettronica epica degli U2 di Achtung Baby (Subterranean Homesick Alien, Lucky, Climbing Up the Walls che ha pure evidenti analogie melodiche e climatiche con i Cure del doppio Kiss Me Kiss Me Kiss Me anche se nessuno pare averle mai colte, NdLYS) e scopre di avere sempre maggior bisogno di spazio per muoversi, anche a costo di diventare indigesto ai discografici (la Parlophone lo giudicherà dapprima un suicidio commerciale), alle top ten (nessun pezzo rientra nei tre minuti previsti dal canone della pop song perfetta), ad MTV (che si rifiuterà di passare il cartoon di oltre sei minuti realizzato per Paranoid Android) e al pubblico (circuito dal giro beatlesiano dell’estratto Karma Police e indotto con l’inganno a scoprire delizie come Airbag, No Surprises o Let Down) che lo premierà con un prepotente ingresso al primo posto in classifica.


Dopo OK Computer i Radiohead si staccano da terra lasciando al suolo la loro vecchia pelle, diventando gli alieni paranoici del nuovo secolo.


It‘s the end of the Head as we know it (and I feel fine).


All’alba del nuovo millennio la musica dei Radiohead si polverizza.


C’è qualcosa di intimamente mistico dietro la genesi del Ragazzo A, qualcosa che ha a che fare con i gradini buddisti della saggezza e della rinascita, strettamente legato al concetto del samsara orientale.


All’indomani di Ok Computer i Radiohead si guardano allo specchio e non si piacciono. In particolare Thom, come sempre. Al disgusto per se stesso si è adesso aggiunto il disgusto per la musica pop.


Il rinnovamento stilistico passa ancora una volta attraverso il dolore.


Al rigetto per quanto si è creato si sposa la scoperta di nuovi mondi artistici paralleli. Più spaziosi ma ugualmente claustrofobici.


Immensi cieli privi di ossigeno.


Aphex Twin, Talking Heads (ancora una volta), Autechre, la Warp, la Mo’ Wax, Mingus, i Faust, Coltrane, Merzbow sono i nomi che girano attorno alla sagoma evanescente di Yorke e dei suoi amici, adesso.


È l’esosfera rarefatta della musica sintetica ad avvolgere adesso il pianeta Radiohead. Freddo ed inospitale, come si mostra dalla copertina del disco.


I nomi dei musicisti scompaiono. Svaniscono i loro strumenti.


Ad ognuno viene impedito di suonare come suonava prima.


Programmazione e sampling sono le parole chiave per entrare adesso nella musica dei Radiohead. Le chitarre sono messe al rogo, probabilmente date in pasto a quei vulcani che vomitano vapore caldo sulla copertina.


Nessun suono terreno abita su queste guglie di cristallo fatta eccezione per il National Anthem suonato con l’Orchestra di St. John e dove gli Psychedelic Furs di Don’t Be a Girl vengono maciullati dentro il mortaio dei Morphine. 

Il free-jazz è dunque l’unica cosa a salvarsi dallo schianto galattico. Charles Mingus uomo destinato a calpestare per ultimo il Pianeta Terra.


Tutto il resto è destinato a “scomparire definitivamente”, a scivolare nel ghiaccio.


Come i fans del gruppo al primo ascolto del nuovo disco: un universo di pinguini che scivolano sul ghiaccio, dopo un’attesa spasmodica pilotata ad hoc dal reparto strategico della EMI e che si ritrovano ora tra le mani questo disco, questa copertina così avara di parole (solo chi avrà veramente fiuto riuscirà a scovare un secondo libretto pieno zeppo di scritte nascosto sotto il supporto del disco, NdLYS).


Un disco che, i più avventurosi scopriranno, può generare altri dischi. Basta averne in casa un paio di copie e riuscire a farle suonare alla giusta distanza uno dall’altro.


Non è impresa semplice. Come non lo è stato per chi lo ha creato.


Kid A è il primo manufatto alieno a ficcarsi nelle classifiche degli esseri umani.


Molto più verosimilmente è il tentativo coraggioso di cinque ragazzi di Oxford che sono andati oltre ogni loro ambizione lanciando la loro musica oltre i confini conosciuti, avventurandosi nel nulla assoluto come giovani argonauti dell’ignoto, abbattendo il muro che separa i musicisti di successo dai musicisti coraggiosi.


Ciao, ragazzo A, ci vedremo nella prossima vita.

 


Un rumore di pentolame ci introduce ad Amnesiac, il disco che ci conferma che il Ragazzino A è cresciuto e ha messo il primo dentino. Soffre di claustrofobia e di osteogenesi imperfetta ma è comunque in grado di camminare, nonostante le sue ossa di vetro e il suo sguardo sghembo.


È, anche, un bambino prodigio.


A soli otto mesi sa giocare a Tetris fino al livello 10 e risolvere il cubo di Rubik. Sa infilare la testa nella boccia dei pesci rossi e stare lì in apnea per più di quaranta minuti. Ingerisce liofilizzati mischiati a scaglie di vetro e ha più fame d’amore che di proteine. Per questo disegna piccoli diavoli che piangono. Gioca con oggetti appuntiti. Lame di coltelli, scaglie di porcellana, latte arrugginite, rasoi, punte di forbici, schegge di legno.


A volte anche con le punte delle stelle.


Di notte, se ti appoggi con l’orecchio all’uscio della sua camera, puoi sentire un fruscio d’ali. Come se provasse a volare. E magari vola veramente.


Sembra precipitato dall’asteroide B-612, quel posto magico da cui puoi vedere il tramonto quarantatre volte nello stesso giorno.


Come il suo protagonista, Amnesiac è disco altrettanto prodigioso, un palazzo della musica progettato da Renzo Piano dove l’ordinario precipita dentro un imbuto di vetro e lega di zirconio, una moderna architettura gotica dove sotto ogni guglia si apre un abisso. Zoom in avanti-carrellata indietro, come un vertigo hitchcockiano.


Dentro le sue mura di cristallo, un minotauro cerca la strada per uscire da quel dedalo di corridoi concentrici. E piange, mentre fuori precipitano le stelle.

 


2+2=5, come nell’Oceania immaginaria di Orwell. Che a ben vedere è molto simile alla Pacific Coast di Stanley Donwood della copertina di Hail to the Thief dove le necessità e i bisogni superflui sono mescolati e riordinati a mo’ di cartelloni pubblicitari, arma persuasiva con cui la mente può essere dominata.


Al pari modo, la musica dei Radiohead è diventata anestetizzante, inzuppata nel cloroformio che confonde i colori fino ad annientarli, costringendoli ad un arcobaleno da ammirare a palpebre chiuse, in una vendetta che Thom rimugina forse da troppo tempo.


Progettualmente non siamo distanti da quanto fatto dagli U2 di Zooropa, ma in una versione altamente introversa e androgina, privata di tutta la spettacolarità mascolina del gruppo di Bono.


Dissimile ma speculare a quello, Hail to the Thief conferma la propensione della band di Thom Yorke a sminuzzare il rock, a farne un pasto macrobiotico, a muoversi con la viscida e molle ondulazione di un baco da seta.


Se però l’atto coraggioso di sbranare se stessi un po’ per volta aveva retto fino ad Amnesiac, l’oceano cibernetico di Hail to the Thief riserva invece grandi sacche di noia, finendo spesso per suonare come una versione supponente dei Tortoise. Si finge attenzione ossequiosa mentre Yorke salmodia le sue cantilene ma alla fine ci si scaccola un po’ il naso, non appena la blefaroptosi lo costringe ad abbassare le palpebre fallendo il tentativo di guardarci negli occhi per rubarci l’anima.

 


Chiusi nella loro piramide di vetro e acciaio per troppo tempo, ai Radiohead viene voglia di farsi invadere dalle erbacce. Una di queste, un rampicante dalle spine di rovo, si intitola Bodysnatchers e i Radiohead la “regalano” al loro pubblico assieme ad altre nove tracce pubblicate in rete ad offerta libera. E si sa che quando l’offerta è libera si tende sempre a prendere più di quello che si è disposti a dare. In Rainbows troverà infine una sua dimora “fisica” ma quella sua prima fioritura in cui i bit si sostituiscono ai beat e che mette l’ascoltatore davanti alla scelta di dover decidere un prezzo alla loro musica assume un senso che trascende da quello meramente musicale per azzardare una sorta di socialismo artistico e di utenza consapevole che in effetti meriterebbe di essere analizzato con maggiore attenzione. Il crollo del disco-feticcio e il trionfo dell’universo liquido sulla solidità atavica della società precedente è una delle chiavi per penetrare nel secolo che si appressa.


A dispetto di tutto questo, la musica dei Radiohead acquista invece una sua concretezza, una rinnovata voglia di affrontare lo spartito e di ritrovare il piacere epidermico del contatto con gli strumenti (pianoforte, batteria, chitarre) pur senza essere immediata e scontata e lasciandosi impollinare dall’elettronica sfruttandola in maniera funzionale come principio di disturbo (sfasamenti e allitterazione dei pattern ritmici, ronzii e graffi di rumore, rifrazioni traslucide e a nido d’ape delle partiture, effetti ottici) e non come elemento portante e strutturale.


La musica dei Radiohead di In Rainbows si fa squamosa, iridescente. Riscommette su se stessa e sul suo pubblico e insinua dubbi sul suo valore e sulla nostra capacità di darle un prezzo.

 


La cosa eccezionale è stata riuscire a correre più veloce di quanti li seguivano: fan, musicisti e recensori.


Accelerare proprio quando tutti sembrano felici di stare al tuo fianco, in cima al mondo. Diventare prima inafferrabili, poi alieni.


Dalla terra tutti aspettano i segnali della loro astronave.


Aspettano nuove canzoni che nessun terrestre potrà mai cantare.


E stavolta ne arrivano otto, che piovono dapprima in download e poi si fissano come gocce di vernice su tele e fogli di carta, in una delle più belle confezioni con cui sia mai stato impacchettato un disco.


Otto brani immersi in questa placenta amniotica che è diventata la musica del quintetto inglese, un generatore di Van De Graaff perennemente attraversato da piccole scosse elettriche, in un alienante laboratorio musicale dove sussulti ritmici (i pattern dubstep di Bloom, l’ossessiva scansione di Morning Mr. Magpie, lo scrosciare ossessivo di Feral) e glaciali paesaggi lunari (il pianoforte smarrito di Codex, la chitarra e le voci sospese di Give Up the Ghost) disegnano architetture marziane e disturbanti mentre Thom Yorke continua a scannerizzare il dolore, con quel suo tono indisponente e piatto.


The King of Limbs ci concede l’incanto di Little by Little che è forse quanto di più vicino ad una canzone i Radiohead abbiano scritto da quando hanno deciso di lasciare la terra e di una Lotus Flower che è il prototipo di una canzone soul scritta su Alpha Centauri, a 4,36 anni luce da noi e la consueta soffocante maglia di fibre ottiche che avvolge la musica dei Radiohead dai tempi di Kid A.

 


Discograficamente un anno decisamente impegnativo il 2016. Un calendario perpetuo di esordi e rientri in scena che non conosce soste. Quello dei Radiohead (preceduto da una temporanea sparizione dalle piattaforme social che ha generato una cascata di reazioni a catena, ad indicare che molti, moltissimi occhi erano puntati su di loro) occupa la casella dell’8 Maggio, anche se il disco sarà disponibile solo all’inizio dell’estate, dando fisicità a ciò che è invece divenuto sempre più impalpabile e cangiante. Tanto da lasciar supporre con buoni margini di precisione che a quella data, le canzoni di A Moon Shaped Pool saranno già diventate altro, cosa che è già da quando la band le ha presentate per la prima volta su un palco.


Più di cinque anni di attesa dunque, dal precedente The King of Limbs. Ben tre lustri da quando hanno lasciato la terra e si sono messi tra noi e le nuvole a far piovere.


Ora, raccolgono molta di quella pioggia in questa piscina. E ci chiedono di bere.


Dentro queste acque lunari si muovono undici pesci dal corpo vitreo e dardeggiante.


Undici canzoni bellissime dove ricami acustici che sembrano evocare Skip Spence, Nick Drake, João Gilberto, Motorpsycho e Zeppelin, crepitii e sbuffi elettronici, bassi plumbei, boccioli di pianoforte fioriti sotto una primavera lunare e la solennità triste degli archi vanno a conciliarsi col piagnisteo di Thom Yorke creando maestose e prismatiche cattedrali moderne come Ful StopThe NumbersPresent TenseDecks Dark e Desert Island Disk.

 


Un acquario pieno di meduse e coralli dove si può decidere di tuffarsi ad affogare.


Con in testa non una ma un buon paio di cuffie.


E i vecchi amici lì fuori, a battere sul vetro credendo tu stia bluffando, come sempre.

 


Ho sempre avuto l’impressione che trascorrere una giornata insieme a Thom Yorke debba essere più noioso di un weekend in mia compagnia.


Oggi, ne ho la conferma.


Pur sapendo che sarebbe stata un’operazione destabilizzante ho deciso di sobbarcarmi le famose diciotto ore di registrazione sottratte dagli hackers che, avuta contezza dell’inutilità hanno pensato di ridarle indietro alla band in cambio di un riscatto. Per non cedere al ricatto, la band ha deciso di rilasciare dunque una copia del maltolto in streaming gratuito e chiedendo a chi volesse scaricarlo, di pagare un piccolo obolo da dare in beneficienza per cercare di salvare un pianeta che sarà impossibile da salvare senza applicare le leggi libertarie di Bakunin e quelle socialiste di Marx e lasciando a pascolo libero i maiali della produzione industriale. Dunque anche il lodevole scopo con cui i Radiohead mascherano quest’operazione (qualora venisse garantito il versamento ad Extinction Rebellion) non basta a salvarci e i TG potranno continuare, tra uno spot e l’altro imposto a suon di moneta sonante dagli industriali che stanno divorando questa palla sospesa nel nulla come fanno i bachi con la mela, a tempestarci di pipponi sull’inquinamento inarrestabile.


Di certo sistemare fuori dalla porta diciotto pattumiere stipate di immondizia, neppure ben differenziata, non aiuterà ne’ il pianeta ne’ i suoi abitanti. Diciotto ore di provini, abbozzi, takes di cui sentivano la mancanza solo i feticisti che ai propri idoli leccherebbero anche le suole delle scarpe e che spesso dimenticano che dietro un grande album non ci sono solo grandi canzoni ma anche grandi “progetti” che prevedono scremature, perfezionamenti, trovate brillanti (spesso dovute ad interventi esterni), strategie di produzione e di elaborazione del suono, investimenti economici.


Ecco perché OK Computer, per il quale una parte di questo materiale venne poi usato, è un grande album e questi Minidiscs una roba che, anche a piccole razioni, produce irritazione per sfregamento. E non di mani.

Franco “Lys” Dimauro

unnamed (1)

 

BOB DYLAN – Christmas in the Heart (Columbia)  

0

La sorte del nuovo disco di Dylan dipende da quanto siete disposti a perdonare a Dylan medesimo. Dylan il colosso affida dunque a voi, a noi piccoli Davide il destino di un suo disco. Un album di canzoni di Natale, con tutti i campanellini lucidati per l’occasione, i coretti dei cherubini ma anche le languide chitarre finto-messicane e finto-hawaiane che hanno già fatto la loro comparsata sui dischi più recenti di Dylan.

Il disco più antirivoluzionario di Bob Dylan. Perché cosa c’è di più antirivoluzionario del Natale?

Il miglior (o il peggiore) modo di ammazzare se stesso. Non l’unico, ché Dylan ne ha provato e ne proverà ancora degli altri. Ma questo di Christmas in the Heart è il suicidio perfetto. Sarete dunque voi a decidere se perdonare un suicida o meno.

Ecco dunque un Dylan dalla voce sempre più pericolosamente vicina al timbro ubriaco di Tom Waits alle prese con Adeste Fideles, Have Yourself a Merry Little Christmas, Silver Bells, The First Noel, The Christmas Song, I’ll Be Home for Christmas. Eccolo vestito da Babbo Natale anzi da cosacco infilare le mani nella saccoccia e portare un po’ di soldi ai bambini bisognosi. Come aveva fatto per il Band Aid, come ha fatto negli anni senza clamori anche quando cantava versi incancreniti nell’odio, come fa adesso a bordo di una slitta che corre all’indietro, prima ancora che il rock ‘n’ roll e il folk aprissero le loro cataratte.

Riuscite a perdonarlo, dunque?

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

AA. VV. – Modernity (Kent)

0

La passione dei formichieri della scena mod o di quel che ne rimane per le oscurità sepolte non conosce posa.

Ecco allora Dean Rudland e Ady Croasdell, entrambi accaniti collezionisti di rarità soul/R ’n B, mettere in piedi questa raccolta di inedite o rarissime pepite della black-music degli anni Sessanta. Tutta roba effervescente come da tradizione mod che cercava nella musica ciò che cercavano nelle pasticche e nella vita sfrenata, dal proto-funk di I Found a Little Girl di Eddie Bo al beat condito di spezie esotiche delle Fashionettes, un autentico viaggio sui carboni ardenti del Blackpool o del Wigan Casino, lungo una galleria scavata nella roccia del soul.   

                                                                                         Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – WarfRat Tales (Unabridged) (Avebury)  

0

Erano i primissimi anni Ottanta e le band venivano fuori dalle fogne di Los Angeles proprio come topi. E “proprio quando pensavi di averle sentite tutte”, ne venivano fuori sempre delle altre. Gary Stewart, all’epoca manager dei Last, ne raccoglie “altre nove” e le mette su disco nel 1983: si tratta dei “suoi” Last, dei Wednesday Week, dei Leaving Trains, i Rain Parade, i Point, i Question?, Hector and The Clockwatchers, gli Earwigs, gli 100 Flowers. Pochi di loro sono riusciti a finire nei libri di storia, ma in quel periodo gli occhi puntati sulla scena californiana sono, a ragione, tantissimi. È proprio lì, dopo una non meno importante deflagrazione della scena punk, che si riscrive gran parte del “nuovo” rock americano. Paisley, cow-punk, roots rock, garage e neopsichedelia sbocciano tra il Pacifico e la Sierra Nevada.

Questa inattesa ristampa che viene pubblicata a più di vent’anni di distanza raddoppia la durata di quella scaletta e aggiunge altre quattro band al suo carnet iniziale: Gun Club, Urinals, Up & Out, To Damascus.

Quello che allora era un manifesto, oggi ovviamente assume il connotato di documento storico.

La storia da scrivere contro la storia già scritta.

Il sogno da realizzare diventato sogno dissipato.

Però vedere ancora i nomi di gente come Jeffrey Lee Pierce, Sylvia Juncosa, Joe Nolte, Matt Piucci, Brett Guitierrez, Ward Dotson, James Moreland, Steven Roback, Kendra Smith e Kristi Callan tutti assieme su un unico disco a me fa ancora un certo effetto. Finché la virilità resiste all’usura del tempo perlomeno.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE CULT – Ceremony (Beggars Banquet)  

0

Di certo quando Ian Atsbury raduna i ragazzi della sua band rivelando che le liriche del nuovo disco saranno in qualche modo ispirate alla tragedia dei Sioux non si aspettava che Ceremony avrebbe davvero aiutato la comunità indiana, versando nelle loro tasche ben 61 milioni di dollari a causa dell’uso non autorizzato della bella foto di Eternity DuBray, il più bel bambino apparso su una copertina di un disco dai tempi di War degli U2. Licantropi diventati filantropi loro malgrado, i Cult realizzano Ceremony dopo il bagno di folla di Sonic Temple spegnendo parzialmente i riflettori, con un disco molto meno muscoloso che fa largo uso di chitarre semiacustiche, come era stato nei primi due album, pur non lesinando anthem da stadio come Earth Mofo, Full Tilt, Wild Hearted Son o Bangkok Rain, come richiede la casa discografica. Ma Ceremony è impregnato di un umore diverso, di un differente bisogno di Atsbury di reagire al dolore che gli sta macerando l’anima come il cancro sta facendo con la carne del padre.

Ceremony è un disco più umano, più fragile, più schivo rispetto ai due che lo hanno preceduto. È l’album con cui i Cult abbandonano le arene per non mettervi piede mai più, sorpassati da nuove mode cui faticheranno a tenere il passo.

In qualche modo è un cerimoniale di morte.

Prendete. E bevetene tutti.      

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro