La sfavillante epopea del revivalismo beat dei mid-eighties è stata una fase importante della mia vita, una di quelle passioni urticanti che ti passano da parte a parte stravolgendoti i sensi. Qualcosa che ti chiedeva una dedizione totale, un bagno purificatore dentro l’etica/estetica di un decennio troppe volte favoleggiato come beato ma ancora, si intuiva, tutto da scoprire, un crogiolarsi talvolta anche sterile nel disperato tentativo di perpetrare storicamente non solo l’anima di un suono ma di un intero universo arrivando addirittura a forme estreme di escapismo temporale esasperato (Shelley Ganz che si chiude in casa in un isolazionismo disperato, Mike Stax che data ’66 le sue lettere scritte quasi vent’anni dopo…NdLYS).
Qualcosa di totalizzante, acritico, estremo, puerile.
Giovanile fino a rasentare il paradosso: la quintessenza del rock ‘n roll. Here Are The Chesterfield Kings rappresentò per me e migliaia di altri coetanei una sorta di fonte battesimale.
Non un disco ma un autentico scrigno.
Un forziere pieno di quelle monete d’oro che i bucanieri deponevano sugli occhi dei defunti prima di spedire le loro anime all’Inferno.
Quattordici denari per ingraziarsi i servigi di Caronte e traghettare gli spiriti delle garage bands dei sixties nel girone dannato in cui i Chesterfields erano costretti a scontare le loro pene.
Era il rifiuto ostinato a diventare adulti.
Here Are è un disco che la storia non l’ha solo fatta, ma se ne è preso cura facendole da custode e loopandola ad uso delle generazioni che ne sconoscevano il sapore, fiutandone appena l’aroma tra i ricordi nebbiosi di un vecchio papà beat.
Un disco di sole covers, peraltro eseguite con l’unico intento di preservare lo spirito che alitava su ognuna di esse senza alterarne il sapore.
Una macchina del tempo a forma di catapulta.
L’esordio dei Chesterfield Kings non si fermava alla riscoperta dell’essenzialità beat già operata dal punk o alla rivalutazione della crudezza espressiva tipica di ogni musica teen che in molti avevano o stavano recuperando. No, Here Are era un disco che andava oltre: i cinque Re di Rochester affondavano gli incisivi in un baule pieno di pepite e le porgevano a noi con lo stesso identico, prezioso luccichio con cui erano state seppellite 15 anni prima.
Esasperando il concetto di rigore filologico, Greg Prevost e compagni arrivarono addirittura al punto estremo di risuonare, quando fu possibile, quelle 14 canzoni con gli stessi strumenti con cui erano state incise dagli autori originali.
Una austerità che ha del maniacale.
Feticismo e devozione assoluta verso un suono che da lì a poco avrebbe infettato le menti e i garages di quattro continenti e che avrebbe fertilizzato il terreno per la rivalutazione “creativa” dell’estetica sixties degli anni a venire. Un disco che, in pieno delirio new wave, metteva indietro i propulsori del tempo e rivolgeva non solo gli occhi ma tutti i sensi al passato spingendo alla ricerca un’intera generazione che stava folleggiando alla cieca su quella spontaneità di cui il punk si era fatto portavoce e che tornava ad affievolirsi sotto montagne di synths e a rabbuiarsi dietro l’intellettualismo esistenzialista dei profeti del dark sound.
Sonics, Rogues, Sounds Like Us, Painted Ship, Zakary Thaks, Chocolate Watch Band, Exotics, Shades of Night, Choir, Mourning Reign, Moving Sidewalks, Harbinger Complex e Nightshadows venivano tirati fuori dalla cantine e tornavano a brillare di luce vividissima. Da quel momento, lo si voglia ammettere o meno, qualcosa avrebbe cominciato a prendere un’altra strada.
Quando nel 2007 Greg Prevost mi confessò di odiare Stop! per me fu come trovarmi sotto le travi di casa mentre i sismografi registrano scosse telluriche proprio sotto il mio culo.
Perché lo avevo sempre considerato, e lo considero tuttora, un disco di una bellezza inarrivabile. Un classico dei classici, una macchina in grado di fermare il tempo. Dentro, dopo l’abbuffata di Here Are e dei primi singoli, ci sono le prime canzoni firmate dal gruppo.
Sembrano vecchi master di qualche oscura band del ’66 finiti dentro qualche bidone degli studi della 4th Avenue o della RCA.
I Chesterfield Kings sono cinque bavose appiccicate ai muscoli della musica sixties.
Passano lasciando una schiuma lattiginosa.
E diventano quello che mangiano.
Sono gli Standells, poi i Monkees, quindi i Turtles, i Sonics, i Royal Guardsmen, i Byrds, gli Stones, i Count V, i Moving Sidewalks, i Gonn, i New Colony Six, i Knickerbockers, i Dave Clark Five, infine la Chocolate Watch Band.
Non si limitano a depredare le loro canzoni, come fanno tutti.
I Chesterfield Kings di Stop! SONO quelle band.
Hanno realizzato il sogno di ogni gruppo neo-garage: suonare come si fosse sul palco di una battle of the bands del 1966. Caschetti e zazzeroni spioventi su una folla di teenagers infoiati dal rock ‘n roll. Un sabato sera qualunque della provincia Americana, dopo una puntata dei Three Stooges e un giro di contrabbando con la macchina di papà.
I Kings suonano così, esibendo con orgoglio un’adesione ai canoni stilistici ed estetici che ha del pauroso, reincarnazione legittima dei Rolling Stones sboccati dei mid-sixties, mettendo su un repertorio che è un distillato degli ascolti voraci di Greg Prevost e Andy Babiuk.
Un pezzo come She‘s Got Time ad esempio è un precipitato del suono texano degli Exotics mentre I Cannot Find Her è un matrimonio perfetto tra le chitarre folk dei Grassroots con le armonie vocali dei Monkees, She‘s Alright un tuffo nel suono di Larry and The Blue Notes, il dolce ciondolare di Cry Your Eyes Out nasconde un ponte che porta al castello dei 13th Floor Elevators mentre la veemenza di Say You‘re Mine non può non far pensare ai Beat Merchants, a Cuby + Blizzards o agli Stones teppisti di Get Off of My Cloud.
Le cover, come è tradizione per i cinque di Rochester, sono suonate con una competenza ben oltre la soglia dell’esasperazione fanatica. Stop!, Fight Fire, My Canary Is Yellow e Bad Woman sono sputate alle originali di Burgundi Runn, Golliwogs, Namelosers e Fallen Angels.
Stop! è una folgorante istantanea sul rock ‘n’ roll che fagocita se stesso per rendersi eternamente giovane, il privilegio e il regalo concessoci da cinque ragazzini americani che permisero anche a noi di vivere il sogno degli anni Sessanta, venti anni dopo.
Le beghe legali con la Mirror (probabile motivo del risentimento di Greg nei confronti di Stop! NdLYS) non ne permetteranno un duplicato digitale, rendendolo per sempre prigioniero del suo tempo.
La copertina del disco successivo era però un presagio di sventura.
Se sul disco di debutto, quello che aveva gettato l’ancora nella baia nascosta del punk delle garage band dei sixties, sembrava di vedere la reincarnazione dei Blues Magoos e sul capolavoro successivo uno scatto degli Stones dell’era Brian Jones, sulla copertina di Don’t Open Til Doomsday i Kings sembravano un’anonima band proto-hard degli anni Ottanta, con tanto di fumo dietro le spalle e t-shirt di dubbio gusto. Girata la copertina, ecco spuntare anche il nome di Dee Dee Ramone. Per i puristi della scena garage, uno sputo in faccia.
I Chesterfield Kings non sono gli unici ad avvertire la stretta di una scena che continua a celebrare se stessa fino a diventare grottesca. Miracle Workers, Sick Rose, Fuzztones, Morlocks, Creeps, Untold Fables, Fourgiven stanno analogamente allontanandosi dal concetto teocratico che vuole la musica garage punk completamente impermeabile a quanto musicalmente sperimentato dal 1967 in poi.
Hanno scavato dentro il cimitero beat e ora che iniziano ad avvertire i primi segni di stanchezza, hanno tentato a fatica di alzare la schiena e hanno visto che c’è tanta altra roba da scavare, da tirare fuori. Ci sono i Ramones, c’é il folk rock, ci sono gli MC5, c’è Johnny Thunders. E presto ci saranno anche i New York Dolls, gli Aerosmith, il blues del Delta, Jan & Dean e i Beach Boys. Lo sapevano già.
Solo, presi da quel lavoro di scavafosse, se ne erano dimenticati.
A ricordarglielo sono le centinaia di concerti che diventano sempre più una gara improponibile (ed impari, perché i Re suonano come nessun altro, all’epoca, NdLYS) a chi suonasse le cover più sconosciute o a chi rifacesse meglio The Witch dei Sonics. Ma Greg e Andy non si divertono più, in quell’acqua park dove le vasche non vengono più disinfettate e l’acqua è diventata stagnante.
Ecco che pensano a un disco come questo. Dove l’urgenza del garage punk più immorale e di cui Social End Product dei Blue Stars può essere eletta ad archetipo si accende in spiritate e crepitanti canzoni figlie del suono malato degli Spiders (Someday Girl) o si stempera in un power-rock con chitarre scintillanti (Everywhere), morbide ballate folky (You‘re Gone) e addirittura un angolo acustico come I’ll Be Back Someday. Eppure, malgrado non ci sia adesione agli schemi del suono d’epoca (nessun accenno di maracas o di tastiere vintage, per dirne una), non c’è neppure un totale scollamento dai canoni estetici del sixties sound. Ci sono splendide armonie vocali studiate sui dischi di Mamas and Papas e Monkees ad esempio, due delle fissazioni di Greg di quel periodo e che dal vivo fanno si che California Dreamin’ e Sunny Girlfriend finiscano a un passo da Ramblin’ Rose o Chinese Rocks per una delle scalette più belle del periodo.
Il suono dei Kings si è semplicemente innestato dentro un cubo di Rubik dalle molteplici sequenze. Qualcuno avvertirà questo come un tradimento (salvo poi tornare ad ascoltare i suoi merdosi dischi dei Journey, come dirà in seguito lo stesso Greg Prevost, NdLYS), qualcun altro come un’accozzaglia di canzoni prive di idee brillanti (lo Scaruffi che borbotta dalle sue enciclopedie), qualcuno ne avvertirà invece la vera portata. L’urgenza di una fuga, l’accensione di una nuova miccia, di un nuovo entusiasmo.
Non è forse questa la legge segreta del rock ‘n’ roll? O credete davvero sia vedere i Deep Purple che rifanno Smoke on the Water con la pingue che gli ricopre, molle, mezza cassa della chitarra?
Pubblicato simbolicamente a suggello della prima fase artistica, Night of the Living Eyes raccoglie quelli che furono i primi passi, completamente autoprodotti, del quintetto americano. Sono i primi tre singoli pubblicati per la loro etichetta privata, il secondo dei quali viene ritirato dal mercato dopo una prima tiratura di appena cinquanta copie a causa del suono della dodici corde sulla cover di I Won’t Be There dei Grodes che non convince l’esigentissimo Greg Prevost.
Sono, per molti versi, i Chesterfield Kings migliori. Quelli che affrontano impavidamente la missione per cui sono nati: infilare le mani nel beat-punk degli anni Sessanta e soffiare la polvere da quelle pepite per restituircele intatte nel loro splendore primordiale. I pezzi registrati dal vivo al Peppermint Lounge di New York nel febbraio dell’83 che occupano l’intera seconda facciata non tradiscono quella che è la missione per cui i Kings si sono immolati ad inizio decennio: tutte cover, come era nella primissima tradizione della band di Rochester. Larry and The Blue Notes, Cavaliers, Elite, Chocolate Watch Band, Bad Seeds, Barons, i Golliwogs dei fratelli Fogerty, Merseybeats, passati attraverso il setaccio del più fenomenale juke-box garage punk degli anni Ottanta.
Un carburatore intasato di benzina sixties che spruzza petrolio come fosse una trivella nel deserto sahariano.
I Re. E i loro fossili.
Il parziale allontanamento dal garage sound più canonico annunciato da Don‘t Open Til Doomsday diventa compiuto con la pubblicazione di The Berlin Wall of Sound del 1989, sfacciato tributo allo sleaze rock che grazie al successo planetario dei Guns n’ Roses è tornato in quegli anni prepotentemente alla ribalta.
Greg Prevost e Andy Babiuk assieme ai nuovi Paul Rocco e Brett Reynolds si trovano così a vestire i panni di nuovi New York Dolls e ad affidare il proprio nome a uno stupido stendardo con tanto di sciabole incrociate, scudo araldico e aquila imperiale nella più banale delle iconografie metallare.
Il disco mantiene le promesse della copertina. Rock ‘n roll maschio e stradaiolo prodotto da Richie Scarlet che proprio in quel periodo suona fianco a fianco con Ace Frehley dei KIϟϟ per il suo debutto solista Trouble Walkin’ e che è uno che le chitarre sa come farle colare fuori dalle casse.
Dee Dee Ramone regala anche stavolta un brano ma Come Back Angeline non ha lo stesso tiro di Baby Doll, quanto piuttosto quello della celebre Walkin’ the Dog di Rufus Thomas ma ben si adatta al clima da rodeo metallico di tutto il disco che però, nonostante la pioggia di fuoco di chitarre e la batteria che pesta come non mai e malgrado non sia avaro di belle canzoni (Richard Speck, Who‘s to Blame e Love, Hate, Revenge su tutte), non riesce a reggere il confronto con i tre dischi precedenti. L’omaggio al suono dei New York Dolls (nella versione CD è aggiunta la cover di Pills resa pari pari a quella delle Dolls medesime) e agli Heartbreakers è sincero e, come nella tradizione della band, competente, ma si allinea su uno stereotipo un po’ troppo abusato finendo per rimanere schiacciato dal suo stesso peso.
Che poi io preferisca questo disco a quelli dei vari Dogs D’amour, L. A. Guns, Little Caesar e agli stessi Hanoi Rocks è faccenda del tutto personale.
Ognuno è libero di di scegliersi i propri eroi.
E di liberare Barabba piuttosto che Gesù Cristo.
Nel 1990 i Chesterfield Kings, in piena crisi di identità, si abbeverano alla stessa fontana di “acqua sporca” cui si abbeverarono gli Stones degli esordi.
Come dei buskers metropolitani armati di strumenti acustici, eccoli otto anni dopo Here Are con un nuovo disco di cover versions.
Stavolta si tratta però di sfregare la lampada del blues del delta anticipando di un paio d’anni l’analogo esperimento di Jeffrey Lee Pierce.
Sono le ossa di Robert Johnson, Muddy Waters e Willie Dixon a venire alla luce, nella nuova opera di scavo dei cavalieri di Rochester.
Bruciati un po’ alla volta i ponti col proprio passato i Chesterfield Kings si concedono dunque la libertà di prendere in giro se stessi e i propri fan reinventandosi bluesmen e costruendo un disco anomalo che può suscitare fastidio a chi li vuole ancora immaginare capaci o semplicemente vogliosi di perpetuare all’infinito lo spirito delle teen band perdute degli anni Sessanta oppure esasperare all’inverosimile l’anima glam che è emersa negli ultimi anni.
Drunk on Muddy Water col suo carico di blues sporco coglie dunque tutti di sorpresa, alimentando le antipatie da parte dello zoccolo duro dei vecchi fan ancora refrattari al cambiamento che in questo periodo circondano la band.
Qualcuno beve, qualcuno piscia.
Si chiama il ciclo dell’acqua, anche se nei vostri libri di scuola ve l’hanno disegnato con il mare azzurro e le nuvolette bianche come gli agnellini di Heidi.
Forse il disco preferito da Greg Prevost fra tutti quelli incisi dai Chesterfield Kings è però quello più esplicitamente dedicato agli Stones, omaggiati sin dalla copertina (elaborata su quella originale di Aftermath) e dal titolo (Let’s Go Get Stoned), rivisitati con la solita carta carbone che i Re di Rochester riescono a maneggiare facendo dei ricalchi fedelissimi e citati qui e là anche nei pezzi firmati dalla band (clamorosa la versione tarocca di Simpathy for the Devil nascosta sotto Long a Go, Far Away) o nel trattamento stonesiano (siamo dalle parti di Dead Flowers) riservato al country di Merle Haggard Sing Me Back Home, invitati addirittura a suonarci dentro (ottenendo il cameo di Mick Taylor sulla cover di I’m Not Talkin’ e anche su una versione ad oggi inedita di Can’t Believe It).
Il suono degli Stones post-beat calza a pennello per i Chesterfield Kings infatuati dal glam e dallo street rock’n roll e Greg ed Andy, in questa sorta di parodia, hanno modo di sperimentare strumenti nuovi come il dulcimer, il sitar, il mellotron e nastri a rovescio usati però con grandissima parsimonia e relegati in fondo ad un disco che è invece pieno di striscianti chitarre blues e accordature aperte nella miglior tradizione di Mr. Keef e di boccacce simili a quelle del Jagger arrapato dei primi anni Settanta. Che è sempre un bel sentire. Anche se accentua la sensazione che i Chesterfield Kings, non essendo diventati i Chocolate Watch Band degli anni Ottanta si stiano accontentando di diventare i Rutles degli anni Novanta.
La sorpresa più grande per il pubblico dei Chesterfield Kings arriva però tre anni dopo, presentata con un titolo che non lascia adito ad alcun dubbio su dove sia andata a finire la serie di giochi di ruolo cui la band pare prestarsi da un po’: Surfin’ Rampage.
Non il solito tributo “muto” alla musica surf ma un autentico esercizio di stile vocale, strumentale, scenografico alla musica californiana di Beach Boys, Four Freshmen, Jan & Dean. Come è ormai tradizione della band di Rochester, un cortocircuito temporale praticamente perfetto già dalla grafica e dalle foto di copertina, con la band agghindata a dovere dal taglio di capelli fino al tacco degli stivaletti e la tavola da surf sottobraccio come i fratelli Wilson nel ’64, quando il mondo sembrava bello così com’era e non si volevano fare rivoluzioni.
Surfin’ Rampage è dunque un disco-cartolina che, beffando il tempo, potrebbe essere stato spedito più di trent’anni prima da Santa Cruz, Princeton-by-the-sea, Cayucos o Pismo Beach. Nessuna nota fuori posto, nessuna sbavatura, nessuna armonia vocale meno che perfetta. Il gruppo sembra intrappolato nella sua stessa perfezione maniacale, appagato della sua identità di gruppo-replica seriale in grado di poter riprodurre qualsiasi cosa (il garage-punk, lo sleaze rock, i New York Dolls, gli Heartbreakers, gli Stones, il blues, la surf music) con una efficacia ed una dignità pari a quella originale. Manca però il “carattere”, quello che era emerso su dischi come Stop! e Don’t Open Til Tuesday e che è andato via via disperdendosi in operazioni nostalgia di gran prestigio ma su cui è ormai impossibile fantasticare.
Il rientro nel vecchio recinto del Sixties-punk porta in bella vista il titolo dello storico programma televisivo della ABC dove erano di casa i Raiders di Mark Lindsay che scrive assieme ai Re di Chesterfield uno dei tre brani omografi che compongono la scaletta di Where the Action Is! ovvero, Here Are The Chesterfield Kings…again.
A venti anni esatti dalla loro prima entrata in scena dunque i signori di Rochester tornano ad infilare le mani nelle Nuggets dell’epoca d’oro del beat-punk, con classe inalterata ma con risultati comunque meno esplosivi rispetto al debutto. Di certo meno ricchi di fascino.
L’omaggio oleografico dell’esordio si è adesso un po’ ingrigito e Where the Action Is! suona più come un disco di nostalgici che come un rabbioso tributo alla furia delle prime punk songs della storia. E, nonostante la buona scelta della scaletta e l’interpretazione sempre molto fedele alle coordinate originarie, questo nuovo disco dei Chesterfield Kings risulta alla fatta dei conti un po’ ovvio se non per un veloce e banale ripasso di canzoni che, nel frattempo, abbiamo già ascoltato in cento altre versioni fino ad averne a noia (I‘m Not Like Everybody Else, 1-2-5, Little Girl, Sometimes Good Guys Don‘t Wear White, Five Years Ahead of My Time, Ain‘t It Hard, Happening Ten Years Time Ago, ecc).
Poco più che un disco di routine, insomma.
Un album che vende per oro ciò che d’oro è solo placcato.
Nel 2002 Little Steven apre il suo Underground Garage trasformandosi, inaspettatamente, nel nuovo guru del sixties-punk creando nuovo interesse attorno al fenomeno. Quali che siano state le dinamiche non saprei ma Little Steven si ritrova in qualche modo a “battezzare” il disco della rinascita dei Chesterfield Kings. È lui a firmare le visionarie note di copertina e a collaborare fattivamente in almeno un pezzo. E, successivamente, a ristampare il disco per la sua etichetta personale.
L’altro nome prestigioso a partecipare al disco è Jorma Kaukonen, che presta la sua chitarra per un paio di pezzi.
Ma The Mindbending Sounds of The Chesterfield Kings è soprattutto il disco con cui Andy Babiuk e Greg Prevost si riappropriano in toto del loro stile, dopo aver disperso il seme su dischi blues e surf e dopo un modesto album di cover come Where the Action Is!. Non mancano le scopiazzature ma stavolta l’album, interamente firmato dalla band, è un ottimo e ricco vassoio di muffin drogati cucinati negli stessi forni delle pasticcerie di Electric Prunes, We the People, Chocolate Watch Band, Rolling Stones (periodo Between the Buttons), Master’s Apprentices e Seeds.
Tra queste le scariche fluorescenti di Endless Circles, Non-Entity con la sua armonica arrapata, Stems & Flowers scritta con Sky Saxon e arrangiata in perfetto Seeds-sound, Transparent Life (a perfetta metà strada tra gli Electric Prunes e gli Stones di Paint It Black), il beat di impronta Easybeats di I Don’t Understand e Memos from Purgatory figlia del Sebastian F. Sorrow nato trentacinque anni prima sono quelli che fanno la parte del leone in questo disco pieno di chincaglieria d’epoca e di suggestioni psichedeliche. Bentornati a casa.
Dopo averci messo le mani e la faccia per The Mindbending Sounds of… ed essere riuscito con un po’ di astuzia ad infilarli nella colonna sonora di una classica commedia natalizia hollywoodiana come Fuga dal Natale, per il nuovo Psychedelic Sunrise Little Steven ci mette stavolta anche i soldi. Quello che sarà destinato ad essere l’ultimo atto dei Chesterfield Kings esce infatti sotto la sua produzione esecutiva e per la sua label. Nonostante il disco mostri una continuità concettuale ed una sorta di affiatamento artistico (la formazione resta invariata rispetto a quella del disco precedente) con Mindbending, il risultato è però una bolla di sapone.
Eccentrica, colorata, iridescente.
Ma pur sempre una bolla.
Tradito da un’ambizione forse un po’ eccessiva (i violini di Inside Looking Out, i forzati inserti pinkfloydiani di Elevation Ride, tanto per dirne di due) e da richiami fin troppo ovvi con il freakbeat che fu. Sparandone uno, sfacciato, proprio in apertura di disco. Proprio per questo forse il disco funziona meglio ascoltato ribaltando la scaletta, visto che come nei piatti malconditi il meglio rimane sul fondo: il garage punk arruffato di Dawn che svisa dalle parti di Fluctuaction, l’Alice Cooper impasticcato di Yesterday’s Sorrows, la ballatona roots Gone che invece tracima dalle parti di I’ll Be Back Someday, rendendo vana la speranza di un ritorno e mantenendo la promessa.
La presentazione del disco, l’11 settembre del 2007, si tinge di veglia funebre per la morte di Doug Meech, il ragazzo biondo dietro le pelli dei Chesterfield Kings Re del garage-punk portato via troppo presto dell’eroina. Live on Stage…If You Want It interamente registrato e filmato nella loro amata Rochester, viene pubblicato per spezzare il silenzio che è sceso sulla band, dichiarata morta un po’ di tempo dopo dallo stesso Greg Prevost e seppellita lì dov’era nata trenta anni prima.
Il trono è vacante
Franco “Lys” Dimauro