THE LEMON TWIGS – A Dream Is All We Know (Captured Tracks)

0

Ancora una volta, come fu già per i Redd Kross, a riportare in auge il suono del power-pop ci si affida a dei fratelli, stavolta peraltro figli d’arte. Destinatari di un’attenzione inaspettata e forse in parte immotivata da parte dei media i fratelli D’Addario hanno visto un’impennata delle aspettative rispetto a questo loro nuovo album, aspettative affatto tradite dalla pubblicazione di una dozzina di canzoni che tengono fede a quanto da loro già espresso in termini di stupefacente “adattabilità” ad un suono retrò che sembrava in realtà essere odiato da tutti. Non stupirà pertanto vedere, sul mio modesto blog, le visualizzazioni delle recensioni relative a band come Turtles, di Simon & Garfunkel, degli stessi Beatles (statisticamente le meno lette in assoluto) o dei Reaction restare piattamente ferme a pochissime, sparute unità e veder lievitare questa in virtù della sovraesposizione cui i Lemon Twigs sono sottoposti da un po’ e che fa effetto sui boomer più che sulle nuove generazioni, anche se i vecchietti miei coetanei non lo ammetteranno mai.

Dunque a cinquant’anni ci si riscopre, un po’ a sorpresa, innamorati di canzoni come In the Eyes of the Girl, un cheek-to-cheek da pellicoletta che ci avrebbe dato il voltastomaco solo tre anni fa.

Di tutto ciò i Lemon Twigs non hanno però alcuna colpa, o merito: loro fanno egregiamente il loro lavoro e portano avanti la loro missione, riportandoci in casa le armonie dei Byrds (quanta bellezza c’è su If You and I Are Not Wise?), dei Turtles, dei Beach Boys, dei Mamas and Papas, degli Zombies (How Can I Love Her More? è quasi un plagio) e facendole sembrare la cosa più figa del mondo. Tutto ciò cui ci si proclamava allergici è adesso terapico. Ciò che era parte della malattia, è adesso parte della cura.

Vai a vedere come gira il mondo. E a vedere come girano le palle a me.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE dB’S – The Sound of Music (I.R.S.)

0

Per The Sound of Music i dB’S scendono in campo con le maglie degli Hoodoo Gurus. Almeno per tutto il primo tempo.

E le indossano che è una meraviglia.

Se si può rimproverare all’album una certa compiacenza, è indubbio che ogni singola canzone ha un suo potenziale pop di alto lignaggio con un Holsapple in stato di grazia sia dal versante compositivo che in quello di cantante e chitarrista.

Ogni canzone ha una luminosità abbagliante, e poco importa se quell’abbaglio è spesso il riflesso di qualcosa che abbiamo già visto splendere altrove. O quando prende la forma di un ventaglio beatlesiano ma con i ricami folk-rock dei Byrds, come nell’altrettanto “accecante” Looked at the Sun Too Long.

I contributi di Lisa Germano, Jane Scarpantoni, Van Dyke Parks, Jeremy Smith e Benmont Tench non fanno che arricchire questo già ampissimo spettro auricolare, insaporendo ulteriormente un disco che, con buona nostalgia e pace per i dB’S che furono, diventa il loro nuovo classico.       

           

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BUSH TETRAS – Wild Things (ROIR)

0

Un gomitolo di ferro filato, la musica dei Bush Tetras. Poco incline all’ordine, sociale e musicale, la band newyorkese mette in fila quattro singoli fra il 1980 e il 1981, poi decide che anche l’ordine interno deve essere sovvertito e la formazione si spezza prima in due, poi del tutto proprio quando sarebbe il momento buono per pubblicare un intero album di smorfie avant-funk. La ROIR decide a quel punto di “riprendere” la band in azione, pubblicando Wild Things, documento live di cinque esibizioni tenute a New York nell’estate del 1982 col pubblico che fa chiasso e la band che ne fa dieci volte tanto.

Chitarre che sembrano condannati all’ergastolo che trascinano le loro palle di piombo sullo sterrato del cortile di qualche penitenziario, basso e batteria che petulano sincopi come molle d’acciaio che potrebbero spararli oltre il muro di cinta, al di là di quel “cataclismico muro di rumore”, come lo definisce Jeffrey Lee Pierce nelle note di copertina del nastro e che è una delle tante voci urlanti che si sentono fra un pezzo e l’altro di quello che è uno dei documenti imprescindibili di tutta la no-wave newyorkese, di tutta la sua immane potenza, del suo fragore belluino e punk.

Poesia del disordine e dell’esteticamente deforme che trova il suo posto nel mondo.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GORILLA BISCUITS – Start Today (Revelation)

0

Le peculiarità dell’hardcore americano si definirono in California grazie ai seminali lavori di Germs, Black Flag, Dead Kennedys pubblicati nel triennio ‘79/’81. La scena newyorkese sarebbe rimasta al palo per un po’ e anche successivamente avrebbe faticato nello sfornare band capaci di sottrarre lo scettro alla costa ovest.

I “rinforzi” newyorkesi sarebbero arrivati con grande ritardo e non sempre i granatieri delle compagnie orientali si sarebbero rivelati dei grandi tiratori. Fra tutti, il miglior reparto d’assalto fu quello dei Gorilla Biscuits. Formatisi solo due anni prima e con un bellissimo EP pubblicato nel 1988, arrivano all’unico album nel 1989 con una sferragliante sequenza di brani in tipico stile hardcore ma che rivelano anche la volontà di lanciarsi oltre quell’angusto steccato, con pezzi come la title-track, Sitting Around at Home e Competition dove la velocità compulsa si ridimensiona e trova il modo di riassettare la mira e riallestire i bersagli mandati in frantumi con New DirectionDegradationThings We SayCats and Dogs e definitivamente polverizzati sull’attacco conclusivo della loro innodica Gorilla Biscuits.

Gorilla Biscuits in your head
One more time and you’ll be dead
Better watch out better be scared
Heading for the dragon’s lair
G-O-R-I-double L-A biscuits!
  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

THE DEL-LORDS – Frontier Days (Enigma)

0

Nel 1984 anche Scott Kempner dei Dictators si ricicla chitarrista roots, dando il via all’avventura fortunata dei Del-Lords, avamposto newyorkese di quello che stava diventando patrimonio di recupero tipico della costa ovest, ovvero l’immaginario cowboy e del mito della frontiera da cui l’album di debutto dei Del-Lords prende il titolo. Il quartetto si rotola insomma nello stesso fango del rock populista di Lone Justice, Long Ryders e compagnia bella e il monocolo sposta l’obiettivo dal Bronx verso le terre di nessuno che stanno fuori dai piani urbanistici.

Frontier Days è un disco gradevole che sposa melodie power-pop che rimandano addirittura al Mersey-beat degli anni ’60 a un corpo più robusto forgiato con i classici utensili del country-rock americano. Tuttavia, nonostante l’alta perizia stilistica dimostrata in tutti i brani non ci sono episodi memorabili da poter scavare un solco abbastanza profondo nella memoria collettiva eccezion fatta per la bella cavalcata chitarristica di Mercenary, forse il capolavoro assoluto della loro produzione. Un po’ pochino per entrare nella storia del rock imperituro. Abbastanza per transitarci senza timori di essere sbattuti fuori.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE MOSQUITOS – In the Shadows (Area Pirata)

0

Non a tutti capita la fortuna di vedere una propria canzone portata al successo dai propri beniamini.

Ai Mosquitos capitò.

Nel 1986 la Arista commissiona la loro That Was Then, This Is Now! ai Monkees, scegliendola come pezzo trainante del loro ritorno in scena dopo dieci anni di inattività, col risultato clamoroso di una nuova Top 20.

Dopo aver centrato una buca simile, seppure di sponda, il futuro dei Mosquitos sembrava proiettato verso la luce e invece, come il titolo di questa raccolta ci suggerisce, rimase nell’ombra, portando la band di New York ad un prematuro scioglimento dopo un unico EP del 1985 e una partecipazione alla storica cassetta Garage Sale! a fianco di stelle della scena neo-garage del calibro di Vipers, Gravedigger V, Mystic Eyes, Tell-Tale Hearts, Pandoras, Cheepskates, Unclaimed, Fuzztones, Not-Quite, Fourgiven.

In the Shadows raccoglie i cocci di quella sfortunata avventura e rappresenta una versione “smart” della dispersiva raccolta edita dalla Kool Kat che aggiunge alla scaletta in studio diverse tracce dal vivo. Il suono è quello che potete immaginare venga prodotto da una band che ha nei primi Beatles, nei Dave Clark Five, nei Searchers, in Buddy Holly e nei Monkees i propri punti di riferimento: armonioso e brillante, cristallino e alla ricerca di un gancio melodico che in più di un’occasione (Put Your Foot Down, Do You Want to Hurt Me?, You Don’t Give a Hang (About Me), I’m So Ashamed) si rivela micidiale.

Dunque aprite le finestre e fate entrare le zanzare.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE dB’S – Falling Off the Sky (Bar/None)

0

A venticinque anni da quando si erano mandati vicendevolmente a fare in culo, Chris Stamey e Peter Holsapple tornano a stringersi le mani e, con quelle, lavorare ad un nuovo disco dei dB’S. Un ritorno che si apre alla grande, con una sorta di versione in technicolor della Mr. Soul dei Buffalo Springfield i cui piccoli cristalli sembrano risplendere dentro gli specchi del caleidoscopio di That Time Is Gone che ne utilizza la struttura armonica per realizzare un nuovo classico, forse l’ultimo della band newyorkese, con tanto di organo retroattivo pilotato da Chris.

Sul resto del disco, anche se l’organo riappare di tanto in tanto, sono invece fiati (trombe, corni francesi, sassofoni, flauti) e archi (viole e violini) a farla da padrona, con l’occhio che sembra guardare più insistentemente all’Inghilterra (quella remota degli Who e dei Beatles più sofisticati ma anche quella meno remota di gruppi come Oasis e degli altri “apostrofati” La’s) senza però dimenticare, come purtroppo in molti hanno fatto, la lezione enorme di Paul Simon e Art Garfunkel negli anni in cui il Central Park della loro città “diecimila persone (forse di più)” osarono turbare il suono del silenzio, spezzandolo.

Ora i dB’s lo fanno di nuovo.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TOM VERLAINE – The Wonder (Fontana)

0

Il titolo lascia sospettare che Verlaine voglia darsi delle arie. E dopotutto, nessuno potrebbe ritenerlo un gesto presuntuoso e accusarlo di superbia, nonostante The Wonder non sia la “meraviglia” assoluta della sua carriera, anzi. Tom cede in parte alla richiesta della Fontana di rendere più appetibile il suo rock d’autore, di renderlo più moderno e adatto alle radio, più colorato e vagamente funky. Il risultato è un disco quasi invendibile per il pubblico americano (che infatti dovrà comprarselo d’importazione), con la voce a tratti pericolosamente simile a quella di Lloyd Cole e un paio di pezzi come Pillow, Prayer e 5 Hours from Calais che sembrano interminabili, vista la pochezza che hanno da dire.

I colpi migliori sono il western scomposto di Cooleridge, le scudisciate di chitarra di Ancient Egypt e la Stalingrad illuminata dalla sei corde di Marty Wilson-Piper dei Church e che sembra poggiata lì come la lampada di Aladino.

Se la sfreghi tre volte, forse esce il genio. E puoi chiedergli quello che desideri.

Se invece non esce, finisce che bestemmi.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NEW YORK DOLLS – ‘Cause I Sez So (ATCO) 

0

A un certo punto delle loro vite, artisticamente in picchiata, David Johansen e Sylvain Sylvain hanno sentito il bisogno (economico?, il dubbio è lecito, NdLYS) di andare a riprendere la loro vecchia bambola in soffitta e dargli una spolveratina.

Succede all’incirca a metà del decennio I del XXI secolo.

Non sappiamo cosa ne pensino i vecchi compagni defunti, ma ormai la frittata e fatta e dunque tanto val la pena rigirarla. Cauze I Sez So è dunque il secondo capitolo della nuova stagione della saga, tanto per pareggiare i conti con la prima serie. Nel 2009 dunque ci tocca sentire la parodia delle New York Dolls interpretata da essi medesimi, con un disco che ha pochissime calorie.

Sfatto, anzi sfattissimo. Ma non nel senso decadente e perverso di trentacinque anni prima, quanto nell’accezione di un disco che ha pochissimi motivi per esistere, per abitare la nostra casa, per impegnare i diodi del nostro impianto stereo. Roba(ccia) come il western di Temptation to Exist, l’orrida ballata Lonely So Long, la nuova versione reggae di Trash, il Johnny Cash bagnato come un pulcino di Making Rain sono disarmanti tentativi di tenere in piedi una baracca che forse meriterebbe di crollare. My World, unico pilastro del disco, non ne può reggere il peso, seppure si mostri armato a dovere, nonostante l’esile apparenza di una torva ballata.

Avvisate i filistei, prima che sia troppo tardi.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

BLONDE REDHEAD – Sit Down for Dinner (Section 1)

1

Dopo averci lasciati a lungo fuori casa per un bel po’, i Blonde Redhead ci invitano ad entrare e a sederci per cena. Probabilmente sulle loro stesse ginocchia, visto che col passare degli anni i loro malleoli si sono fatti sempre più morbidi ed accoglienti e la loro musica è stata affidata ad una sorta di bolla di sapone che, inglobandola nel suo moto ascensionale e anti-gravitazionale, ha definitivamente reciso ogni forma di legame con la loro “vita violenta”, oramai del tutto placata.

I Blonde Redhead ci servono per cena dei marshmellow sofficissimi, vestiti con tessuti leggerissimi e con le pattine ai piedi. Vassoi di musica garbatissima ma mai scontata e mai del tutto leggera nel modo in cui potreste intenderla. Fermandosi sempre un attimo prima di diventare epigoni dei Mazzy Star o di qualsiasi altra band dream-pop o accelerando il passo quando sembra incombere su di loro la mano uncinata degli EbtG.

Perché, pur calpestando un giardino limitrofo, i Blonde Redhead di Sit Down for Dinner affermano di provenire da un’altra scuola, che è fondamentalmente quella della musica da cinema (provate ad isolare dal cantato un pezzo come Kiss Her Kiss Her oppure la conclusiva Via Savona) e delle prelibatezze al caramello prodotte da chef come Joe Meek, Lee Hazlewood, Phil Spector. Rivestendo con quel caramello un cuore d’assenzio fatto di liriche profondamente drammatiche.

Catapultandoci nell’abisso con una carezza.   

 

                                                                                       Franco “Lys” Dimauro