THE YARDBIRDS – For Your Love (Epic)

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Che non sappiano ancora scrivere una canzone, importa poco. E, a dirla tutta, nel 1965 non è neppure una qualità richiesta quando entri in una sala di registrazione o firmi un contratto con una casa discografica. Ciò che conta è il feeling, l’appeal. Le canzoni le avrebbero trovato altrove, pensa il loro manager. E gliene trova una che portano di colpo gli Yardbirds dal blues di nicchia alle classifiche della musica pop, facendo storcere il muso e non solo la mano destra ad Eric Clapton che fugge inorridito dai clavicembali e dalle tabla che cominciano a sbocciare tra le crepe delle rovine blues e che alla fine si prenderanno tutto il castello degli Yardbirds.

L’album che fotografa quel cambio di passo e il turnover dal chitarrismo classicamente blues di Clapton a quello più raffinato di Jeff Beck si intitola ovviamente come il pezzo di Graham Gouldman che li ha portati in cima alle charts di “musica leggera” e che li condurrà a spasso per le televisioni di mezza Europa (Italia compresa) e di quella leggerezza pop ne contiene per almeno un terzo della capienza: Sweet Music, Putty (In Your Hands), A Certain Girl e My Girl Sloopy veleggiano tutte verso un pop inoffensivo e di certo meno disordinato rispetto all’R&B vertiginoso degli esordi che quando torna ad alzare la testa come sulle cover di I Wish You Would o I’m Not Talking dimostra che non tutti i panni della cesta sono ancora stati lavati a disinfettati a dovere per essere stesi al sole caldo del successo e che, volendo, gli Yardbirds possono ancora essere i galletti nel pollaio rock-blues di Sua Maestà la Regina.

 

Franco “Lys” Dimauro

ERIK LARSON – The Resounding (Small Stone)

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Era fin troppo ovvio che un polistrumentista e un discreto vocalista come Erik Larson scegliesse prima o poi di tentare la carta del disco solista. Smessi così temporaneamente i panni di chitarra trainante di quella montagna heavy degli Alabama Thunderpussy, e abbandonati definitivamente quelli di cantante per il macigno sludge dei Kilara e di irsuto batterista dietro le pelli degli Avail, il barbuto Erik ha deciso di appartarsi con qualche altro frammento degli ATP e pubblicare il materiale che in questi anni si era dedicato ad abbozzare.

Come è lecito stiate supponendo, The Resounding ( riesce a dare un aspetto più complesso e meno “obbligato” stilisticamente  giustificando così il bisogno di “fuga” avvertito dal suo autore e dimostrando come un anagramma apparentemente antitetico della anima caustica fin qui messa fuori da Erik sia quella acustica, capace di regalarci un piccolo capolavoro come Happy New War o una Unresolved inzuppata nel miele di certi squarci bucolici dei Pumpkins dei tempi migliori. Un disco con cui risulta facile e piacevole convivere.

                                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

 

UNCLAIMED/THEE FOURGIVEN/LEE JOSEPH – Rock and Hard Rolls (Dionysus)  

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Nel 1987, nel bel mezzo del tour che dovrebbe permettere ai fan europei di toccare con mano il mito Unclaimed, Shelley Ganz gira i tacchi e se ne torna a Los Angeles, lasciando a Lee Joseph l’onere di giustificare la cosa ai promoter di mezza Europa e, laddove le date vengano confermate nonostante la pesante defezione, di tenere in piedi lo spettacolo della band. Il buon Joseph ci rimetterà un sacco di quattrini, ovviamente.

Oltre che la faccia.

Per cercare di salvare almeno i primi, l’anno successivo pubblica sulla sua etichetta un disco dal vivo che documenta sommariamente quello che in ogni caso è destinato a diventare un tour storico, essendo l’ultimo degli Unclaimed che, orfani di Ganz (finito a suonare estemporaneamente, assieme a tanti reduci ormai quasi fuori mercato della scena Paisley, alla corte del faraone Sky Saxon, NdLYS), tirano le cuoia. 

Assieme agli Unclaimed, in quel tour, ci sono i Fourgiven con i quali Shelley Ganz tornerà a far combutta quando, quasi trent’anni dopo, deciderà di rimettere in piedi la sigla Unclaimed per “vedere l’effetto che fa”. Su disco presentano cinque pezzi ognuno (che diventano sei nell’edizione limitata con 7” allegato). A scaldare il pubblico, come durante la tournèe, un Lee Joseph in solitario a cantare in acustico qualche pezzo degli Stooges, degli Elevators o di qualche pupillo della sua etichetta, che continuerà a vendere il disco negli anni a prezzi onestissimi.

Quei dieci dollari Rock and Hard Rolls li vale tutti.

Magari non molti di più, per quel sapore di occasione mancata che si porta dietro e per non lasciarci annusare nulla di quello che gli Unclaimed hanno in cantiere pescando giocoforza nel grosso cilindro di cover che la band tiene invece giù in cantina.

Però è qui, in questo ottobre del 1987 in cui muoiono gli Unclaimed, mentre là fuori band come Chesterfield Kings, Miracle Workers, Fuzztones, Morlocks, Creeps, Sick Rose cambiano pelle, che il neogarage degli anni Ottanta affigge ai muri il manifesto di avvenuto decesso.   

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

YARD TRAUMA – Lose Your Head (Gift of Life)  

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Conclusa la fase sixties-oriented, gli anni a cavallo tra anni Ottanta e Novanta vede gli Yard Trauma peregrinare alla ricerca di qualche contratto sulle altre sponde dell’Oceano. Saranno prima la Spagna e poi la Germania e l’Italia a dar loro accoglienza, salvo poi ritornare all’etichetta madre (anzi della sua sub-label Hell Yeah) fondata dallo stesso Lee Joseph ed inaugurata nel novembre del 1983 proprio con il singolo Some People/No Conclusions della sua band per un ultimo disco di veloce hardcore dalle vendite irrisorie. 

Chi si mette in casa un disco degli Yard Trauma in quel periodo, si mette in casa un disco punk che ha reciso ogni legame con il garage-rock degli esordi, eccezion fatta per qualche sequenza di accordi che ne richiama il principio attivo (quelle di 1000 Lies o Get Outta My Way, ad esempio).

Gli Yard Trauma sono adesso una band dal suono quadrato e asciutto, che non disdegna le accelerazioni hardcore e il grugno cow-punk. Sacrificando però del tutto quella vocazione alle atmosfere torbide da psichedelia noir che esalavano dalle loro canzoni più belle. Lose Your Head trasmette, procedendo da canzone in canzone, la brutta sensazione di essere rimasti orfani di un’altra band del cuore e di dover riadattare il proprio amore alle mutate condizioni. Provando a rimanere innamorati mentre l’innamorata scalcia.      

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GIORGIO GABER – Un’idiozia conquistata a fatica (GIOM)  

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La fatica c’è e non solo nel titolo. Quando esce Un’idiozia conquistata a fatica Giorgio Gaber ha già avuto le prime avvisaglie del male che lo accompagnerà fino alla morte. Lo avverte soprattutto alle gambe, che non reggono più le due ore di spettacolo che lui e Sandro Luporini portano in giro per i teatri italiani. E lo avverte anche a livello artistico, tanto che il nuovo spettacolo andrà “in onda” con piccoli aggiustamenti al copione per tre stagioni consecutive, fin quando Gaber non ne potrà più. Dello spettacolo e del dolore. E anche gli inediti veri e propri sono poco più di mezza dozzina, tra cui spicca Il potere dei più buoni, canzone contro tutti. Anche e soprattutto quelli che sono contro. Non per niente salterà fuori, ripescata da Antonio Socci e rimpallata sui social network, nell’agguerrita battaglia contro Salvini, durante gli anni del Governo del Cambiamento che porterà ben pochi cambiamenti. Perché la cultura è appunto, questo il tema centrale del lavoro, qualcosa da conquistare a fatica, con uno sforzo individuale che non va “calato dall’alto”, per “divulgazione” come spiega l’incipit del disco, nella prima sequenza in prosa de L’ingenuo. È un proposito che deve partire da una consapevolezza interiore e da un confronto che a Gaber viene sempre più negato, proprio dalle ali politiche che una volta gli erano amiche e che adesso si abbattono su di lui come scuri a causa delle scelte della moglie. Dario Fo gli ha già tolto il saluto, gli editoriali dei quotidiani di sinistra lo stroncano senza neppure aver assistito al suo spettacolo, per “partito” preso. Una canzone che denuncia anche il buonismo ipocrita dietro cui si maschera un rampantismo del tutto simile a quello dello yuppismo, anche se spesso portato al petto da chi è vestito da straccione, per sventolare l’appartenenza ad una ben definita area di pensiero.

Ma la scelta tematica, per quanto pesante possa apparire, si snoda attraverso varie “camere”, come è nella tradizione del teatro-canzone di Gaber, affrontando i rapporti tra uomini, tra uomini e donne, tra uomini, donne e nipoti, tra uomini, donne e potere, tra uomini, donne e Stato, tra uomini, donne e massificazione, tra uomini, donne e azalee, la pianta che serve per lavare le coscienze. Sempre con occhio attento, pungente ed ironico, oltre che amaro.    

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

FOO FIGHTERS – There Is Nothing Left to Lose (RCA)

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Col terzo album i Foo Fighters trovano la trazione perfetta della corda dell’arco flettente che hanno in mano, ormai consapevoli che quella lavatura pop-rock ha un suo appeal su un pubblico sempre più numeroso che si proclama alternativo cantando in coro canzoncine degne dei 10cc.

There Is Nothing Left to Lose è il disco che contiene Learn to Fly, la canzone che chiude gli anni Novanta con l’abbraccio rassicurante di un atterraggio riuscito nelle comode piste del punk-pop, con Dave Grohl che veste i panni del pilota e non più quelli di un sabotatore come ai tempi degli Scream.

L’equilibrio dell’aeroplano tiene. E viaggia esattamente tra i cuscini pop di Bob Mould e le nuvole grigie dei Queens of the Stone Age.

Un disco dalla banalità sconcertante, per certi versi (Next Year farebbe vergognare anche una boy band e il nostro Gianluca Grignani la scriverebbe con la mano sinistra, tanto per dirne una, NdLYS). Che però riesce a centrare il bersaglio di penetrare nella programmazione delle radio FM (be’, stiamo pur sempre parlando di canzonette) e dare visibilità a quello che si continua a considerare alternativo e che tuttavia non si è mai capito a cosa lo sia.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE MERCY BROTHERS – Strange Adventure (Gibraltar)

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Messi in pausa i Savages, Barrence Whitfield cerca di capitalizzare quanto registrato con l’amico Tom Russell concentrandosi su una attività live che gli rende più di qualsiasi disco con la band. Assieme al chitarrista dei Radio Kings Michael Dinallo mette dunque in piedi gli Hillbilly Voodoo, con un set di canzoni di stampo country con cui gira per l’America prima e per l’Europa dopo.

Per anni.

Durante una data in Norvegia si imbattono in Vidar Busk, piccolo eroe rockabilly locale che pian pianino riaccende in loro la passione per il suono vigoroso di una rock ‘n’ roll band. Nascono così i Mercy Brothers che hanno il compito di dare nervo alle canzoni scritte da Dinallo, scritte pensando a vecchi eroi come Doc Watson, Buddy Guy, Woody Guthrie, Mississippi John Hurt, Leadbelly e alle quali Busk dona un tocco alla Eddie Cochran/Duane Eddy (Mr. Johnson, Stay Away from My Door) che quadra il cerchio.

Strange Adventure contiene tanta America che sembra vederla gocciolare sul pavimento. Barrence Whitfield si toglie il suo fez e la raccoglie come in un catino. E asperge i presenti.  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

 

STRYCH9 – Toxicparty (Musica & Suoni)

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Con un nome che è un (velato?) omaggio ai Sonics e una copertina ispirata alle maggiorate dei B-movies erotici dei sixties, tornano sul piede di guerra i (quasi) riformati Boppin’ Kids, sebbene l’età da riformatorio sia stata superata da un bel po’.   

Avete letto bene, i Boppin’ Kids. Vale a dire la più scatenata, anfetaminica e giovane gang di rockabilly italiana dello scorso decennio. Un rientro che riscatta in parte Brando dalle insulsaggini cantautoriali di cui sono infarciti i suoi lavori solisti.

Fin qui tutto bene, come nel celebre film.

Ma, almeno su disco, i risultati di cotanta enfasi propositiva sono invece alla fatta dei conti meno eccitanti del previsto.

Il vecchio contrabbasso rutilante di Blasko The Razor non è più della partita (al suo posto c’è, sotto pseudonimo, Toni Carbone dei Denovo, NdLYS). E si sente.

Quel martellante slapping che aveva trasformato classici come Tainted Love e Mexican Radio in due sferraglianti cavalcate sull’asfalto rovente ha lasciato il posto a qualcosa di più professionale forse ma sicuramente meno istintivo e pressante. Gli anni a quanto pare passano per tutti, nonostante il Viagra voglia illuderci del contrario.

Rimane intatta la passione per i vecchi losers che hanno illuminato anche per una sola notte il firmamento del rock ‘n’ roll più sboccato e fangoso (dai Gaylads di Ronnie Cook ai Cramps passando per Surfaris e Mɘtɘors) ma l’urgenza giovanile che animava un capolavoro come Go Wild! sembra inevitabilmente sbiadita e annebbiata. La stessa differenza che passa tra una bella scopata e una connessione online con Youporn. O tra un’onesta bottega artigiana e una catena di montaggio. E che comunque, per il prezzo ridicolo di 22.000 lire val la pena di andare a visitare.

Franco “Lys” Dimauro

SEVEN STOREY – Dividing by Zero (Deep Elm)  

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Ecco il disco che può tentare di risollevare le quotazioni della Deep Elm, ultimamente in calo a causa di un eccesso di autoindulgenza che si respira in molte produzioni col suo marchio rotondo.

I Seven Storey hanno carattere e stile propri e poco a che spartire con tanta paccottiglia emo: diverso il loro background e diversi i risultati, Dio li abbia in gloria. Sono forti ad esempio i legami con certa new-wave (a me è parso di sentire affiorare in più di un caso il ghigno di Andy Partridge e dei suoi XTC…) ma quello che colpisce è la fantasia ritmico-melodica in cui i tre ragazzi americani incuneano queste loro ascendenze, degna di gruppi come Fugazi e All e cresciuta in maniera esponenziale dai tempi di Leper Ethics, il tutto “trattenuto” dai timbri evocativi della voce di Lance Lemmers, a tratti vicino allo spleen epico dei vocalists di Alice in Chains o Days of the New (ascoltate pezzi come Paper and Quill oppure Enough Already per sincerarvene, NdLYS). Notevoli, sul vero senso della parola.

                                                                                Franco “Lys” Dimauro

 

 

 

U.S. MAPLE – Purple on Time (Ruminance)

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Il sospetto mi era balenato leggendo un titolo come Lay Lady Lay, che ricordavo spiaccicato sull’orizzonte Nashvilliano di Dylan o al massimo ammassato un po’ a casaccio tra le molte di lui cover che i Byrds ci regalarono nel medesimo periodo, nella scaletta del disco. Vedere gli U.S. Maple, da sempre formazione avanguardista tra quelle che hanno scelto il blues (inteso più nel senso di “sofferenza” piuttosto che in quello di genere) come metodo catartico di purificazione, alle prese con un classicissimo di quella portata era la conferma che quanto Acre Thrills aveva lasciato solo supporre era in realtà il primo passo verso una “normalizzazione” delle devianze che la band di Al Johnson aveva sputato in dischi come Long Hair in 3 Stages o l’inarrivabile Sang Phat Editor. E in realtà, malgrado il rumore e lo sfruttamento del rumore rimangano ovviamente la base estetica del gruppo americano il nuovo e peraltro eccellente album sposta il tiro verso una forma-canzone ancora sghemba, atonale e curvilinea ma a tratti più concreta (My L’il Shocker, Dumb in the Wings, ma anche certe “isole” che il gruppo sceglie di abitare all’interno delle altre otto tracce).

Il corpo deforme degli U.S. Maple si trascina ancora una volta in questo pantano abitato da ombre che si allungano storpie (Whoopee Invader, Oh Below) o che spiano incombendo minacciose ma sembra stavolta voler inciampare di meno, scegliendo spesso di evitare le buche piuttosto che fermarsi a vedere il cielo riflettersi torbido dentro quelle vaschette idrogeologiche piene di piscio.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro


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