CLOCK DVA – Thirst (Fetish)

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Il concetto di musica industriale era uno dei più ambigui fra quelli nati all’indomani del punk per definire le mille strade intraprese dalla progenie di musicisti nati dalla fermentazione di quegli acini: un concetto “stringente” dal punto di vista programmatico con la volontà dichiarata di abbattere ogni accenno alla gradevolezza e dall’altro lato sufficientemente “mobile” per fecondare in quel ventre una miriade di gruppi dalle mille anime, oppure senza anima.

I Clock DVA di Sheffield, ad esempio, lavoravano su un substrato assimilabile al glam ricurvo e sfigurato dal dub dei primissimi Bauhaus e su innesti jazz obliqui e decadenti associabili allo spirito dei Tuxedomoon. White Cell è il pezzo che racchiude e sviluppa alla perfezione questa mistura e ne estetizza al meglio la commistione col suo basso modulato a gradini, la voce chiaroscurale alla Peter Murphy e il suo free-jazz che diventa richiamo onomatopeico da safari musicale.

Simile, ma con un’aria più macabra, la minacciosa North Loop che apre la seconda facciata e dove un arpeggio di chitarra si sgrana fra lo zoppicare del basso e il pigolare dei fiati agonizzanti.  

Sensorium e Piano Pain assecondano invece il lato più febbrile e nevrotico della musica della band, sviluppato secondo le logiche della ripetitività e della reiterazione ma anche subendo il fascino del disordine e del caos che vi restano imprigionati dentro.     

Nessuna traccia di macchine e attrezzi da catena di montaggio, se la vostra idea di industrial a quelli è legata. Piuttosto, un assemblaggio sonoro di inaudita ed efficace libertà creativa e di fortissima suggestione espressionista.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Sub Pop 100 (Sub Pop)

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A fare davvero la storia sarà, due anni dopo, Sub Pop 200, ma questo fu l’inizio di tutto. Talmente inizio che non ne trovate menzione neppure sul sito dell’etichetta, dove fra l’altro la nascita della label è attestata addirittura nel 1988.

Siamo qui invece nel 1986, a Seattle, e Bruce Pavitt è ancora un venticinquenne in fissa col “pop sotterraneo” che si muove come una tenia sotto la crosta dura dell’America. Con quel nome ha già messo in piedi una fanzine e ora, facendo tesoro del materiale che gli arriva un po’ da mezzo continente, vuole stampare qualche disco. Senza grosse pretese, generando suo malgrado l’ultimo grande fenomeno di costume del XX secolo. Una rivoluzione che in qualche modo è già in nuce in questa mezz’oretta di musica che vede allineata una dozzina di band che saranno fra gli ispiratori del primo grunge, Wipers, Scratch Acid, Sonic Youth, U-Men in primis. E poi un tot di mentori del “fastidio”, dagli Skinny Puppy ai Boy Dirt Car, dai Lupe Diaz ai Savage Republic fino agli sperimentalismi di Steve Fisk che da lì a breve diventerà uno dei produttori di fiducia dell’etichetta mettendo le mani sui primi singoli di Soundgarden, Walkabouts, Screaming Trees, Beat Happening, Helios Creed. Il mondo non è ancora pronto, ma Bruce Pavitt sta preparando la sua rivoluzione.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

KILLING JOKE – Revelations (EG)

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We Have Joy! urla Jaz Coleman sul terzo brano di Revelations, quando i motori della loro macchina di tortura sono ormai a regime.

Ma nessuno gli crede.

Se gioia c’è, è una gioia perversa dove sottomissione e peccato si sublimano in una risata folle e diabolica.

C’è un senso di alienazione e di afflizione terribile che percorre tutta la storia dei Killing Joke fino a questo punto della carriera. E che si riverbera fra rumori di catene e campanacci sinistri dentro quello che è ritenuto a torto l’album più debole della loro trilogia storica e che è invece un altro girone infernale di allucinata pazzia. Nient’affatto, invece: Revelations è un disco sanguinante come una piaga suppurata. A cambiare è il nostro approccio alla loro musica che adesso si è, come dire, assuefatta a quel clima di perdizione che trasuda da ogni loro nota, dal loro ferreo e coriaceo combat-rock suonato da dentro un panzer che ad un certo punto qui si arresta inaspettatamente: Jaz Coleman e Kevin Walker scendono dal mezzo blindato e vanno incontro al buon samaritano, lo invitano a salire a bordo e partono per l’ultimo giro sulle macerie di quel che altri hanno distrutto e su cui i Killing Joke passano sopra con spiritato affanno cantando la loro ennesima canzone di guerra, vestiti come dei mago Zurlì malvagi:

Eat to be, and a tootly-too I’ll be too, and a k-k-k-koo A goggly, diggly, hoppity doo.

Fuori cade l’ultima neve. Che si scioglie sul metallo rovente, così come si spegne una risata davanti a una notizia funesta. Nessuno ride, dentro e fuori di qua.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

HEAD OF DAVID – ‘LP’ (Blast First)

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Il fragore è quello dei Killing Joke, centuplicato fino a farlo sembrare il rumore assordante di un’officina industriale. Justin Broadrick ha lasciato i Napalm Death nel bel mezzo delle registrazioni di Scum per diventare il boia di David ed esportandone la brutalità, sfigurando i riff in un maelström catastrofico e metallico dentro cui anche la Rocket U.S.A. dei Suicide finisce per diventare ferro liquefatto, come nelle grandi industrie siderurgiche della Black Country da cui provengono.

Chitarra e basso suonano senza mai “affrontare” veramente un riff ma lavorando per accumulo di tensione e rumore, giungendo con Shadow Hills California all’apice del costrutto, trascinando il glam proteiforme dei primi Bauhaus (le cui sagome da pipistrello si avvertono già fra le ombre della precedente Joyride Burning X sotto le forme del celebre mantello dark con cui coprirono la salma di Bela Lugosi, NdLYS) dentro un altoforno per vederli sciogliere fra le fiamme. Snuff Rider M.C., dal canto suo, si ferma ad un passo dai Ministry, guardando il cyber-punk dritto negli occhi prima di sferrargli un calcio con gli anfibi proprio sulle palle.

Potenziali eredi del male estremo degli Swans, gli Head of David non riuscirono ad andare molto oltre lo status di cult-band, presto risucchiati nell’ombra degli enormi Godflesh che Broadrick riuscirà ad imporre come il nuovo avamposto industrial/noise degli anni Novanta.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SWANS – Greed (K.422)

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I dischi degli Swans del 1986 (Time Is Money, Greed, Holy Money e A Screw) portano tutti il simbolo del dollaro in copertina. E di quello parlano, essenzialmente. Dell’avidità pornografica che dilania l’uomo e che rivendica il suo ruolo dominante nelle dinamiche sociali e individuali, della sua dottrina manipolatrice e arrivista e dell’abbrutimento che ne deriva.

Il Michael Gira di Greed, l’album della svolta dopo la barbarie annichilente dei primi dischi, sembra un demone che affiora dagli abissi, come se la furia devastatrice di Filth e Cop, una volta passata, abbia lasciato dietro di sé uno spettacolo spettrale e silente in cui rimbomba ancora e soltanto l’eco del suo passaggio, null’altro. Come se fossero i passi dello Yeti.

Tutto il disco libera una catarsi ossianica che celebra il disfacimento della civiltà occidentale. Michael Gira è il Sansone che tira giù le colonne su cui poggia. Il mare si riversa in un lungo conato di fango e detriti.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GILLA BAND – Most Normal (Rough Trade)

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Per il suo terzo album la band irlandese cambia nome ma non l’approccio disturbante a cavallo tra industrial, noise e gli immancabili Fall che anzi mettono in mostra sin da subito, alzando la saracinesca su un’officina di rumori praticamente insostenibile, quasi a voler fare una prima scrematura tra chi è referenziato per potersi inoltrare e chi invece sarà costretto a restare sull’uscio, facendo finta di essere finito lì per caso mentre portava il cane a pisciare.   

Quella della Gilla Band resta una musica disturbante, eccessiva, molto spesso priva di coordinate musicali vere e proprie e simile ad una radio ad onde corte che capta segnali indecifrati dall’etere post-industriale, rumori spuri, dissonanze, notiziari, brandelli di conversazioni e di talk-show politici, lembi di pelle squamata caduta sotto le brande d’obitorio su cui sono stesi i corpi di Whitehouse, Jesus Lizard, Radiohead, Scorn, Strokes, Fall, Membranes, Glaxo Babies.

Un mondo che si sfalda e soffoca nelle sue macerie, quello della Gilla Band. Come il nostro. Per quello ci fa così tanta paura.        

         

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BIG BLACK – Songs About Fucking (Touch and Go)

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Un disco spietato e cattivo, il secondo Big Black. Violento di sicuro e oltraggioso ai limiti della misoginia, con un eloquente disegno di copertina e un ancora più esplicito bozzetto sul retro. Che stavolta è “retro” per davvero. E che conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, come Albini si diverta ad associare il suo nome a tutti i peggiori “…ismi” della storia e si spinga ad una intransigenza che ostacolerà la carriera della band, costretta ad accettare la sua scelta di tenere fuori gay e gente di colore dai locali dove si esibivano. 

Dentro quella copertina esplode tutta l’agonia del noise abusato da un approccio industrial, fino all’asfissia. Ma con in mezzo tutta la goduria sado-maso con cui Steve Albini, lo sfortunato Dave Riley e Melvin Belli riescono a provare sotto i colpi da incudine della loro drum-machine, mai così pelvica come dentro i loro dischi. Una musica che è meccanica ma che gronda sangue e liquidi corporei, come delle ruote dentate che abbiano appena finito di triturare carne fresca (Kitty Empire, The Power of Independent Trucking, L. Dopa, Colombian Necktie o la cupa volta neogotica di Tiny, King of the Jews) e che sono il definitivo passaggio di consegne dall’era dell’hardcore all’era di Trent Reznor.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GIRLS IN SYNTHESIS – Konsumrausch (Hound Gawd!)

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Macchine incrostate e sudicie che sputano veleno. Un’elettronica torva che sembra una versione radicale dei fuochi d’artificio dei Girls Against Boys. Chitarre, basso e tastiere che si contendono lo stesso spettro audio, le medesime frequenze distorte ed iperamplificate, che avanzano come un gigantesco tsunami fino a negarti la vista di altri orizzonti che non sia quel muro sonoro. Fino ad inghiottirti e tumularti nel silicio.

Come per lo Shift in State dello scorso anno, i pezzi sono soltanto cinque e anche qui le incursioni esterne, come quelle di Bypassing, vengono mescidate e fuse con il tramortente wall of sound del terzetto londinese, finendo per essere inglobate nella cortina di ferro e metallo innalzata a difesa dei loro pezzi invece che rilasciare qualche pigmento di colore. L’approccio è brutale quanto quello dei Wire, dei quali rappresentano una deriva da società neo-barbarica e post-atomica che “scarica” i pezzi direttamente da un bombardiere invece che da una batteria terra-terra.

Droni ronzanti coprono il cielo di Londra come enormi ragni meccanici. Chissà che non vi vengano a prendere nel sonno per portarvi dentro qualche incubo che non avete ancora visto in tv.    

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE WOLFGANG PRESS – The Burden of Mules (4AD)

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Prima che le canzoni dei Wolfgang Press prendessero forma e, poi, che cambiassero forma, prima di tutto ciò c’era stato The Burden of Mules. Potete immaginarlo come uno schizzo, un bozzetto di idee, un incompleto blocchetto di appunti dove la formazione inglese prende nota di quel che gli piace. E quel che gli piace, all’epoca, sono gli Au Pairs, il Pop Group ma soprattutto i Pil di Metal Box. Come loro, hanno subìto il fascino della musica industriale e della sua austerità da catena di montaggio, la decadenza di quei capannoni che accumulano prodotti e scarti al medesimo tempo, lo sgomento dell’uomo costretto ad ubbidire alle macchine per creare altre macchine che lo divoreranno. C’è un senso di follia e di alienazione dentro il debutto dei Wolfgang Press, avvolto un cilicio post-punk ma con le maglie allentate, come il retino di certi rullanti cui viene sganciata la molla per ottenere quel riverbero cupo e sfibrato che sa di pelle morta. Il suono della band è incerto e claudicante, sorretto da una stampella di basso, circondato da rumori blandi, frammentati, sparsi, informi e fa leva più sull’atmosfera d’insieme che su vere e proprie canzoni. Non c’è letizia, dentro The Burden of Mules, tutti i colori sono banditi. L’Inghilterra è una nazione piovosa.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DEPECHE MODE – Some Great REWARD (Mute)

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La ridefinizione del loro stile attraverso il prudente ma determinante innesto di suoni industriali all’interno del banale synth-pop dei primi anni trova compimento e consapevolezza con Some Great REWARD, l’album dello scarto definitivo, quello che consegna ai Depeche Mode un qualche posto nella storia della musica moderna salvandoli dall’effimero. Se il disco precedente risultava ancora “scucito” e slegato, Some Great REWARD esibisce una compattezza fino a quel momento inedita per il gruppo inglese. Una coesione che non è tanto dettata da un’omogeneità di suono che di fatto non c’è bensì dalla percezione evidente, tangibile di trovarsi davanti ad un disco importante, ad un salto di statura artistica, ad una pregnante mutazione di pelle, alla definizione di un carattere simile a quello che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta che per i Depeche Mode si concretizza tra i suoni meccanici di pezzi come Master and Servant (con un geniale campionamento di scatarri a simulare lo schioccare delle fruste sadomaso), Something to Do, People Are People (realizzata con degli “scarti di lavorazione” dei Fad Gadget trovati negli studi Hansa) e Blasphemous Rumours e il decadente e cupo romanticismo di Somebody e It Doesn’t Matter che odorano di Mitteleuropa e di Berlino. In quest’ottica, lo scatto di copertina risulta incredibilmente azzeccato: l’immaginario industriale, già evocato su Construction Time Again con una silhouette che richiamava le pose operaie dei Test Dept, adesso diventa seducente e romantico.

Il sociale diventa scenografia indissociabile dal personale. I Depeche Mode salvano sé stessi e il synth pop dal termovalorizzatore degli anni Ottanta.                 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro