Il concetto di musica industriale era uno dei più ambigui fra quelli nati all’indomani del punk per definire le mille strade intraprese dalla progenie di musicisti nati dalla fermentazione di quegli acini: un concetto “stringente” dal punto di vista programmatico con la volontà dichiarata di abbattere ogni accenno alla gradevolezza e dall’altro lato sufficientemente “mobile” per fecondare in quel ventre una miriade di gruppi dalle mille anime, oppure senza anima.
I Clock DVA di Sheffield, ad esempio, lavoravano su un substrato assimilabile al glam ricurvo e sfigurato dal dub dei primissimi Bauhaus e su innesti jazz obliqui e decadenti associabili allo spirito dei Tuxedomoon. White Cell è il pezzo che racchiude e sviluppa alla perfezione questa mistura e ne estetizza al meglio la commistione col suo basso modulato a gradini, la voce chiaroscurale alla Peter Murphy e il suo free-jazz che diventa richiamo onomatopeico da safari musicale.
Simile, ma con un’aria più macabra, la minacciosa North Loop che apre la seconda facciata e dove un arpeggio di chitarra si sgrana fra lo zoppicare del basso e il pigolare dei fiati agonizzanti.
Sensorium e Piano Pain assecondano invece il lato più febbrile e nevrotico della musica della band, sviluppato secondo le logiche della ripetitività e della reiterazione ma anche subendo il fascino del disordine e del caos che vi restano imprigionati dentro.
Nessuna traccia di macchine e attrezzi da catena di montaggio, se la vostra idea di industrial a quelli è legata. Piuttosto, un assemblaggio sonoro di inaudita ed efficace libertà creativa e di fortissima suggestione espressionista.
Franco “Lys” Dimauro