THE RUNAWAYS – The Runaways (Mercury)

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La scommessa fra Joan Jett, una smorfiosa ragazzina sedicenne di Los Angeles e Kim Fowley, l’impresario e tuttofare che continuava a puntare le sue fiches su vecchi leoni e su puledri ancora scalpitanti, si era aperta nel febbraio del 1975. Sei mesi dopo, Mr. Fowley aveva vinto l’intero piatto: aveva messo in piedi la prima all-female band di rock and roll, almeno in America: “la risposta femminile ai Grand Funk”, aveva dichiarato. E un po’, lo erano.

Attorno al “perno” della Jett erano state “avvitate” Cherry Currie, Sandy West, Micki Steele e Lita Ford. Poi, dopo un po’ di rodaggio Micki aveva lasciato il suo posto a Jackie Fox per girovagare a lungo prima di finire nella band femminile per eccellenza degli anni Ottanta, le Bangles.

Intanto le Runaways avevano messo su un discreto repertorio cui lo stesso Fowley aveva contribuito in sede di scrittura e che aveva alla fine fissato su lacca e pubblicato nei primi mesi del ’76. La Fox verrà accreditata, per non smentire il risultato che era lo scopo della scommessa, come bassista ufficiale dell’album ma in realtà a “dettare” le linee di basso verrà chiamato l’amico Nigel Harrison dei Blondie.

La polvere pirica era quella dei più classici riffoni squadrati che giravano sui dischi dell’hard rock più proletario (Grand Funk, Mountain, Rush e affini), modulati il più delle volte su un boogie di chiara impronta rock ‘n’ roll (Blackmail, You Drive Me Wild) oppure ostentando la schietta semplicità del primo Lou Reed (American Nights, la cover della sua Rock N Roll) e ammiccando ora alla bubblegum ora al power-pop senza mai abbracciarne fedelmente lo stile, mirando più al pubblico dei KIϟϟ che a quello dei Bay City Rollers. Con gli occhi puntati addosso di entrambi gli schieramenti.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HELLACOPTERS – Grande Rock (White Jazz)

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Al terzo album gli Hellacopters sono ormai un’istituzione dell’hard-rock europeo. Grande Rock resta fondamentalmente attaccato agli stessi modelli, pur spostando gradualmente lo sguardo verso un suono più stereotipato che tuttavia non riesce ad esplodere con la straripante virulenza nugentiana che pare voglia esprimere “in potenza” (la versione “riveduta e corretta” pubblicata venticinque anni dopo sarà, a confronto, davvero incendiaria, NdLYS) e che resta in qualche modo “imprigionata” fra i solchi. Il tiro del gruppo svedese rimane comunque formidabile, una doccia fredda di chitarre che si ricompatta creando un sostegno tenace, ruvido a linee vocali limitate spesso a poche strofe e sempre pensate per i grandi bagni di folla e l’adrenalina collettiva. Pezzi come The Electric Index Eel, Action de Grâce, The Devil Stole the Beat from the Lord, Move Right Out of Here, 5 Vs. 7 sono classici al primo ascolto, punture d’imenottero che arrossano la pelle, rock che non conosce le redini.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GUNS N’ ROSES – Use Your Illusion I/II (Geffen)

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Il 17 settembre 1991 quattro corpi celesti si allineano nel firmamento della musica rock: sono i quattro pianeti di Use Your Illusion, che in quel momento riescono ad eclissare con la loro ombra pure Nevermind dei Nirvana e il pianeta nero dei Metallica.

Tutti i telescopi sono puntati su di loro, qui dal pianeta Terra. L’orizzonte di aspettative generate da Appetite for Destruction aveva legittimato l’attenzione smisurata, adeguatamente alle proporzioni del nuovo progetto: trenta canzoni nuove di zecca, per due ore e mezza di musica di quella che è fino a quel momento la band più gettonata del pianeta.

Metà, una buona metà sarà da buttare. Ma sarà proprio quella metà, quella in cui la band decide di disfarsi dei fucili per dedicarsi alla cura del roseto, a contribuire in maniera determinante al suo successo anche fra il pubblico che il rock-spazzatura se lo mangiava già a colazione.

I Guns N’ Roses erano venuti a patto con quel mondo, durante questa traversata nel fiume in piena di Use Your Illusion, con ballate stucchevoli come Don’t Cry, November Rain, Civil War, 14 Years, Yesterdays, So Fine, Estranged, The Garden di cui si sarebbero vergognati anche gli Aerosmith più svenevoli, una cover stomachevole di Knockin’ on Heaven’s Door, una inutilmente lunga e confusa Coma che bastava mettere sottovuoto come certi maglioni di kashmir per ridurre l’80% di aria che contiene e quel tentativo di abbordaggio di basso livello al crossover per fortuna abortito dopo novanta secondi di My World che riducevano l’inutile ingombro di due doppi album a quello di un album singolo.   

Quattro vinili che, se ti tagli il dito passandolo sul bordo, non esce che solo qualche goccia di sangue.

Quattro vinili. Come l’amico che si vanta di averlo più lungo degli altri. E che poi finisce per bagnarsi le scarpe quando piscia in compagnia.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ALICE COOPER – Killer (Warner Bros.)

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Halo of Flies è una di quelle cose che ti appende per le palle e ti lascia dondolare al soffitto fino a che non ti si strozza la prostata. Ma, nonostante l’eccesso di megalomania in cui Vincent Furnier sta sprofondando, Killer è una degna replica di Love It to Death, il disco di appena otto mesi più vecchio e che ha permesso ad Alice Cooper di salire nella Top 40 e di poter pisciare da lassù.

Certo, visto che non abbiamo ancora finito di battere le mani ala prima dello spettacolo shock-rock della strega del rock, gli applausi che sottolineano canzoni come Be My Lover, You Drive Me Nervous, Yeah, Yeah, Yeah o Under My Wheels sembrano più uno strascico spontaneo di quelli tributati a Is It My Body, I’m Eighteen e Caught in a Dream e i passaggi macabri del disco (Dead Babies, Killer) stavolta non provocano nessun brivido, solo un copioso, raccapricciante granduignolesco rovescio color sangue. Un sequel un po’ masticato. Come quelli de Lo Squalo e de La Casa.         

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THIN LIZZY – Jailbreak (Vertigo)

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Chissà in quale girone infernale sarà finito Phil Lynott. Lui che già in vita ne aveva girati un po’ per sua scelta e molti altri perché gliel’avevano mandato. I critici musicali non erano mai stati teneri con la sua musica e i Thin Lizzy erano finiti nella bolgia delle band più bistrattate dai giornalisti, assieme a Grand Funk Railroad, Buffalo, Blue Öyster Cult, Mountain, tutte ugualmente considerate “approssimative”, volgari ed inutilmente “ingombranti”.

Jailbreak è il disco che sfonda le porte all’hard-rock proprio mentre fuori dilaga il punk, permettendogli di evadere. Un disco tosto, con le chitarre in grande spolvero, robuste, dense e “carnose” come quelle del miglior pub-rock e del blues-rock primordiale dei Free. Però con un’attitudine guerriera per certi versi affine a quella delle band di southern-rock americano.

Ai Thin Lizzy piace ancora, nonostante i tempi li abbiano resi di colpo anacronistici, la vertigine dell’assolo bruciante, della jam, della fiamma valpurgica che brucia sulla cima del massiccio del rock. Si muovono come Sansone fra le colonne del tempio filisteo mentre cantano il memento mori del blues-rock irlandese.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GRETA VAN FLEET – Starcatcher (Lava/Republic)

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Tre fratelli minorenni che, invece che sfidarsi alla Playstation, decidono di mettere su un gruppo rock. E non un gruppo di rock moderno, futurista e futuribile ma un gruppo di classic rock, di quelli che odorano di anni Settanta come certi cappotti nell’armadio della zia ottantenne, ottantenne come la signora cui i tre si ispirano per dare un nome al loro progetto.

Sembrerebbe la sceneggiatura di una soap opera per adolescenti, se non fosse che i Greta Van Fleet già dal debutto riescono a riappropriarsi di quel linguaggio che in realtà suona un po’ come suonava la lingua volgare nei libri dell’Ottocento e a renderlo credibile e, soprattutto, appetibile. Colmando un vuoto che nessuno pensava ci fosse, e invece c’era. E non era un vuoto da poco ma un autentico buco nero dentro cui centinaia di migliaia di persone piace infilarsi dentro per farsi trasportare in un mondo parallelo. In molti ci passano dentro e si trovano faccia a faccia con i Led Zeppelin, anche se non li riconoscono.

Al netto di queste osservazioni da boomer che per comparazione vorrebbe convincere i ragazzini che lui certe cose le ha già viste e vissute e che se non lo ha fatto ha vissuto in un’epoca così vicina a quando le cose avevano un sapore più autentico, raccontare storie che nessuno ha voglia di ascoltare sull’epoca dei dinosauri, i Greta Van Fleet hanno nel frattempo acquisito uno status di tutto rispetto nell’odierna geografia rock, ponendosi trasversalmente come oggetto di desiderio per almeno tre generazioni di audiofili e continuano a dare calci al loro sogno e a fare gol: Starcatcher sembra destinato sin dal primo ascolto a riaffermare il gruppo del Michigan come una delle più potenti macchine di retro-rock del 2023 in virtù di dieci canzoni ottimamente strutturate attorno a quel vecchio modo di intendere il blues-rock e il folk elettrico che fece la fortuna e la leggenda degli Zeppelin (e anche quello formulato su un ampio e scaltro gioco di furterelli e un abile posizionamento di specchi: https://reverendolys.wordpress.com/2016/07/08/led-zeppelin-the-great-blues-rock-swindle/, NdLYS) e di cui The Falling Sky rappresenta forse l’apogeo.

I fratelli Kiszka sembrano aver trovato chi lo sa per quale fortuna il feretro di Icaro ed essere riusciti chissà con quale stratagemma a farlo tornare in vita, pronto per il nuovo volo verso il sole. Stavolta coprendo d’amianto le sue ali di cera. Non resta che augurargli buon viaggio.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ACϟDC – T.N.T. (Albert Productions) 

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Due acronimi esplosivi campeggiano sulla copertina del disco che, a pochi mesi dal debutto, definisce il canone espressivo degli ACThunderbolt (slash).svgDC. Un tripudio di rock ‘n’ roll basico ed essenziale, evocato già dai titoli delle canzoni, forgiando un lessico cui la band avrebbe dedicato una vastissima parte del proprio striminzito ma efficace vocabolario e che si concede l’unico vezzo di omaggiare la lontana patria scozzese nel bellissimo anthem che apre il disco sfoggiando il richiamo delle cornamuse. Sarebbero state divorate dal pubblico l’anno seguente. E Bon Scott non ne avrebbe più comprate delle altre. Peccato.

T.N.T. era trionfale comunque. Raccontava il sogno di un riscatto conquistato votandosi alla legge del rock ‘n’ roll, la nuova Legione Straniera per chi viveva ai margini del perbenismo e dell’ovvietà rassicurante di una vita mortalmente normale, quella di chi vive “dalle nove alle cinque”, la causa ribelle di chi si sente inadeguato per privilegio divino e rivendica il proprio diritto ad abbandonarsi alla liturgia del divertimento. Proprio come nelle feste da ballo degli anni ’50 e ’60. Una fede che gli ACThunderbolt (slash).svgDC non abbandoneranno mai, anche quando scenderanno velocemente lungo la pista per l’Inferno, sicuri di fare bagordi anche da quelle parti.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

KIϟϟ – KIϟϟ (Casablanca)

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Il 28 settembre del 1972 il pianeta di Ziggy Stardust passa sopra New York. Fra i tanti terrestri con il naso all’insù ci sono Gene Klein e Stanley Eisen, all’epoca impegnati in una band di pallido rock and roll e folk elettrico chiamata Wicked Lester. Per i due musicisti è un autentico battesimo di fuoco. I KIϟϟ nascono praticamente quella sera, anche se il nuovo nome viene presentato al pubblico solo quattro mesi dopo, dopo aver convocato Ace Frehley e Peter Criss e aver proposto loro la loro idea di rock ‘n’ roll e aver studiato fin nei minimi dettagli l’immagine neo-glam derivata tanto da quella di Ziggy quanto da quella di Alice Cooper che li porterà a costruire i loro alter-ego: The Demon, The Starchild, The Catman, The Spaceman.

Sono le famose “maschere” dei KIϟϟ diventate sin da subito icone del rock scenografico americano e capaci di superare intatte interi decenni e decretare parte del successo della band newyorkese.  

KIϟϟ è il primo di una lunga serie di album via via sempre meno dignitosi ma qui la sfera di hard, glam-rock e bubblegum è ancora rotonda e perfetta. E arriva in porta più di una volta, già ad inizio partita con la bella Strutter e qualche minuto dopo col calcio asciutto e deciso di Cold Gin, per poi regalare nel secondo tempo un calcio di rigore spettacolare come quello di Deuce impossibile da parare e proprio al novantesimo una Black Diamond dove ogni lustrino cade dalle loro tute e la band sembra trasformarsi in una versione alla liquirizia dei Traffic.

Millenovecentoquarantaquattro anni dopo Giuda i KIϟϟ mandano il secondo bacio più famoso e sporco della storia.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BLUE ÖYSTER CULT – Blue Öyster Cult (Columbia)

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I giri sono quelli dei Cream, dei Canned Heat e di certi Steppenwolf, aridi e assetati di blues. Però con dentro qualcosa di maligno e una vocazione verso quell’immaginario della science-fiction che ne farà i padrini di una certa ala del metal-rock di cui verranno citati tra i fondatori, proprio per questo gusto dell’eccesso e della spettacolarizzazione estrema. Ma anche per quella batteria di chitarre che sfoggiano sul palco quando si dispongono come un plotone, aggredendo la folla.  

Ne vengono fuori pezzi come Scream che contiene già tutto l’Alice Cooper che sta per arrivare, Workshop of the Telescopes o Transmaniacon MC che sanno di zolfo, metallo e circuiti prestampati e che si alternano ai pezzi che scelgono le strade più ovvie di un guitar-rock fumigante che dipana le matasse elettriche del boogie-blues e quelle del country-folk, in una visione prismatica che si allunga fino al southern rock. Sulle loro enormi ruote d’acciaio i BÖC cilindrano le strade che da New York portano al Texas passando i campi dell’Alabama.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro