ECHO & THE BUNNYMEN – Echo & The Bunnymen (WEA)  

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Una ventina di persone coinvolte: un vero e proprio cantiere di lavoro.

Come se si dovesse costruire la Torre Eiffel.

E invece si mette su il monumento funebre alla memoria dei Bunnymen.

Artistico e, per un atroce scherzo del destino, pure personale. Pete de Freitas, che era già fuggito dalla tana dei conigli e rientrato quando le sedute di registrazione più turbolente della carriera dei Bunnymen erano già cominciate, lascia infatti qui il suo testamento musicale. Un incidente stradale se lo porterà via appena due anni dopo.

McCulloch abbandonerà poco dopo, salvo riformare la band dieci anni più tardi una volta che la sua carriera solista aveva bucato la palla d’aria del suo ego.

Echo & The Bunnymen quindi conclude il “ciclo storico” dei fantastici uomini-coniglio di Liverpool. E non è un finale col botto. È piuttosto un pasticciaccio, pieno di sonaglini e tastiere che vorrebbero esaltare il romanticismo e la dannazione doorsiana che si agita da qualche tempo nella tundra new-wave del quartetto (di questo periodo sono le reprise di People Are Strange e Soul Kitchen) e che vengono consacrate dalla partecipazione di Ray Manzarek alla registrazione di Bedbugs and Ballyhoo che finisce sull’album.

Il tono è solenne ma patinato, condotto con timbro enfatico ed astuto da un McCulloch che crede di essere il miglior cantante sulla faccia della terra, fermandosi ad un passo dal patetico (ma cedendo alla tentazione di buttarvisi dentro su Lost and Found coi suoi controcanti da Carmina Burana di quartiere e nella successiva, infinita New Direction dove Ian si arrampica, inciampando, su una scala vocale che vorrebbe toccare le nuvole). Eppure, nonostante i limiti di un suono annacquato come il vino servito durante la messa e la lotta impari con i capolavori che l’hanno preceduto, Echo & The Bunnymen è un disco pop (perché è questo che il presidente della Warner vuole: replicare il successo di un million-seller come So di Peter Gabriel) con un suo fascino. Dettato più dal mestiere che da una reale ispirazione artistica probabilmente, ma il cui giudizio è stato da sempre inquinato dal preconcetto secondo cui, se hai scritto un capolavoro (e Ocean Rain lo era stato), non puoi più permetterti di fare altro.

Soprattutto se ora sono le classifiche a darti ragione.

Perché le labbra sono come lo zucchero.

Ma le bocche, spesso, sono come il veleno.

                                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

THE MOURNING AFTER – Tall, Dark & Gruesome (Screaming Apple)

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Il secondo album un lunghissimo silenzio per i Mourning After di Sheffield è illuminato da una buona stella. Al centro di quella stella c’è un pezzo killer come Girl, You’re Outta Sight sorta di versione leggermente alterata delle classiche canzoni dei Prisoners e dei Creeps di inizio carriera. Non è l’unico pezzo eccellente di un disco che non lesina niente in quanto a suoni letteralmente imbottiti di chitarre fuzz e organo Farfisa ma anche di armonica a bocca (formidabile quella di Cryin’ Over You) e crepitanti armonizzazioni grungey-folk alla stregua dei Cynics e che ricuce la storia della formazione inglese proprio nel punto in cui si era lacerata anni fa.

Il “mattino dopo” è finalmente arrivato dopo una notte lunga e tormentata dalle creature “alte, sinistre e raccapriccianti” ritratte sulla copertina di questo fenomenale booster di adrenalina garage-punk.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JEFF CONOLLY – Back to Mono(man)

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Nell’inferno bostoniano dei ‘70 Jeff Conolly suona punk con in testa Stooges, Pretty Things, Sonics, Kinks, Chocolate Watch Band, Troggs.

La sua band si chiama DMZ.

Non come DeliMitarized Zone ma come Down My Zipper: Tirami giù la cerniera.

Un gruppo punk con un organo Vox.

Un gruppo punk che suona i Sonics, i Wailers, i 13th Floor Elevators e i Troggs, pure.

Sono loro il vero tassello che unisce la scena punk al garage rock dei sixties. Loro sono il “missing link”, in grado di mettere in scaletta Are You Gonna Be There? di fianco a Search & DestroyTeenage Head accanto a Glad All Over.

Se c’è insomma una band che più di tutte può assurgere a snodo fra il punk del ’77 e l’inaspettata esplosione neo-garage dei primi anni Ottanta, questa band sono i DMZ.

L’uomo dentro l’una e l’altra cosa si chiama Jeff Conolly, un appassionato collezionista di vecchi sette pollici garage/beat preferibilmente incisi in mono (da cui mutuerà il nick con cui passerà alla storia), preferibilmente incisi male, preferibilmente incisi e mai comprati da nessuno se non da qualche fanatico. Jeff è un agitatore della scena di Boston, proprio nei tempi in cui dire punk vuole dire essere messo al bando dalla gente comune e non finire sulle copertine delle ragazzine premestruate. Non è lui, tuttavia, a mettere in piedi i DMZ; in realtà la band esiste già, ed ha pure il suo bel cantante, tale Adam Schwartz. Ma Jeff si presenta nel loro garage durante le prove e gli ruba il microfono. Non per due pezzi, ma per due anni e mezzo buoni. All’epoca nella band ci sono ancora David Robinson in transito dai Modern Lovers ai Cars e Mike Lewis. Ma è quando i loro posti vengono rilevati da Paul Murphy e Rick Coraccio della Children R&R Band che l’avventura dei DMZ ha veramente inizio. Allestito un repertorio da brivido, la band tira su i pezzi per un EP (ricordate la famosissima foto di Greg Shaw con in mano un 45giri targato Bomp!?, ecco…è quello lì, NdLYS) e per un album la cui produzione viene affidata a Flo&Eddie, gli ex-Turtles diventati coristi di lusso per T. Rex, Steely Dan ed Alice Cooper che, chissà perché, in quel periodo vogliono sporcarsi le mani col punk.

E si sporcano. Ma non quanto dovrebbero.

Perché DMZ, che resta un album di quelli che se li tiri su per l’ano il culetto possono spaccartelo per davvero, e il suo tripudio di chitarre e riff stoogesiani (chiedete ai Monster Magnet a proposito di Busy Man e Don’t Jump Me Mother) punte dal fischio dell’organo di Conolly viene in parte “soffocato” da una produzione che invece tende a posizionare basso e batteria un passo davanti al ferroso delirio rock ‘n’ roll che ricorda invece una versione esacerbata e marcia dell’”american-beat” dei Fleshtones. Ma nonostante questo e malgrado Greg Shaw avrebbe puntato più di una volta il dito sul lavoro di produzione, l’album dei DMZ resta un disco incredibile, una delle pietre fondanti di tutto il recupero neo-sixties che dilagherà a breve e di cui essi stessi, sotto il nuovo moniker Lyres, saranno fra i protagonisti più sinceri.

 

Nel 1981 Greg Shaw arriva ad aggiustare ciò che Flo & Eddie avevano rovinato sull’album di debutto dei DMZ. Lo fa, come al solito, con il suo stile a metà tra l’operazione salvifica in nome del rock ‘n’ roll più viscerale e la cialtroneria da stratega del business, la stessa che frutterà alla Bomp! prima e alla Voxx subito dopo enormi compensi su dischi semi-illegali messi su raschiando fondi di barile o mettendo sul mercato album senza autorizzazione da parte degli artisti. Per sistemare la scaletta di Relics, ad esempio, Greg mette insieme i quattro pezzi dell’E.P. di debutto della band di Boston aggiungendo cinque demo dello stesso periodo.

Sul cadavere dei DMZ Greg tornerà ad infierire ancora, con la pubblicazione di When I Get Off, nel 1993 ma Relics esce in un momento chiave, ovvero a ridosso del debutto dei Lyres, versione garage-punk del punk-garage dei DMZ e rappresenta in qualche modo uno degli snodi della rivoluzione sixties-punk che si sta avviando in America, assieme all’E.P. di debutto degli Unclaimed e il “manifesto” di Battle of the Garages edito da Voxx proprio quello stesso anno (annunciando al mondo l’arrivo dei profeti Chesterfield Kings, Slickee Boys, Crawdaddys, Unclaimed, Plasticland).

Il suono dei DMZ affonda infatti le radici nel suono proto-punk degli Stooges e di gruppi beat estremi come Troggs, Sonics, Pretty Things (dei quali rifanno qui Can’t Stand the Pain) e 13th Floor Elevators (la cover allucinata di You’re Gonna Miss Me, pubblicata un soffio prima di quella dei Radio Birdman, segna l’inizio di tutto il revival garage punk di cui il pezzo scritto da Erickson diventa da subito l’emblema assoluto).

È un suono marcio e spiritato che nel suono convulso di Busy Man (che Conolly penserà bene di portarsi nel repertorio dei Lyres) e nei cinque minuti dello stomp voodoo di When I Get Off ha già posto le basi per diventare a suo modo immortale. Due anthem a confronto dei quali il resto, dal rock ‘n’ roll alla Flamin’ Groovies di Do Not Enter alla Shirt Loop su cui si sente pesante la mano di Craig Leon (l’uomo che era stato dietro la console del debutto dei Ramones), è quasi esercizio di stile.

 

Ma l’anello si rompe presto. Due anni e mezzo, come dicevo. Poi la band si divide in due. Gli Odds da una parte, i Lyres dall’altra. I primi non realizzano nulla, a parte un oscuro pezzo finito su una compilation della Throbbing Lobster. I secondi invece….

Be’, i secondi sono la nuova band di Jeff Conolly, inteso Mono Man per la sua passione viscerale per i dischi in monofonia e per la strumentazione vintage: organi Vox e Farfisa ma anche qualche chitarra d’epoca come la Danelectro appartenuta a Jonathan Richman spesso ritratta con orgoglio sulle copertine dei suoi dischi, il primo dei quali esce nel 1984 e si intitola On Fyre.

Con lui ci sono pure Rick e Paul della vecchia band. Ma il carisma di Jeff è tale da oscurare tutti. Il suono dei Lyres è l’ideale proseguimento delle intuizioni dei DMZ, tale come poteva esserlo in piena febbre garage. Il suono dei Lyres ha perso i lineamenti da pub-rock per avvicinarsi a una forma di beat più classico, pieno di armonizzazioni figlie dei Kinks (I Confess, I‘m Tellin’ You Girl). E dei Kinks sono pure due delle cover scelte per affiancare i pezzi di Conolly: Tired of Waiting for You e Love Me Til the Sun Shines.

Ma ci sono pure echi di Kingsmen, Seeds, ? and The Mysterians e Sonics a far capolino lungo tutto il disco.

Il Farfisa di Mono Man è ora il protagonista assoluto.

Un fischio penetrante che ti perfora i timpani e che diventa il tratto peculiare del suono dei Lyres malgrado il disco passi alla storia soprattutto per il tremolo devastante di Help You, Ann, straniante e circolare più di quello di Up in My Mind degli Spontaneous Generation e per il riff martellante di Don‘t Give It Up Now oltre che per la bellissima I Really Want You Right Now aggiunta nell’edizione europea.

Fieramente legato ai canoni del rock ‘n’ roll più squinternato degli anni Cinquanta e Sessanta Jeff seppe fare dei Lyres una band dal suono riconoscibilissimo, unico senza costringere i suoi compagni a vestirsi con in mano le vecchie foto degli Standells o degli Yardbirds ed evitando con cura di mettersi in posa per la foto di copertina di un suo disco. Incredibile.

 

Nel 1986 i Lyres si riappropriano della loro She Pays the Rent, rubatagli in maniera infame dagli svedesi Nomads. Lo fanno ispirandosi a un fantastico singolo pubblicato nell’85 dalla Willy B Review dove Willy Baken reinterpreta al ralenti la storica That’s How Strong My Love Is. Non è l’unico ripescaggio che MonoMan fa sul secondo disco dei suoi Lyres. Dentro c’è pure spazio per una nuova versione di How Do You Know? (la facciata A del singolo con cui i Lyres hanno debuttato nel 1979 sulla minuscola etichetta bostoniana Sound Interesting) e addirittura una nuova versione della sempiterna Busy Man dei DMZ, ribattezzata Buzy Men per sottrarre quel 15/20 per cento di diritti che sarebbero altrimenti toccati alla Bomp!.

Insomma, Jeff Conolly pare intenzionato a riprendersi quello che gli spetta di diritto, groupies comprese. Una la mette in posa sulla copertina di Lyres Lyres cercando di evocare (ma non tutti lo capiranno, ne’ allora ne’ dopo, NdLYS) una famosa posa plastica delle confezioni di sigari El Producto in cui una donna in abito lungo tiene in mano una lira, su una terrazza che si affaccia sul mare di Cuba.

Eccetto che per il batterista, la band è la stessa del primo album, produttore compreso. Un disco in qualche modo speculare al precedente, con la differenza che se On Fyre rendeva il suo doppio tributo al suono dei Kinks, Lyres Lyres stavolta paga doppio pegno a Wally Tax e Ron Splinter con le cover di Teach Me to Forget e I Love Her Still, I Always Will assecondando una delle tante ossessioni musicali di Jeff, autentico cultore del rock ‘n’ roll degli anni ’50 e ’60 e divoratore di vinile.

Dalla sua sterminata collezione stavolta prende in prestito No Reason to Complain degli Alarm Clocks, Stormy dei Jesters of Newport, If You Want My Love dei Nightcrawlers e You‘ll Never Do It Baby dei Cops & Robbers e aggiunge sei pezzi suoi, come da tradizione.

Monoman è il principe del Farfisa-sound.

I Lyres una band dal suono riconoscibilissimo.

I loro denigratori un pugno di idioti.

Io, che li amo, il capo degli idioti.

   

Dopo il tour promozionale di supporto a Lyres Lyres, Jeff Conolly si ritrova circondato da un gruppo sfinito. Anche il vecchio compagno di avventura Rick Coraccio gira i tacchi per raggiungere gli Shambles di Artie Sniederman e Steve Aquino e spetta al solo Monoman il compito di restaurare i Lyres.

Per A Promise Is a Promise in studio vengono convocati Jack Hickey, Matt Miklos e Johnny Bernardo. É la formazione con cui arrivano per uno storico concerto pisano con i Birdmen of Alkatraz, nel novembre del 1987. L’album arriva l’anno successivo e segna una parziale svolta stilistica nel suono del gruppo di Boston. Il fischio delle tastiere di Jeff viene ridimensionato e l’intero sound del gruppo sembra volersi divincolare dagli schematismi settoriali dei primi dischi aprendosi al gusto del pubblico delle college-radio americane. Ecco quindi un funk pericolosamente vicino al Freaky Styley dei Red Hot Chili Peppers come Every Man for Himself o una I‘ll Try Anyway che, con una produzione più sporca, non avrebbe sfigurato su New Day Rising degli Hüsker Dü (anche loro, guarda caso, devoti alla musica sixties).

I riferimenti diretti ai padri putativi sono stavolta indirizzati, così come era stato per i Kinks sul primo e gli Outsiders sul secondo, ai Love. On Fyre e Worried About Nothing infatti, nonostante portino la firma di Conolly, sono delle classiche pennellate alla Arthur Lee che sembrano colate giù dalla tela di Da Capo.

Il resto è ciò che rimane del suono dei Lyres spurgato dalla sporcizia primitiva che Tim Warren ha risucchiato dentro il vortice del fantastico Live at The Cantones pubblicato appena qualche mese prima accendendo un riflettore sui micidiali concerti della band di Boston nei primi anni di vita, una volta chiusa la zip dei DMZ (cerniera che qui Jeff tenta di riaprire ripulendo la loro Bad Attitude e dimostrando che di quell’attitudine cattiva in effetti ne è rimasta ben poca, NdLYS), con tanto di sfoggio di amicizie eccellenti come il tossico Stiv Bators che presta la sua voce alla cazzuta cover di Here‘s a Heart di Dave Dee, Dozy, Beaky, Mich & Tich e Wally Tax degli Outsiders che fa altrettanto per la rendition live della sua Touch ripresa dal vivo proprio in Olanda.

Una promessa è una promessa insomma.

Ma un bel disco dei Lyres è un bel disco dei Lyres.

E non è certo questo.

 

Chiuso il contratto esclusivo con la Ace of Hearts tocca a due etichette contendersi le produzioni dei Lyres: la spagnola Imposible e la storica Taang! di San Diego. Ne vengono fuori una serie di produzioni dal contenuto spesso condiviso (il singolo We Sell Soul/Busy Body, il mini Nobody But Lyres, il live She Pays the Rent registrato a Madrid nel 1987, le raccolte We Sell Soul e Some Lyres e la collezione di cover Shitkickers). In mezzo a questa valanga di produzioni, Happy Now è l’unico titolo ad essere concepito come album organico (anche se alla fine non lo è del tutto, NdLYS).

Galvanizzato dalla richiesta di partecipare ad una compilation-tributo (sì, sono quegli anni lì…) in omaggio a Roky Erickson, Conolly appena rientrato a Boston dopo un anno passato a San Diego dove recluta i membri dei Nashville Ramblers (Ron Silva, Tom Ward, Carl Rusk) come gruppo di supporto, rimette in piedi la vecchia band con Coraccio e Paul Murphy e li “costringe” a suonare quel che a lui piace (come rivelerà Rick in una intervista, qualunque nota prodotta dai Lyres DOVEVA accontentare le richieste ed assecondare il palato di Jeff, altrimenti sarebbe stata eliminata): sono otto cover in parte già usate per Nobody But Lyres cui vengono aggiunti tre brani (i migliori) registrati dal vivo, dimensione in cui il suono dei Lyres raggiunge sempre i risultati migliori.

Il suono dell’organo di Conolly è sempre lì, come uno spillo ficcato a pungere i piccoli classici minori di Phil and The Frantics, Roadrunners, Dale and The Devonaires, Scavengers e Rolling Stones, a ricordarci che esiste un mondo da cui è impossibile sfuggire.

 

Le registrazioni in studio destinate al mini-album di debutto mai pubblicato vengono editate nel 2013 dalla Munster su Lost Lyres. I Lyres all’epoca hanno ancora pubblicato solo un singolo e, fin alla pubblicazione dell’album di debutto del 1983, resteranno un gruppo di nicchia, ascoltato solo dai pochi che grazie al lavoro delle formazioni della costa Ovest come Unclaimed e Crawdaddys stanno aprendo gli occhi sul mondo del recupero della musica beat dei Sixties. Rispetto a quelle, il suono dei Lyres fa leva sul timbro ossessivo ed infetto dell’organo, sullo stile dei Mysterians e del Sir Douglas Quintet, primi punti di riferimento della band prima di spostarsi sui suoni europei di gruppi come Kinks e Outsiders.

Un bellissimo viaggio nei Lyres “perduti”. Perché dei Lyres non ne ho mai abbastanza. Voi si?

 

                                                                                  Franco “LYreS” Dimauro

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TUXEDOMOON – Half-Mute (Ralph) / Desire (Ralph)

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Immaginate la sala da ballo de Il Gattopardo popolata degli scheletri della Danse Macabre. 

In un angolo del salone un’orchestra che suona note intagliate nel ghiaccio, sputando aria gelida sui brandelli di macramè, sui divani broccati, sulle radiche di noce, sugli specchi e sui lampadari di ambra e cristallo.

Sembrano venire da un altro pianeta.

O forse da un po’ più vicino, dalla Luna.

Fanno musica da camera pensando a quelle del Castello di Elisabetta Bàthory, su a Cachtice.

Nei salotti perbene dell’Old Europa, all’epoca, non li conosce ancora nessuno anche se il gruppo (che in realtà viene da San Francisco, e non dai crateri lunari) ha più di un riferimento con certa musica elettronica europea di stampo krauto.

E difatti lì finiranno, dopo pochissimi mesi.

Prima a Rotterdam, quindi a Bruxelles.

A musicare balletti, pièce teatrali, set d’avanguardia, mostre d’arte e altri dischi.

Tutti assieme, divisi, in duo, in trio. Molti belli, qualcuno brutto. Altri inutili. 

Ma sono i primi anni, come accade quasi sempre, quelli per cui vale la pena spendere tutto.

Piccoli capolavori sospesi tra decadentismo, avanguardia, jazz ed elettronica.

Half-Mute è la prima compiuta sintesi espressionista tra gli studi di musica elettronica che Blaine L. Reininger e Steven Brown stanno seguendo con profitto al City College di San Francisco e le avanguardie free jazz e la pre-wave di Brian Eno, Roxy Music, John Cale, Kraftwerk e David Bowie con cui ammazzano i loro pomeriggi mentre i loro coetanei scendono in strada a sventrare carcasse di auto e pisciare dalla ringhiera del Golden Gate Bridge.

Un disco che oggi soffre il peso degli anni ma che all’epoca, all’alba degli anni Ottanta e dopo le brucianti escoriazioni del punk, suonava come un delirante, illogico assalto alla musica contemporanea.

Half-Mute rappresentava allora un nuovo modo di essere ostili, utilizzando a proprio favore gli elementi della musica colta e cameristica ma ricontestualizzandola dentro le cornici inox delle nuove avanguardie giovanili.  

Con distacco, freddezza e imperturbabile cinismo.

Una rappresentazione moderna, una Biennale di arredamento musicale.

Half-Mute è, oggi come allora, un disco che non scalda.

Half-Mute è una tormenta di neve sintetica, come quella delle riprese del Dottor Zivago.

Agghiaccianti canzoni come 59 to 1, Loneliness o 7 Years sembrano suonate da un reparto della Schutzstaffeln. Senza l’ombra di un sorriso, senza nessuna concessione al gioco.

Il preludio alle ambientazioni meno raccapriccianti del secondo disco sono raffigurate dalla tromba che si stende sopra il basso sferico di Fifth Column, il pop meccanico di What Use?, il violino che batte le ali come una falena dentro Volo Vivace, e il convulsivo cigolio meccanico di KM/Seeding the Clouds.

La band porta il disco sui palchi del Vecchio Continente mostrandosi permeabili alle drammatizzazioni del ballo contemporaneo e del teatro di avanguardia con cui vengono in contatto e a cui rubano nuovi elementi che elaboreranno nel secondo album.

La musica che abita Desire è una musica da ballo che annienta il movimento, che ti strangola. Ma lo fa con l’eleganza di un elastico da papillon.

Ha queste curve discendenti come quelle di East e Again che debbono suonare un po’ come il rumore dell’acqua dentro le orecchie di chi sta decidendo di affogare dentro il Danubio blu.

C’è quest’aria di frac sporcati di tamarindo e succo di pera che si muovono dentro il vortice del valzer annoiato di Jinx.

Ci sono i loro cadaveri che gemono su Victims of the Dance.

C’è il retrobottega da emporio cinese di Music # 1.

C’è la musica algida da Spazio 1999 di Incubus e In the Name of the Talent.

C’è il siparietto da film muto di Holiday for Plywood.

E c’è l’elettronica nera della title track, fitta come la pioggia dell’ultimo fotogramma di Blade Runner.

Piove, dentro la musica dei Tuxedomoon, come sugli zigomi di Roy Batty.

E i nostri cuori ne raccolgono.

Come grondaie sotto cieli di piombo. E di silicio.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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SOUNDGARDEN – Badmotorfinger (A&M)

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Il 1991 è l’anno in cui il grunge capitalizza, diventando l’affare musicale del decennio e, col senno di poi, l’ultimo investimento non strutturale delle multinazionali del disco. Tutto ciò cui le major si dedicheranno negli anni successivi, di fronte alla crisi del mercato del disco e allo sviluppo del junkismo illegale, sarà solo il reinvestimento con poco capitale sul “catalogo” e sulla I-tunizzazione del proprio materiale d’archivio e una lunga ristrutturazione aziendale fatta di fusioni, incorporazioni, abbattimenti, cessioni, licenziamenti e quant’altro.

Sono gli ultimi anni in cui gli A&R delle case discografiche vengono pagati per battere il territorio come cani da tartufo in cerca di galline dalle uova d’oro da far diventare i nuovi beniamini della popolazione indie-rock, da allora in poi resteranno comodamente seduti davanti al loro desk scandagliando la rete.

Insomma, il grunge fu l’ultimo bagno di sudore della storia del rock.

L’ultima esperienza totalizzante condivisa dalle folle “alternative” e confortata dai dati di vendita.

Dopo torneranno le nicchie. E, non a caso, si comincerà anche a parlare di “post”.

Com’era stato per il dopo-punk. Una stagione di riflusso. Stavolta più lunga del previsto.

Ma è in quest’anno palindromo che si gioca la scommessa sul grunge, con i dischi che marcheranno a fuoco l’intero decennio ma di cui molti, anche tra i profeti, ancora ignorano la portata.

Il 16 aprile è proprio la A&M a celebrare l’intera scena e il primo martire che ogni fenomeno rock che si rispetti deve esibire con la pubblicazione dell’album dei Temple of the Dog.

Il martire era Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone.

Il 28 maggio è la volta del grunge fluorescente di Gish degli Smashing Pumpkins, da Chicago.

Il 27 agosto esce Ten dei Pearl Jam, destinati a diventare l’ultima rock band del millennio anche se nessuno lo sa ancora.

Il 24 settembre arriva Nevermind dei Nirvana.

Rockerilla, la rivista che aveva odorato il culo alla scena di Seattle quando il grunge era ancora una belva famelica e aveva “adottato” il movimento in Italia, gli dedica una striminzita recensione indicandolo come un’ottima scopiazzatura dei Replacements e sacrificando ben due pagine della rubrica al doppio color nero dei Metallica e al quadruplo odor di cacca dei Guns N’ Roses.

Credo si siano morsi le mani per i dieci anni successivi.

L’8 ottobre viene pubblicato Badmotofinger dei Soundgarden.

I cloni sono già alle porte, educati agli esercizi di copiato. Si chiamano Everclear, Bush, Stone Temple Pilots, Stiltskin, Creed, Silverchair. Il plurale è quasi bandito dall’iconografia della vera grunge-band. Chissà perché.

I Soundgarden sono, tra tutti, quelli con una propensione più marcata verso il metal spacca timpani. Vuoi per l’uso di riff elaborati e vorticosi, vuoi per l’ugola di Chris Cornell, capace all’epoca di eguagliare la forza di un Robert Plant e o di un Dave Tice.

Ma in loro vive questo innovativo taglio cerebrale e concentrico che fa ancora storcere la bocca a tanti. Non solo ai metallari. È qualcosa di strutturalmente complesso, cervellotico, spiazzante. E loro lo sanno, ne sono consapevoli.

Come il riff contorto di Jesus Christ Pose, tutto incurvato e rappreso.

Saranno loro stessi a definirlo simile al rumore delle pale di un elicottero.

Una roba con cui ora abbiamo fatto pace ma che allora suonava del tutto aliena.

Io ci misi qualche mese per aprirgli la porta di casa.

Rusty Cage non gli è da meno. È meno spiritato ma è il riff-chiave dell’hard-rock moderno come quello di Whole Lotta Love lo era stato per quello storico.

Sesta corda abbassata in SI e un rapidissimo raddoppio di legati che, filtrati attraverso un effetto a pedale, sembrano fare andare il riff a rovescio.

Il nuovo bassista (dapprima “bocciato” e poi recuperato tra i ranghi proprio prima di entrare in studio, NdLYS) Ben Shepherd porta con se un ottimo gusto creativo.

È sua l’idea del giro torcibudella di Jesus Christ Pose così come sono in parte farina del suo sacco gli scatti propulsivi e la furia hardcore che violenta Face Pollution e totalmente sua è la dolcezza di Somewhere che diventerà il canovaccio estetico per i Soundgarden melodrammatici di Fell on Black Days e Black Hole Sun su Superunknown.

La scrittura dei ‘garden trova su Badmotorfinger la giusta pista di asfalto per lanciare il proprio velivolo in fuga dal loro aeroporto privato e pronto a solcare i cieli del mainstream-rock di fine secolo, muovendosi tra gli archi torti di Mind Riot, le montagne russe del tour-de-force di New Damage, e i trampolini di Drawing Flies o Room a Thousand Years Wide con tanto di fiati fusi assieme alla colata di zolfo dei riff di Kim Thayil. È con questo disco che si consegnano alla storia del rock come gli Zeppelin della stagione del grunge. Una folgore infuocata che squarciò il cielo plumbeo del rock ficcandosi nella pietra come un’Excalibur che ancora nessuno è riuscito a tirare fuori dalla roccia.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

RADIO BIRDMAN – Live in Texas (Citadel)  

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Se hai delle canzoni così, non puoi sbagliare.

Infatti, alle 22.45 del 24 giugno 2007 i Radio Birdman salgono sul palco dell’Eto‘s di Austin e non falliscono un colpo. Saltano Dallas e due giorni dopo replicano al Meridian di Houston.

Ancora con la stessa convinzione di trenta anni prima e un album di inediti uscito solo da qualche mese e che è un gatto a nove code che pesta a morte le carni delle giovani rock bands che hanno infestato il pianeta. Questo live tratto da quelle due serate è il preludio al box antologico che porterà alla luce demo e altre pepite della più grande band australiana DI SEMPRE.

Sono sedici pezzi registrati in quel tour. Vecchi e nuovi, più qualche cover di circostanza (Kinks, Who, BÖC).

Il suono è teso come una fune d’acciaio, con le chitarre di Tek e Chris Masuak che si guardano fisse negli occhi, riempendo ogni cosa come un blob gelatinoso.

Pip Hoyle è rimasto a casa, a stringere la mano al figlio William fino alla sua morte.

I Radio Birdman suonano anche per lui.

I Radio Birdman suonano per ognuno di noi.

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

 

THE NEW CHRISTS – Gloria (Impedance)

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Le prime novità di chiamano Brent Williams (sei corde nei Two Headed Dog) e Dave Kettley (dei Dead Set, prodotti proprio da Rob Younger): sono loro le nuove chitarre ad affiancare Rob da We Got This! in avanti. L’altra cosa nuova è la label: piccola, fiera e indipendente. Quella che resta intatta è la furia grezza dei New Christs. Torbida come la loro storia, iniziata quasi 30 anni fa e sputata fuori a singhiozzi: uno scaracchio di sangue ogni volta che Rob sentiva il bisogno di espettorarsi dalle sue ulcere di rock ‘n’ roll.

Gloria è un disco dove le chitarre marcano il territorio, forse anche in maniera eccessiva. La prima parte del disco rimane quasi “schiacciata” dalle sei corde mentre a mio avviso i New Christs danno il meglio di se quando questo muro di suono si sgrana, come quando su Psych Nurse fa capolino un malinconico piano a rendere tutto un po’ più sofferto. L‘imminente tour chiarirà se, come sospetto, è solo un “vizio” di produzione. Nel frattempo, Gloria ci farà comunque ottima compagnia.                  

                                                                       Franco “Lys” Dimauro 

CLAP YOUR HANDS SAY YEAH – Only Run (Xtra Mile)  

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Furono tra i primi, se non i primi in senso assoluto, a tirare la Rete in barca. Beneficiando della visibilità offerta da Internet per diventare una band di culto e, pure, di discreto successo.

Poi le sabbie di Internet hanno inghiottito anche loro.

E, sotto la rena, è impossibile battere le mani e profferir parola.

Ad applaudire il rientro in scena dei reduci di quell’avventura (Alec e Sean), nove anni dopo l’omonimo debutto, sono rimasti in pochi.

Come le foche monache e le orche assassine.

Forse qualche nostalgico della new-wave gelida degli Ultravox mitteleuropei che non si è mai rassegnato a riporre in armadio lo spolverino.

Only Run è infatti come girare per Vienna, senza sapere bene cosa guardare.

Distese su un tapis-roulant di sintetizzatori, le n(u)ove canzoni dei CYHSY sono corpi asessuati che gemono pur senza alcuna voglia di fare l’amore, sotto una pioggia incessante che non disseta ne’ sazia.

Vienna era molto, molto più bella negli anni Ottanta.

Berlino negli anni Settanta.

CYHSY lo erano negli anni Zero, quando anche io ero più buono.

 

Franco “Lys” Dimauro

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DOME LA MUERTE – Poems for Renegades (Japan Apart)

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Il primo applauso voglio farlo a Francesco Pelosi, che su questo disco non suona un cazzo, ma vale quanto gli altri. Sono sue le foto del libretto che corredano il cd. Come se a qualcuno importasse ancora fare dei dischi con la cura con cui si dovrebbero porgere al pubblico. Come se a qualcuno importasse ancora che i dischi abbiano una copertina. Come se a qualcuno importasse ancora dei dischi.

Dome però non ha mai smesso di farli. Mai da solo, sempre in tribù. Anche ora che ha deciso di mettere solo il suo nome in copertina, attorno al fuoco ha chiamato un po’ di amici: Maurizio Curadi, Bonnie Von Vodka, Lorenzo Carpita, Paolino Favilla, Lance Helson, Salvo Sequino, Matteo Gioli, Claudio Bianchini, Marco Marini e tanti altri. Anche donne. Alcune vestite, molte nude. Come lui.

Perché è sempre un po’ quello il senso di un disco acustico no? Esibirsi nudo, senza scudi. Dome poteva farcela, perché quando sei nudo, puoi fare affidamento solo su due cose: o il tuo cuore o il tuo pisello.

E devi essere sicuro di averli sempre messi nel posto giusto, per poterli esibire.

Ora non so dove lui abbia sistemato il secondo ma in quanto al primo, potrei garantire perché la sua carriera e il suo tocco valgono come prove, anche davanti a una Corte d’Assise. Pur con queste premesse però Poems for Renegades non è un disco perfetto, appollaiato tra Dylan (Billy One, scritta da lui medesimo per il film su Pat Garrett), country music (Talkin’ Truck Stop), flash western (Renegade Song, il migliore tra gli strumentali che sono disseminati su tutto il disco, NdLYS), stomp blues (Blue Stranger Dancer) e una deliziosa forma di storpia folk song psichedelica che in They Will Fall raggiunge vette di grande lirismo grazie alla sovrapposizione di sitar, armonica blues e la chitarra a 12 corde del preziosissimo Curadi, ergendosi a capolavoro del disco assieme al conclusivo raga di Drops che si riannoda proprio a quel concetto di psichedelia da giungla che fu degli Steeple Jack (anche se qui il Curadi è assente) e alla curiosa cover dei Ramones che la precede.  

Altrove (Shine on Me, Tonight It‘s Raining, Poem for Alex) riaffiorano alla mente certi angoli acustici dei Flor de Mal che alcuni (pochi) non hanno mai dimenticato.

Eppure, in tutta questa grazia di Dio, Poems for Renegades suona un po’ irrisolto, come se gli fosse mancato del tempo, come una torta tirata via dal forno un po’ troppo in fretta. O forse sono io che non mi siedo più a tavola con l’appetito di una volta….

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

SUICIDE – Suicide (Red Star)    

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Lo metteremo nello scaffale del punk.

Per comodità e per abitudine.

Come quelli che si ostinano a riporre Il Mucchio tra le riviste di musica.

In realtà col punk vero e proprio il debutto dei Suicide c’entra poco e nulla, se non per il fatto che il duo newyorkese fosse, all’epoca, la band underground più odiata dai punk stessi.

Suicide, il disco, è un album che suona come il cadavere di Gene Vincent divorato dalle larve sarcofaghe.

O, se preferite gli accostamenti musicali, i Throbbing Gristle che rifanno i Cramps.

Prima che esistessero gli uni e gli altri.

Un raccapricciante rosario di cicale sintetiche, sciabordio di elettricità statica e  rantoli strozzati di un infoiato quindicenne alla sua prima seduta di autoerotismo.

È il riadattamento sinottico e meccanico della psichedelia ossessiva e concentrica dei Seeds, opportunamente scuoiata ed eviscerata di ogni sentimento o desiderio.

Il sibilante sintetizzatore di Martin Rev e la singhiozzante voce di Alan Vega producono uno dei più eclatanti corto-circuiti della storia della musica moderna.

Alle 20.37 del 13 luglio del 1977 New York piomba nel buio più totale, finchè le luci dell’alba non vengono a riprendersela, devastata.

 

Franco “Lys” Dimauro

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