Nell’inferno bostoniano dei ‘70 Jeff Conolly suona punk con in testa Stooges, Pretty Things, Sonics, Kinks, Chocolate Watch Band, Troggs.
La sua band si chiama DMZ.
Non come DeliMitarized Zone ma come Down My Zipper: Tirami giù la cerniera.
Un gruppo punk con un organo Vox.
Un gruppo punk che suona i Sonics, i Wailers, i 13th Floor Elevators e i Troggs, pure.
Sono loro il vero tassello che unisce la scena punk al garage rock dei sixties. Loro sono il “missing link”, in grado di mettere in scaletta Are You Gonna Be There? di fianco a Search & Destroy, Teenage Head accanto a Glad All Over.
Se c’è insomma una band che più di tutte può assurgere a snodo fra il punk del ’77 e l’inaspettata esplosione neo-garage dei primi anni Ottanta, questa band sono i DMZ.
L’uomo dentro l’una e l’altra cosa si chiama Jeff Conolly, un appassionato collezionista di vecchi sette pollici garage/beat preferibilmente incisi in mono (da cui mutuerà il nick con cui passerà alla storia), preferibilmente incisi male, preferibilmente incisi e mai comprati da nessuno se non da qualche fanatico. Jeff è un agitatore della scena di Boston, proprio nei tempi in cui dire punk vuole dire essere messo al bando dalla gente comune e non finire sulle copertine delle ragazzine premestruate. Non è lui, tuttavia, a mettere in piedi i DMZ; in realtà la band esiste già, ed ha pure il suo bel cantante, tale Adam Schwartz. Ma Jeff si presenta nel loro garage durante le prove e gli ruba il microfono. Non per due pezzi, ma per due anni e mezzo buoni. All’epoca nella band ci sono ancora David Robinson in transito dai Modern Lovers ai Cars e Mike Lewis. Ma è quando i loro posti vengono rilevati da Paul Murphy e Rick Coraccio della Children R&R Band che l’avventura dei DMZ ha veramente inizio. Allestito un repertorio da brivido, la band tira su i pezzi per un EP (ricordate la famosissima foto di Greg Shaw con in mano un 45giri targato Bomp!?, ecco…è quello lì, NdLYS) e per un album la cui produzione viene affidata a Flo&Eddie, gli ex-Turtles diventati coristi di lusso per T. Rex, Steely Dan ed Alice Cooper che, chissà perché, in quel periodo vogliono sporcarsi le mani col punk.
E si sporcano. Ma non quanto dovrebbero.
Perché DMZ, che resta un album di quelli che se li tiri su per l’ano il culetto possono spaccartelo per davvero, e il suo tripudio di chitarre e riff stoogesiani (chiedete ai Monster Magnet a proposito di Busy Man e Don’t Jump Me Mother) punte dal fischio dell’organo di Conolly viene in parte “soffocato” da una produzione che invece tende a posizionare basso e batteria un passo davanti al ferroso delirio rock ‘n’ roll che ricorda invece una versione esacerbata e marcia dell’”american-beat” dei Fleshtones. Ma nonostante questo e malgrado Greg Shaw avrebbe puntato più di una volta il dito sul lavoro di produzione, l’album dei DMZ resta un disco incredibile, una delle pietre fondanti di tutto il recupero neo-sixties che dilagherà a breve e di cui essi stessi, sotto il nuovo moniker Lyres, saranno fra i protagonisti più sinceri.
Nel 1981 Greg Shaw arriva ad aggiustare ciò che Flo & Eddie avevano rovinato sull’album di debutto dei DMZ. Lo fa, come al solito, con il suo stile a metà tra l’operazione salvifica in nome del rock ‘n’ roll più viscerale e la cialtroneria da stratega del business, la stessa che frutterà alla Bomp! prima e alla Voxx subito dopo enormi compensi su dischi semi-illegali messi su raschiando fondi di barile o mettendo sul mercato album senza autorizzazione da parte degli artisti. Per sistemare la scaletta di Relics, ad esempio, Greg mette insieme i quattro pezzi dell’E.P. di debutto della band di Boston aggiungendo cinque demo dello stesso periodo.
Sul cadavere dei DMZ Greg tornerà ad infierire ancora, con la pubblicazione di When I Get Off, nel 1993 ma Relics esce in un momento chiave, ovvero a ridosso del debutto dei Lyres, versione garage-punk del punk-garage dei DMZ e rappresenta in qualche modo uno degli snodi della rivoluzione sixties-punk che si sta avviando in America, assieme all’E.P. di debutto degli Unclaimed e il “manifesto” di Battle of the Garages edito da Voxx proprio quello stesso anno (annunciando al mondo l’arrivo dei profeti Chesterfield Kings, Slickee Boys, Crawdaddys, Unclaimed, Plasticland).
Il suono dei DMZ affonda infatti le radici nel suono proto-punk degli Stooges e di gruppi beat estremi come Troggs, Sonics, Pretty Things (dei quali rifanno qui Can’t Stand the Pain) e 13th Floor Elevators (la cover allucinata di You’re Gonna Miss Me, pubblicata un soffio prima di quella dei Radio Birdman, segna l’inizio di tutto il revival garage punk di cui il pezzo scritto da Erickson diventa da subito l’emblema assoluto).
È un suono marcio e spiritato che nel suono convulso di Busy Man (che Conolly penserà bene di portarsi nel repertorio dei Lyres) e nei cinque minuti dello stomp voodoo di When I Get Off ha già posto le basi per diventare a suo modo immortale. Due anthem a confronto dei quali il resto, dal rock ‘n’ roll alla Flamin’ Groovies di Do Not Enter alla Shirt Loop su cui si sente pesante la mano di Craig Leon (l’uomo che era stato dietro la console del debutto dei Ramones), è quasi esercizio di stile.
Ma l’anello si rompe presto. Due anni e mezzo, come dicevo. Poi la band si divide in due. Gli Odds da una parte, i Lyres dall’altra. I primi non realizzano nulla, a parte un oscuro pezzo finito su una compilation della Throbbing Lobster. I secondi invece….
Be’, i secondi sono la nuova band di Jeff Conolly, inteso Mono Man per la sua passione viscerale per i dischi in monofonia e per la strumentazione vintage: organi Vox e Farfisa ma anche qualche chitarra d’epoca come la Danelectro appartenuta a Jonathan Richman spesso ritratta con orgoglio sulle copertine dei suoi dischi, il primo dei quali esce nel 1984 e si intitola On Fyre.
Con lui ci sono pure Rick e Paul della vecchia band. Ma il carisma di Jeff è tale da oscurare tutti. Il suono dei Lyres è l’ideale proseguimento delle intuizioni dei DMZ, tale come poteva esserlo in piena febbre garage. Il suono dei Lyres ha perso i lineamenti da pub-rock per avvicinarsi a una forma di beat più classico, pieno di armonizzazioni figlie dei Kinks (I Confess, I‘m Tellin’ You Girl). E dei Kinks sono pure due delle cover scelte per affiancare i pezzi di Conolly: Tired of Waiting for You e Love Me Til the Sun Shines.
Ma ci sono pure echi di Kingsmen, Seeds, ? and The Mysterians e Sonics a far capolino lungo tutto il disco.
Il Farfisa di Mono Man è ora il protagonista assoluto.
Un fischio penetrante che ti perfora i timpani e che diventa il tratto peculiare del suono dei Lyres malgrado il disco passi alla storia soprattutto per il tremolo devastante di Help You, Ann, straniante e circolare più di quello di Up in My Mind degli Spontaneous Generation e per il riff martellante di Don‘t Give It Up Now oltre che per la bellissima I Really Want You Right Now aggiunta nell’edizione europea.
Fieramente legato ai canoni del rock ‘n’ roll più squinternato degli anni Cinquanta e Sessanta Jeff seppe fare dei Lyres una band dal suono riconoscibilissimo, unico senza costringere i suoi compagni a vestirsi con in mano le vecchie foto degli Standells o degli Yardbirds ed evitando con cura di mettersi in posa per la foto di copertina di un suo disco. Incredibile.
Nel 1986 i Lyres si riappropriano della loro She Pays the Rent, rubatagli in maniera infame dagli svedesi Nomads. Lo fanno ispirandosi a un fantastico singolo pubblicato nell’85 dalla Willy B Review dove Willy Baken reinterpreta al ralenti la storica That’s How Strong My Love Is. Non è l’unico ripescaggio che MonoMan fa sul secondo disco dei suoi Lyres. Dentro c’è pure spazio per una nuova versione di How Do You Know? (la facciata A del singolo con cui i Lyres hanno debuttato nel 1979 sulla minuscola etichetta bostoniana Sound Interesting) e addirittura una nuova versione della sempiterna Busy Man dei DMZ, ribattezzata Buzy Men per sottrarre quel 15/20 per cento di diritti che sarebbero altrimenti toccati alla Bomp!.
Insomma, Jeff Conolly pare intenzionato a riprendersi quello che gli spetta di diritto, groupies comprese. Una la mette in posa sulla copertina di Lyres Lyres cercando di evocare (ma non tutti lo capiranno, ne’ allora ne’ dopo, NdLYS) una famosa posa plastica delle confezioni di sigari El Producto in cui una donna in abito lungo tiene in mano una lira, su una terrazza che si affaccia sul mare di Cuba.
Eccetto che per il batterista, la band è la stessa del primo album, produttore compreso. Un disco in qualche modo speculare al precedente, con la differenza che se On Fyre rendeva il suo doppio tributo al suono dei Kinks, Lyres Lyres stavolta paga doppio pegno a Wally Tax e Ron Splinter con le cover di Teach Me to Forget e I Love Her Still, I Always Will assecondando una delle tante ossessioni musicali di Jeff, autentico cultore del rock ‘n’ roll degli anni ’50 e ’60 e divoratore di vinile.
Dalla sua sterminata collezione stavolta prende in prestito No Reason to Complain degli Alarm Clocks, Stormy dei Jesters of Newport, If You Want My Love dei Nightcrawlers e You‘ll Never Do It Baby dei Cops & Robbers e aggiunge sei pezzi suoi, come da tradizione.
Monoman è il principe del Farfisa-sound.
I Lyres una band dal suono riconoscibilissimo.
I loro denigratori un pugno di idioti.
Io, che li amo, il capo degli idioti.
Dopo il tour promozionale di supporto a Lyres Lyres, Jeff Conolly si ritrova circondato da un gruppo sfinito. Anche il vecchio compagno di avventura Rick Coraccio gira i tacchi per raggiungere gli Shambles di Artie Sniederman e Steve Aquino e spetta al solo Monoman il compito di restaurare i Lyres.
Per A Promise Is a Promise in studio vengono convocati Jack Hickey, Matt Miklos e Johnny Bernardo. É la formazione con cui arrivano per uno storico concerto pisano con i Birdmen of Alkatraz, nel novembre del 1987. L’album arriva l’anno successivo e segna una parziale svolta stilistica nel suono del gruppo di Boston. Il fischio delle tastiere di Jeff viene ridimensionato e l’intero sound del gruppo sembra volersi divincolare dagli schematismi settoriali dei primi dischi aprendosi al gusto del pubblico delle college-radio americane. Ecco quindi un funk pericolosamente vicino al Freaky Styley dei Red Hot Chili Peppers come Every Man for Himself o una I‘ll Try Anyway che, con una produzione più sporca, non avrebbe sfigurato su New Day Rising degli Hüsker Dü (anche loro, guarda caso, devoti alla musica sixties).
I riferimenti diretti ai padri putativi sono stavolta indirizzati, così come era stato per i Kinks sul primo e gli Outsiders sul secondo, ai Love. On Fyre e Worried About Nothing infatti, nonostante portino la firma di Conolly, sono delle classiche pennellate alla Arthur Lee che sembrano colate giù dalla tela di Da Capo.
Il resto è ciò che rimane del suono dei Lyres spurgato dalla sporcizia primitiva che Tim Warren ha risucchiato dentro il vortice del fantastico Live at The Cantones pubblicato appena qualche mese prima accendendo un riflettore sui micidiali concerti della band di Boston nei primi anni di vita, una volta chiusa la zip dei DMZ (cerniera che qui Jeff tenta di riaprire ripulendo la loro Bad Attitude e dimostrando che di quell’attitudine cattiva in effetti ne è rimasta ben poca, NdLYS), con tanto di sfoggio di amicizie eccellenti come il tossico Stiv Bators che presta la sua voce alla cazzuta cover di Here‘s a Heart di Dave Dee, Dozy, Beaky, Mich & Tich e Wally Tax degli Outsiders che fa altrettanto per la rendition live della sua Touch ripresa dal vivo proprio in Olanda.
Una promessa è una promessa insomma.
Ma un bel disco dei Lyres è un bel disco dei Lyres.
E non è certo questo.
Chiuso il contratto esclusivo con la Ace of Hearts tocca a due etichette contendersi le produzioni dei Lyres: la spagnola Imposible e la storica Taang! di San Diego. Ne vengono fuori una serie di produzioni dal contenuto spesso condiviso (il singolo We Sell Soul/Busy Body, il mini Nobody But Lyres, il live She Pays the Rent registrato a Madrid nel 1987, le raccolte We Sell Soul e Some Lyres e la collezione di cover Shitkickers). In mezzo a questa valanga di produzioni, Happy Now è l’unico titolo ad essere concepito come album organico (anche se alla fine non lo è del tutto, NdLYS).
Galvanizzato dalla richiesta di partecipare ad una compilation-tributo (sì, sono quegli anni lì…) in omaggio a Roky Erickson, Conolly appena rientrato a Boston dopo un anno passato a San Diego dove recluta i membri dei Nashville Ramblers (Ron Silva, Tom Ward, Carl Rusk) come gruppo di supporto, rimette in piedi la vecchia band con Coraccio e Paul Murphy e li “costringe” a suonare quel che a lui piace (come rivelerà Rick in una intervista, qualunque nota prodotta dai Lyres DOVEVA accontentare le richieste ed assecondare il palato di Jeff, altrimenti sarebbe stata eliminata): sono otto cover in parte già usate per Nobody But Lyres cui vengono aggiunti tre brani (i migliori) registrati dal vivo, dimensione in cui il suono dei Lyres raggiunge sempre i risultati migliori.
Il suono dell’organo di Conolly è sempre lì, come uno spillo ficcato a pungere i piccoli classici minori di Phil and The Frantics, Roadrunners, Dale and The Devonaires, Scavengers e Rolling Stones, a ricordarci che esiste un mondo da cui è impossibile sfuggire.
Le registrazioni in studio destinate al mini-album di debutto mai pubblicato vengono editate nel 2013 dalla Munster su Lost Lyres. I Lyres all’epoca hanno ancora pubblicato solo un singolo e, fin alla pubblicazione dell’album di debutto del 1983, resteranno un gruppo di nicchia, ascoltato solo dai pochi che grazie al lavoro delle formazioni della costa Ovest come Unclaimed e Crawdaddys stanno aprendo gli occhi sul mondo del recupero della musica beat dei Sixties. Rispetto a quelle, il suono dei Lyres fa leva sul timbro ossessivo ed infetto dell’organo, sullo stile dei Mysterians e del Sir Douglas Quintet, primi punti di riferimento della band prima di spostarsi sui suoni europei di gruppi come Kinks e Outsiders.
Un bellissimo viaggio nei Lyres “perduti”. Perché dei Lyres non ne ho mai abbastanza. Voi si?
Franco “LYreS” Dimauro