THE UNDERTONES – The Sin of Pride (Ardeck)

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In cerca di una nuova identità e di una rinnovata credibilità dopo il deludente (in termini di vendita) terzo album gli Undertones cercano riparo sotto l’ombrello della soul music. Sulla copertina però l’ombrello non c’è. In cambio, c’è uno scatto tipicamente anni ’80 che sembra voler assimilare la band irlandese al carrozzone delle formazioni new-romantic, rivelando forse una aspirazione taciuta che la coperta della Motown dove si sono rifugiati, da sola, non riesce a coprire, lasciando scoperti ben più che i piedi.

The Sin of Pride rivela infatti uno spirito policromo che non riesce ad amalgamare le varie anime che si dibattono in seno al gruppo. Certo, i fiati che già avevano sperimentato su Positive Touch fanno il loro sporco lavoro, creando un ottimo propellente ai pezzi (Untouchable su tutte) e i cori soul fanno il resto ma sono soluzioni che nel 1983 stanno sperimentando un po’ tutti, nell’ambito del sophisti-pop e del cool jazz che dilagano in radio e in tv, e il tentativo di cimentarsi nelle ballate diventa imbarazzante (Love Before Romance, la svenevole e vecchia Soul Seven) impaludando ulteriormente un disco con pochissimi guizzi (Valentine’s Treatment, Bye Bye Baby Blue, Untouchable e la Luxury dove si intravedono già in filigrana le chitarre dei That Petrol Emotion) e ammiccanti lusinghe pop mal gestite e a tratti irritanti come quando ti va il sapone negli occhi. E nell’anima. Perché il soul non va mai deterso bene. Mai.

                                   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PIAGGIO SOUL COMBINATION and LAKEETRA KNOWLES – Soultimate (Area Pirata)

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Lakeetra Knowles è la voce nera che ha scaldato di soul l’edizione pandemica dell’X-Factor rumeno, i Piaggio Soul Combination la formazione pisana che, sempre nello stesso periodo, portò il suo bagaglio di eleganti musiche vintage sul palco di Sanremo Rock. Soultimate, il disco che sancisce questa unione, è un altro ricco campionario di musiche imbevute di negritudine e risolte con un’eleganza di tocco e di forme che se da un lato sacrifica la “verginità” dei suoni da cui trae ispirazione dall’altra si fa apprezzare per l’altissimo appeal radiofonico e da dancefloor.

I Piaggio Soul Combination si mostrano capaci di poter aggredire piattaforme e classifiche in virtù di un suono moderno, forse anche fin troppo levigato, modellato su R&B, soul, funky, groove latino, Hammond-beat alla Brian Auger (I Can’t Believe), spezie spectoriane, disco music anni Settanta, un accenno a certo sophisti-pop anni Ottanta in stile Working Week/Swing Out Sister, estratti di beat dolcificato alla Knickerbockers e Merry-Go-Round (The Facts of Life) fino ad un esercizio conclusivo che ricorda il gospel secolarizzato dei Mercy Seat di Gordon Gano. Tutto suonato con una perizia invidiabile, Soultimate rischia di diventare il disco perfetto per l’ultima notte dell’anno, se avete voglia di fare baldoria dentro le mura di casa vostra.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CELESTE – Not Your Muse (Polydor)

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La scorsa estate c’era stata I Can See the Change, la più raggelante hit estiva che io mai ricordi. E che infatti, in quell’ennesima estate corrosa dal sole e dal reggaeton, non fu una hit se non nelle terre già abituate al freddo del Nord Europa.

Una canzone costruita sul precipizio, tutta cantata su una corda logora di accordi di pianoforte su cui pochi equilibristi possono avere l’audacia di camminare a piedi scalzi e su cui invece Celeste si era arrampicata fino a toccare il culo agli angeli. Era stato quello il momento in cui mi sono innamorato di lei, l’attimo in cui era iniziata l’attesa bramosa di un bacio più lungo. E ora, quel bacio arriva.

Not Your Muse è l’angolo di paradiso soul che è ancora possibile percorrere nel XXI Secolo. Che non è più quella foresta vergine degli inizi dei tempi ma che rimane tuttavia un giardino incantato dove di tanto in tanto capita di incontrare muse come Sharon Jones e Amy Winehouse trasformate in albero come gli abitanti del tredicesimo cerchio dell’Inferno dantesco e, volgendo lo sguardo dall’altra parte, è facile lasciarsi lusingare dalle luci dei negozi e degli accessori di tendenza. Una soul music dove c’è sempre un po’ di Natale e dove c’è sempre una cassetta del pronto soccorso troppo alta per poter raggiungere i cerotti e che quindi lascia spesso l’incombenza di lenire il dolore agli scomparti più agevoli del frigo.

Bella la scelta di farsi accogliere con le pattine ai piedi, con due canzoni quasi immobili come Ideal Woman e Strange prima di mostrare le smorfie più ruffiane delle arcinote Stop This Flame e Love Is Back. Bella lei e i suoi gesti aggraziati e il suo indomabile capello afro che quando cerchi di addomesticarlo da un lato, lui esplode dall’altra. E se poi vi resta un po’ di plastica fra i denti, sputatela. Che volete che vi dica.

                                                                                     Franco “Lys” Dimauro

 

KING KHAN – Il Re è (semi)nudo

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Canada, metà anni Novanta.

Quello che sarebbe diventato King Khan si fa ancora chiamare Blacksnake e colui che diventerà Mark Sultan invece suona col viso completamente coperto, sotto il nomignolo di Creepy. Suonano un punk innestato su vaghe influenze sixties e con devozione assoluta per gente come Bo Diddley, Chuck Berry, Joey Ramone e Johnny Thunders. Un classico blend che non può sfuggire alla Sympathy for the Record Industry che su quelle polveri ha costruito la sua santabarbara.  

Il debutto della band canadese esce infatti per l’etichetta di Long Beach. Titolo e grafica di copertina sono rubate al famoso tour invernale di Big Bopper, Ritchie Valens e Buddy Holly durante il quale i tre eroi del rock ‘n’ roll persero le loro vite e noi la loro musica. È tuttavia un’eredità che si consuma solo nella scelta iconografica, perché Winter Dance Party è per il resto una sequenza interminabili di riff a manetta.

15 colpi tutti a segno, guardando il bersaglio per non più di due minuti alla volta. Spesso per molto meno.

Nessuno sparo a salve.   

Nessun tentennamento.  

I canadesi hanno mira buona.

 

Se il disco di esordio era tutto sommato un classico album punk-rock, Misbehavin’ volge lo sguardo degli Spaceshits verso gli anni Sessanta e Cinquanta in maniera più netta e decisa, utilizzando alcuni cliché tipici del periodo, seppur tutto venga sempre suonato ad alta velocità. Come dentro una decapottabile che dal Canada corre veloce verso la California.

Un disco deragliante dove ancora una volta la band di Mark Sultan e King Khan non sbagliano un solo pezzo, nonostante la mira volutamente imprecisa e i bersagli scelti in maniera arbitraria. Tra cui sicuramente quelli di Bo Diddley, dei Generation X, dei Ramones, dei Gruesomes. Canzoni funamboliche come She’s a Bad Luck Charm, Tell Me Your Name, We Know Where the Girls Are, Won’t Bring You Back, Turn Off Your Radio meriterebbero sorte migliore di quella cui sembrano destinate a schiantarsi contro.

Porn Losers.   

 

Sul fare del nuovo secolo, il punkettone dalla pelle ambrata si converte al soul. Così, per tutti coloro che si trovano a lagnarsi per aver sprecato i soldi comprando l’ultimo Jon Spancer, è d’obbligo asciugarsi le lacrime rubando Three Hairs and You‘re Mine di Mr. King Khan and His Shrines. Lo sporco meticcio di Re Khan tira fuori un party-album capace di mangiarsi ogni disco di Spencer da 5 anni a questa parte e di provocare movimenti al basso ventre degni di un live-set di James Brown. Merda, questa è soul music col pepe al culo (Kukamonga Boogaloo, Don’t Walk Around Mad, Live Fast Die Young, The Mashed Potato Itch, Tell Me….provate a resistergli e, se così fosse, fatevi controllare dal vostro urologo, NdLYS) capace di quelle classiche pause pomicione (Fool Like Me, Shivers Down My Spine) che ti fanno rallentare il culo per tentare l’operazione-rimorchio classica di ogni festa.

Il debutto degli Shrines diventa il mio disco del mese.

Di tutti e dodici.

 

Allo scoccare dei due anni, riecco il Papa Nero del moderno boogaloo, lo scimmione nato dall’incesto tra Screamin’ Jay Hawkins e Joe Bataan, il figlio svitato di Andre Williams e Mick Collins che ci concede un’altra ora di delirio soul. Appena un po’ meno debosciato rispetto al Three Hairs and You’re Mine di tre anni fa che godeva dell’Imprimatur di Liam Watson, Mr. Supernatural è comunque il campionario di stomps affogati nell’orgia ritmica di fiati e tastiere che era lecito attendersi. Il miglior party-album che possa capitarvi sotto le unghie, una valvola metrale che vi pompa sangue alle natiche e che può incrementare la produzione di ormoni riproduttivi nelle vostre feste, farcito di opportune pause pomicione per tentare l’operazione-rimorchio. Pezzi come la title track, Destroyer, Pickin’ Up, Lovetruck o Burnin’ Inside sono in grado di regalarti gli stessi sussulti al basso ventre del James Brown all’Apollo. E ditemi voi se è poco.

Ma l’anno non si è ancora concluso, che ecco un altro candidato a diventare disco dell’anno. 

Lo “scontro” è infatti quello tra due delle formazioni più cazzute del momento e tra due personaggi tutto sommato non molto dissimili nell’approccio verso il rock ‘n’ roll e inclini alle collaborazioni e ai progetti paralleli. Categorie cui questo Billiards at Nine Thirty tuttavia non appartiene, in quanto le band stanno chiuse nel loro recinto e mostrano ognuno dal loro lato del tavolo verde, i loro attributi metaforicamente rappresentati in copertina dalle stecche e dalle palle del biliardo.

Sei tiri per uno attorno al tavolo verde.

Ogni tiro, una buca.

Con i Dirtbombs che giocano spesso di sponda, affinando la tecnica dei tiri ad effetto (I Had to Chew My Own Leg Off, The House as a Giant Bong) sperimentata sul recente Dangerous Magical Noise ma che non rinunciano a mirare direttamente in buca, come nella strepitosa The Size of Ottawa. Che se ti attardi un attimo per bere un sorso di birra ti perdi il colpo.

Ma è un quarto d’ora dopo le 9:30, quando il gioco passa a King Khan e ai suoi Shrines che nel locale scatta l’afterhour alcolico. Agli inizi di Sweet Tooth si sente già il tintinnio dei bicchieri. Poi il gioco al biliardo si fa puro spettacolo alticcio e acrobatico, come se James Brown in persona fosse salito sul tavolo a bucare il tappeto strisciando e battendo il suo tacco cubano come ai tempi dell’Apollo.

Burnin Inside è un tripudio, un baccanale funky/soul che trascina giù anche le colonne del locale. 40 uccelli cercano scampo, prima di finire travolti anche loro dalle macerie. Take a Trip è il boogaloo tarantiniano ballato dai superstiti sulle rovine di questo tempio pagano.

Sono a malapena scattate le dieci.   

 

Un re e un sultano. Diventati sovrani dopo un’adolescenza da balordi in quel di Montréal e ora ritrovati quasi per caso ad Amburgo.

E così l’ex serpente nero e l’ex ago degli Spaceshits, che sono avvezzi agli espedienti, pensano di mettere insieme per strada il loro spettacolo di lo-fi rock.

Sull’insegna di cartone campeggiano i loro nuovi nomi: The King Khan & BBQ Show.

Due chitarre, un paio di tamburi e un microfono davanti al quale il Re indiano e il sultano italiano, canadesi di nascita e ora tedeschi di adozione si alternano cantando canzoni sguaiate come Love You So, Get Down, Got It Made, Pig Pig Pig, Shake Real Low, Am I the One, Outta My Mind che sono in percentuali variabili figlie di Buddy Holly, degli Stooges, dei Gruesomes, di Gene Vincent. La festa è meno ricca, meno colorata, meno prorompente di quelle organizzate da Khan con gli Shrines ma è giusto sia così. Questa è roba da buskers alticci, punti sul sedere dal forcone del diavolo per intonare qualche canzone sulle donne e sui vizi a cui non viene concesso di replicarne alcuna ma di usare il trucco diabolico di camuffarle sotto decine di maschere diverse, per poterle suonare infinite volte a noi pubblico sbalordito.  

 

Dopo il primo pasto del 2005 la cena viene servita l’anno successivo. Per l’occasione King Khan si è vestito da drag-queen e BBQ, ovviamente, da sultano. Sono gli avanzi del pranzo, che era già un pasto di avanzi. Panni soul sciolti nella varichina, stracci rock & roll logori e consunti. Qualche lentaccio da struscio (ricordate i Creeps di Darlin’? Ecco, quel genere di cose lì) e tanto rock and roll sornione e beffardo che cerca di sconfinare nel punk da garage in almeno un paio di occasioni. Nel country da galera in almeno un altro paio.

L’unica regola di What’s for Dinner? è non avere regole. O perlomeno attenersi a quelle sommarie dettate dall’amore per le frattaglie del rock, gli avanzi dei pasti ricchi con cui le rockstar sono diventate obese o cocainomani.

Uno spettacolo di viscere e liquidi corporali. Ecco cosa c’è per cena.   

 

Three Hairs and You’re Mine fu uno dei miei dischi dell’anno nelle playlists del 2002. Non serve ve ne ricordiate, ma è invece importante che serbiate memoria di quel disco. Un autentico R&B della giungla capace di ribaltare ogni festa e trasformarla in un vaso voodoo traboccante di sudore e liquidi vaginali.

Il tiro di quel disco si è via via smorzato, e non poteva forse essere diversamente. Ma King Khan continua a fare dischi che spaccano il culo e a tirar fuori le zanne, quando è necessario. Qui succede ad esempio mentre i primati ballano lo ye-ye su Land of the Freak. Ma What Is?! apre il mondo del Re ad altre influenze, molto più inquietanti: la trance angosciosa dei Velvet (vi dice qualcosa un titolo come The Ballad of Lady Godiva?) e certo free-jazz che da Sun Ra (Cosmic Serenade) arriva fino agli Stooges malati di L.A. Blues (Fear & Love è un bug che può perforarvi la mente, ai volumi opportuni, NdLYS). Meno ballabile, certo. Ma cazzo, anche stavolta lascerete la festa con la pelle solcata da lividi viola.

 

Una bestia nera. Un cuore indiano trapiantato a Montreal. Altro che banghra-pop e brimfuls of Asha. King Khan è la soul music del nostro tempo: sporca, corrotta e peccaminosa. Una creampie lattiginosa che schiuma dalla carne rosa di Tina Turner e delle Ikettes le cui gocce più dense vengono raccolte su una coppiera pubblicata dalla Vice col titolo di The Supreme Genius. Si va dal primissimo singolo del 2000 fino all’ultimo, eccellente What Is?!, tutto senza un momento di stanca. Convulso e psicotico voodoo-funky annegato nei fiati, deformato da una eccitazione sessuale nevrastenica, tesa e malata (come nel baccanale di Sweet Tooth) o rotondo e bavoso come le natiche di una chica (Live Fast, Die Strong dal primo inarrivabile album), figlio bastardo di James Brown (Tell Me), Sun Ra, Question Mark (Land of the Freak), Screamin’ Jay Hawkins (Shivers Down My Spine) e Ike Turner (Welfare Bread).

Pochi degni di rubarle il trono, Re Khan. Il regno è Suo!

 

Continua il viaggio antropologico-musicale di King Khan e Mark Sultan attraverso le condotte fognarie che li/ci riportano al frat-rock, al boogaloo e al doo-wop degli anni ’50 e ’60. Nel loro viaggio incontrano creature e mostri immaginifici.

Perché quello di Invisible Girl è pure l’ennesimo tuffo nel mondo della science fiction, dei mondo-movies, delle buffe gag dei Three Stooges. Un mondo che è parallelo a quello ordinario e grigio del quotidiano. Un mondo invisibile al pari della protagonista dell’album e dei mostri che lo abitano, che tuttavia possono liberarci dai nostri, almeno per mezz’ora. Canzoni come Tastebuds, Anala, Crystal Ball, Do the Chop, I’ll Be Loving You, Truth or Dare hanno esattamente questo potere.  

Molto meglio di quello che i vostri supereroi riescano a fare.  

 

Il termine “supergruppo” mal si adatta, per definizione, al rock ‘n’ roll di basso profilo. Non ci sono virtuosismi da esibire o innesti miracolosi. Il più delle volte sono collaborazioni “chiassose”, omaggi collettivi o condivisi alla musica amata, flirt consumati sotto l’ombrello del r&r spesso senza alcuna volontà o necessità di svelare al mondo con chi si è stati sotto le coperte.

Silky di Andre Williams era un disco così. The Get-Down Imperative del King Sound Quartet era un disco così. Tasty dei Demolition Doll Rods era parimenti un disco così. Gli album degli Heavy Trash erano dei dischi così.  

Esce ora questo The Almighty Defenders che è, come quelli, un album dove si consuma un atto d’amore collettivo, sotto le stelle cadenti del rock and roll. I protagonisti di questa ennesima copula sono interessanti tanto quanto gli antefatti: i Black Lips si trovano in tour in India quando pensano bene, durante uno show a Chennai, di lasciarsi andare sul palco a qualche bacio gay e a una parziale seppur palese denudazione pubblica.

Il pubblico va in delirio. Ma non tutto. Qualcuno, a spettacolo concluso, avvicina la band nei camerini e suggerisce loro di lasciare il Paese il prima possibile, perché l’oltraggio al pudore in India è un reato punito con la galera. E loro rischiano grosso. I Black Lips non aspettano neppure di smaltire l’adrenalina che hanno ancora in circolo: saltano sull’auto che hanno noleggiato e in aeroporto prendono il primo volo disponibile. Che è un volo che parte dalle terre delle vacche sacre e atterra in Germania. I Black Lips salgono con i pantaloni ancora slacciati: in Germania hanno un paio di amici pronti ad andarli a prendere in aeroporto e ospitarli per tutto il tempo che serve.

I due amici si chiamano Mark Sultan e King Khan, stranieri in terra straniera come loro. Musicisti, come loro.

Ecco, l’estemporaneo progetto Almighty Defenders parte da qui. Come uno spy-movie che si incastra con una scheggia di vetro dello specchio infranto del sogno rock and roll. Ed è già bello così.

Una “superstoria” prima che un “supergruppo”. Il disco che documenta quell’incontro, consumato tra casse di birra e la voglia di un souvenir che celebri quella storia.

Potrebbero scegliere di farsi un tatuaggio.

Invece scelgono di fare un disco.  

Un disco “di fortuna”, un disco di scalcinato rock ‘n’ roll, di soul sbiancato, un disco dove convivono a qualche solco di distanza vaghi echi gospel e tremebonde atmosfere sinistre da scary-movie, canzoni d’amore e canzoni sui fantasmi. Canzoni che vanno bene per chi ama i Black Lips e per chi ama King Khan & BBQ Show.

E a chi crede che il rock ‘n’ roll val bene un oltraggio.

E una fuga nottetempo.  

E un disco.

  

Circolato solo in versione promo qualche anno prima, documentando alcune vecchie sedute di registrazione effettuate tra Berlino (dove vive tuttora) e Bordeaux durante i soggiorni europei del Re Nero del Canada, Turkey Ride esce ufficialmente a nome King Khan Experience nel 2011.

Gli Spaceshits si sono sciolti da pochissimo e King Khan si reinventa totalmente come cerimoniere di un’orgia soul-funk trascinante, folle e colorata. Siamo agli albori di quella che sarà la musica degli Shrines ma l’energia dirompente di quel gruppo è già tutta qui: ascoltate I Got Love, Knock Me Off My Feet o Hey Rudi e ditemi se riuscite a restare fermi. Folate di organo che ti spettinano come un soffio di bora, lampi psichedelici di chitarre wah-wah, pattern di batteria che sembrano scivolati via da un disco di James Brown e un groove funkedelico da branco animale. Il boogaloo di King Khan, quello che produrrà capolavori come Three Hairs and You’re Mine, Mr. Supernatural e Idle No More è già tutto qui.

L’estate pure.    

 

Dio Khan!

L’estate è finita e il disco dell’estate arriva adesso che le donne cominciano di nuovo a coprirsi.

Idle No More, ispirato dal movimento per i diritti civili nato in Canada lo scorso dicembre, Mr. King Khan (che Canadese è di nascita) rimette in piedi in fretta e furia i suoi Shrines lasciati a marcire per un intero lustro e assembla un nuovo, straordinario disco.

Un album che più di ogni precedente profuma di aromi sixties, nel consueto narghilè dal sapore boogaloo. Meno tossico rispetto a certi fumi che uscivano fuori dalle feritoie di What Is?! che lasciavano immaginare gli Shrines come una moderna versione della band di Sun Ra.

Qui sembra di stare con un piede ficcato nei dischi dei Love e il sedere infilato dentro il juke box che passa Nino Ferrer.

Un disco festoso, finchè non arriva il buco in gola di Darkness. Un atto di dolore che inaugura lo spazio dedicato al ricordo di Bobby Ubangi (Bad Boy), Jay Reatard e Jay Montour (So Wild). Due ultime pacche sulle spalle degli amici andati a far baldoria altrove.

Of Madness I Dream, inizialmente pensata per intitolare l’intero disco, è la ballata scivolata giù da un disco degli Stones (Beggars Banquet? Sticky Fingers? Let It Bleed?) che ci sorprende quarantenni bisognosi di un sogno per cui poter ancora sanguinare.

Un giorno farò una festa e inviterò tutti gli amici che mi sono rimasti.

Mi basteranno due metri quadrati e un disco di King Khan.

Non ci sono più gli Shrines a coprire le nudità del Re Khan su Murderburgers.

A porgergli il mantello e dividere con lui gli hamburger sono Greg Ashley e Oscar Michel, ovvero due/quarti di quelli che furono i Gris Gris. E il risultato, ahimè, si sente. L’energia positiva e travolgente dei dischi con gli Shrines è quasi del tutto dissipata, soffocata da una rilassatezza che non concede al ritmo che pochissimi Joule di energia (il tiro garage scriteriato di Teeth Are Shite, il suono dei Saints replicato quasi alla perfezione su Born in 77).

Murderburgers non ha insomma la stessa spettacolarità dei dischi con gli Shrines, preferendo adagiarsi su un folk rock che tenta addirittura l’assalto alle fortezze di Dylan (It’s Just Begun) e di Beck (Too Hard Too Fast), scivolando in realtà molto prima di aver raggiunto la salda certezza di una balaustra. Anche la carica esplosiva di Born to Die soccombe alla psichedelia sgraziata di Greg Ashley.

Un diversivo che concediamo con piacere a King Khan, per tutto quello che ci ha regalato in quindici anni di dischi.

Ma adesso ridateci gli Shrines, per favore.

E qualcuno dica al Re che è nudo.

 

Ci mettono più del solito, King Khan e Mark Sultan, a far confluire i loro impegni e mettere su un nuovo disco. Ben sei anni separano infatti Bad News Boys dal precedente Invisible Girl. Nel frattempo anche King Khan, seguendo l’esempio dell’amico fraterno, ha messo in piedi un’etichetta personale anche se per la vecchia sigla comune hanno scelto ancora una volta le garanzie della In the Red.

Di veramente nuovo ci sono i costumi di scena disegnati dalla moglie di Khan, due tute nere come la notte forate sui capezzoli e due mascheroni a coprire metà del viso con cui i due hanno dato il via al Nipples ‘n Bits tour e posato per le foto promozionali di rito. Per il resto, le canzoni scollacciate del duo non conoscono margini di miglioramento, e se per qualcuno questo può voler dire una “cattiva notizia” per altri, me compreso, non lo è. Nonostante continui a preferire le canzoni meglio rifinite degli Shrines, lo spettacolo che i due riescono ad allestire grattugiando solo due chitarre ha del prodigioso, riuscendo ancora una volta a riempire il foglio di schizzi rock ‘n’ roll, doo-wop e frat-rock (e anche qualche numero di punk schizoide come Zen Machines e D.F.O.) senza stare attenti ai margini. Anzi, imbrattando più quelli che le rigorose e composte righe a centro pagina. Avercene, di ultimi della classe così.   

 

L’acronimo relativamente anonimo nasconde in realtà King Khan e Fredovitch dei mai dimenticati Shrines più Looch Vibrato e Aggy Sonora dei francesi Magnetix, il che vi dà già la misura di un disco come “Stop und Fick Dich!”.  

Larry Hardy della In the Red, dal canto suo, garantisce e mette la firma sul registro dei testimoni in quest’ennesimo matrimonio artistico del Re Khan, il cui vizio di mescolare il proprio sperma a quello altrui supera di gran lunga le perversioni di qualsiasi caserma militare e di qualsiasi college universitario e pareggia le zozzerie di Mick Collins.

Nonostante qui (a casa mia, intendo. E nella mia auto, dove un loro album qualunque non manca mai, NdLYS) la nostalgia per i dischi degli Shrines rimanga a livelli altissimi, questo ritorno alle radici fracassone dei suoi venti anni quando, sotto il nome di Blacksnake, suonava il basso negli Spaceshits. Se però quel gruppo lì guardava verso il garage rock degli anni Sessanta, pur se attraverso l’oblò del punk, i Louder Than Death quell’oblò lo lasciano ben chiuso e, opportunamente coperto di vapore, ci scrivono sopra con le dita proprio la parola punk, scrivendo canzoni in classicissimo ’77-style come la bellissima ABC’s in Old Berlin, che è anche l’unico vero motivo per portarsi a casa questo disco. Non perché sia brutto, affatto, ma solo perché in realtà l’intero repertorio è prelevato in toto dai dischi dei Black Jaspers, in versione ancora più deragliante. Però se non avete quello e in ultima analisi anche se ce l’avete ma non lo ascoltate da dieci anni, potete tranquillamente sentirvi ancora teppisti ascoltando la musica del Dio Khan e dei suoi compari.

Messo in piedi in piena pandemia, il Global Solidarity Forever è un collettivo artistico fondato da King Khan assieme al leader delle Pantere Nere Malik Rahim con l’obiettivo di “sfruttare” i proventi artistici delle varie discipline artistiche degli affiliati per sostenere diverse iniziative che vanno dal sostegno dei lavoratori immigrati alla riforestazione delle zone colpite dagli uragani, dalla messa al bando della carta igienica e altri derivati del legno alla creazione di una “banca dell’insulina” per la comunità di New Orleans.

Soul Eruption è il primo album vero e proprio pubblicato sotto l’egida della GSF e il primo lavoro che King Khan si intesta a suo nome, continuando la sua circumnavigazione di tutte le musiche possibili e atterrando stavolta in territori hip-hop ispirati al funky primigenio di James Brown e George Clinton e alle gesta degli Invaders di Memphis raccontate nell’omonimo lungometraggio di Prichard Smith del quale Khan ha curato la colonna sonora assieme a Jack Oblivian. Il risultato non è da buttare ma a dispetto dei nomi detti prima, è un po’ arido di sudore e di groove. Esercizi riusciti neppure malaccio (See You in Hell, Get Up Off Yo’ Thang, The Plague of Putin) ma che sembrano costruiti un po’ a tavolino (sul desk forse suona più fico e rende meglio l’idea di quel che voglio dire) dando l’impressione che Khan si stia lentamente trasformando dal Dio della caciara nel Dio del cacio.

Dopo Barrence Whitfield anche King Khan cede all’infatuazione per lo space-jazz di Sun Ra e Pharoah Sanders pubblicando un disco di arcano, sfilacciato, schizoide e disarticolato jazz suonato da una tribù aliena nascosta dietro delle identità terrene che rispondono ai nomi di John Convertino, Brontez Purnell, Knoel Scott, Maureen Buscareno, Marshall Allen, Davide Zolli, Florent Mannant, Gillian Rivers, Allesandro Piretti, Daniel Allen, Max Weissenfeldt, Ben Ra e Martin Wenk oltre che l’onnipotente Dio Khan. The Infinite Ones è una deriva tortoisiana di ottoni, bastoni della pioggia, languidi fraseggi di chitarre e organi che alterna brani burrascosi, stemperate pause di jazz liquido e un paio di episodi che non avrebbero sfigurato su qualche disco dei Tuxedomoon come Xango Rising o Follow the Mantis. Non quello che vi immaginereste da King Khan, nonostante neppure lui sappia più cosa aspettarsi da sé stesso. “L’artista conosciuto come Blacksnake” è diventato una viscida tenia che vi abita nell’intestino. Pensateci, ogni volta che vi prude il culo.

Shrines per due/quarti e Magnetix per i restanti due, la King Khan Unlimited saluta il 2021 con un album che riporta il Re Khan dentro i territori del rock ‘n’ roll dopo la sbandata free jazz di The Infinite Ones.

Opiate Them Asses putroppo non va molto oltre il simpatico gioco di parole del titolo. Pur non essendo affatto un brutto disco, è uno di quei dischi di cui io e molti altri hanno già gli scaffali pieni e dunque faticherà a trovare spazio. E di certo non aiuteranno i video low-budget che ne hanno distillato il contenuto su YouTube, francamente brutti. Certo, non mancano canzonacce da canticchiare come Modern Frankenstein, Narcissist, Crime Don’t Pay o Al Capone’s Syphallytic Fever Dream però i bei tempi degli Shrines sembrano davvero definitivamente andati e la battaglia intrapresa da King Khan contro Ty Segall su chi riesce a pubblicare più dischi in un anno, finisce per dare la meglio all’uomo dalla pelle perlacea.

Il regno traballa.

Ci sono nuovamente John Convertino e Davide Zolli fra i musicisti coinvolti nel nuovo progetto di King Khan legato al jazz e alla musica etnica inaugurato con The Infinite Ones e ispirato stavolta all’omonimo programma di divulgazione scientifica canadese condotto da David Suzuki e che è il corrispettivo del nostro Quark. 

I nove pezzi di The Nature of Things non sono affatto malvagi (con una splendida e free Snarlin’ Lil Malcolm piazzata proprio in mezzo) ma la questione a questo punto è comprendere quale sia il pubblico che King Khan cerca o pretende di abbracciare avendo abiurato in parte o forse in maniera definitiva dal suo potentissimo R&B scegliendo uno stato di musicista apolide che tocca infinite terre senza mai approdare ad una. 

Agosto del 2023 vede la pubblicazione integrale della colonna sonora del documentario sulla storia degli Invaders, il gruppo per i diritti civili di Memphis, uscito nel 2015 e di cui King Khan si occupò della scrittura dell’intera parte musicale, con echi di soul music, spruzzi hendrixiani e funky “nebbioso”.

Siamo insomma ancora dentro i confini musicali del Re, poi abbondantemente superati negli anni successivi in molteplici e non sempre concrete direzioni. The Invaders invece, nonostante l’ambizione del progetto e l’altissimo orizzonte di attesa che ne è derivato, ha superato brillantemente la prova acquisendo credibilità anche al di là del suo compito primario di musica per film anche se alcune tracce sono ovviamente quasi del tutto simbiotiche a quelle delle immagini e dunque qui sembrano sdrucciolare un po’ fuori dalla carreggiata. King Khan porta a casa un gran bel risultato, anche se di fatto The Invaders resta testimonianza tardiva di un King Khan che quelle strade sembra averle abbandonate già da un po’, sterzando verso percorsi sempre più difficili da seguire.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro              

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KING KHAN – Soul Eruption (Khannibalism)

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Messo in piedi in piena pandemia, il Global Solidarity Forever è un collettivo fondato da King Khan assieme al leader delle Pantere Nere Malik Rahim con l’obiettivo di “sfruttare” i proventi delle varie discipline artistiche degli affiliati per sostenere diverse iniziative che vanno dal sostegno dei lavoratori immigrati alla riforestazione delle zone colpite dagli uragani, dalla messa al bando della carta igienica e altri derivati del legno alla creazione di una “banca dell’insulina” per la comunità di New Orleans.

Soul Eruption è il primo album vero e proprio pubblicato sotto l’egida della GSF e il primo lavoro che King Khan si intesta a suo nome, continuando la sua circumnavigazione di tutte le musiche possibili e atterrando stavolta in territori hip-hop ispirati al funky primigenio di James Brown e George Clinton e alle gesta degli Invaders di Memphis raccontate nell’omonimo lungometraggio di Prichard Smith del quale Khan ha curato la colonna sonora assieme a Jack Oblivian. Il risultato non è da buttare ma a dispetto dei nomi detti prima, è un po’ arido di sudore e di groove. Esercizi riusciti neppure malaccio (See You in Hell, Get Up Off Yo’ Thang, The Plague of Putin) ma che sembrano costruiti un po’ a tavolino (sul desk forse suona più fico e rende meglio l’idea di quel che voglio dire) dando l’impressione che Khan si stia lentamente trasformando dal Dio della caciara nel Dio del cacio.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE STYLE COUNCIL – Cappuccino freddo

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Il maggio del 1984 fu uno dei mesi più piovosi che l’Italia ricordi. 366 millimetri di pioggia solo a Milano. Roba che Siffredi se lo sogna. Roba che non si vedeva da duecento anni. Fu uno di quei mesi in cui ti fermavi volentieri a casa e mandavi a fanculo tutto il resto, sperando che la piena si portasse via gran parte della merda che riempiva le strade. In TV a farti compagnia c’erano Marco Predolin, Beppe Grillo che ti parlava del Brasile, Augusto Martelli, Marco Columbro, Cesare Cadeo, Maurizio Nichetti, Wanna Marchi e la Deejay’s Gang.

In radio, ma anche in sui canali televisivi, passavano spesso loro, vestiti con gli spolverini adeguati a quelle piogge: gli Style Council.

Chi aveva “frequentato” l’ala mod della musica inglese quelle due facce le conosceva già. Per altri erano solo una curiosa alternativa ai suoni “verniciati” del pop che dominava la scena. Café Bleu fece il suo ingresso in casa mia coi piedi ancora fradici, cricchiando come quelle vecchie scarpe da ragioniere degli anni Cinquanta. E non fu proprio amore a prima vista.

Era un disco dove convivevano anime diverse, quasi schizofreniche. C’erano queste carezzevoli atmosfere jazz che erano la sinfonia perfetta per accompagnare lo scivolo verticale di quelle gocce di condensa che avevano deciso ad un certo punto di lacrimare dai vetri delle finestre.

E poi improvvise esplosioni di euforia da big-band che ti facevano temere che fuori da quei vetri appannati ci fosse Gene Kelly a ballare ancora col suo ombrello, zuppo di temporale.

E ancora qualche aria da spy-movie.

Del resto qualcuna di loro era venuta dal freddo. E quindi era anche questo un ospite coerente con quel maggio poco temperato.  

A fianco di tutto ciò, come se non bastasse, c’erano anche delle robe che parlavano quel linguaggio ancora abbastanza piatto del rap. Ma come? Le strade sembrano un fiume che si trascina via il mondo creato e vuoi vedere che c’è gente che sta a rotolarsi sull’asfalto? Poco credibile.

E infatti fuori non c’era nessuno.

Ne’ Gene Kelly, ne’ Richard Burton, ne’ i figlioletti pieghevoli di Grandmaster Flash.

Se richiudevi gli infissi e ti riavvicinavi alla stufa, potevi sentire You’re the Best ThingThe Paris Match o The Whole Point of No Return ardere come dei ciocchi e coccolarti nel loro tepore. Come se fuori dovesse piovere per sempre.

E un po’ anche dentro.

 

Signore e Signori, vi presento gli anni Ottanta.

Eleganti e si, anche un po’ coolatoni.

A sinistra Signor Eleganza in persona, Mr. Paul Weller.

A destra l’organista pel di carota Mick Talbot, da Merton.

Si sono conosciuti nel fremente giro mod inglese alla fine degli anni Settanta e Mick ha già prestato la sua maestranza per Setting Sons dei Jam.

Sono gli ultimi anni di vita della grande mod-punk band.

Weller e Talbot suonano e sognano.

Ascoltano i vecchi dischi di Georgie Fame e Jimmy Reed e sognano.

Rovistano in vecchi negozi alla ricerca di roba vecchia e sognano.

Ogni tanto accendono la tivù. E vedono gli ABC. E i Visage. E gli Human League.

Non gli piace. E sognano.

Sognano di mettere su un gruppo che abbia dentro il calore del soul e l’eleganza del jazz da club, i colori tempera della bossa nova.

Che suoni moderna ma non di plastica.

Ci riusciranno per un po’.

Sicuramente per i primi due album incisi come Style Council.

Gruppo che già dal nome decide di fare i conti con lo stile, la classe, l’eleganza.

Che negli anni Ottanta significa essere fuori dal giro delle popstar di successo, quelle dalle acconciature improbabili e dai raggi laser, metà Megaloman e metà Atlas Ufo Robot.

E invece, dopo Café Bleu che aveva “creato il caso”, gli Style Council si trovano al centro di un movimento di restaurazione chiamato Cool Jazz, scoprendo che la loro voglia di musica retrò può essere condivisa e che il loro bisogno è un’esigenza sentita anche da una grossa fetta di mercato.

Così ci riprovano, con più convinzione. Tirando fuori Our Favourite Shop.

Rendendo tutto palese fin dalla copertina.

Un emporio dove si trova di tutto, dove molte vite possono trovarsi rappresentate. Di certo quelle di Mick e Paul: c’è Otis Redding, c’è la venerata Rickenbacker 360/12, un manifesto di orgoglio gay come Another Country, c’è Al Green, ci sono le cravatte e i dischi della Motown, la maglia della Raleigh, Sinatra e i Beatles.

Un inventario della propria vita, più che un negozio di uno svuotacantine.

Ascoltato dopo trent’anni ci si accorge di quanto ci suoni ancora familiare e di come riesca ancora a scaldarci il cuore nonostante una sottile patina eighties lo avvolga come un leggero foglio di cellophane, di come tutti gli Housemartins stessero già dentro una cosa come Welcome to Milton Keynes e i Kings of Convenience ovviamente a galleggiare dentro le vasche spa di Down in the Seine e All Gone Away, di come il funambolico soul di Internationalists sarebbe potuto stare allo stesso tempo dentro The Dream of the Blue Turtles di Sting o, con i piccoli ritocchi  necessari, dentro l’unico album dei Redskins o di come, quando passa A Stones Throw Away, ci si sia fatti scappare la Eleonor Rigby degli anni Ottanta distratti da chissà cosa. Non so se possa essere anche il mio negozio preferito.

Ma sono sicuro che un bel po’ di roba la porterei ancora volentieri a casa.

                                                                      

Doppio dodici pollici con un paio di brani per facciata e copertina senza alcun riferimento diretto agli autori. Che sono gli Style Council. E che in questo modo rendono omaggio alla club-culture che sta esplodendo in Gran Bretagna, sulla spinta delle contaminazioni del funk che hanno dato via all’hip-hop. Per vedere l’esplosione del fenomeno acid-jazz occorrerà attendere un altro pochino, ma The Cost of Loving si merita la citazione di disco seminale per l’avvento di band come Brand New Heavies e Mother Earth.

Ancora una volta Paul Weller sembra aver capito tutto, ed averlo capito prima.

Il suo pubblico, me compreso, no.  

Quando il Dynamic Trio dichiara “one nation under a groove” su Right to Go, citando volutamente il Dio del P-Funk, in molti (ancora una volta, me compreso) pensano di essere finiti sul disco sbagliato. Sull’altare sbagliato.

E tutto il resto dell’album non si preoccupa certo di fugare questi dubbi. Lo stacco dal passato è netto e la svolta funky talmente marcata da lasciare le marciature ai piedi. Ma, soprattutto, c’è una laccatura che rende indigesto il tutto. Un ritocco stilistico che sa anche di ritocco estetico, un’abbronzatura che sa di lampade UV. Il più amaro tra i bocconi dolciastri che ci toccò ingerire negli anni Ottanta.

                                                                                  

Spiazzante fino ad essere crudele è invece, Confessions of a Pop Group, il canto del cigno degli Style Council. Al termine della sua avventura iniziata in bici, il duo britannico riesce nell’impresa di giocarsi gli applausi degli ammiratori, facendosi odiare da tutti con un album sofisticatissimo e ambizioso dove jazz, musica classica e pop orchestrale diventano espressioni di un isolazionismo sempre più snob messo in bella mostra su una prima facciata che ha il senso strategico di un ostacolo interposto fra la band e il suo pubblico, quasi a voler scremare quanto invece avevano raccolto senza filtri con il loro precedente, ammiccante The Cost of Loving. Alle lusinghe di quel pubblico il gruppo cede nella seconda parte del disco, con il suo pop ben vestito di fiati esplosivi, pianoforti elettrici e bassi superfunk e regalando al loro repertorio cose come How She Threw It All Away, Confessions of a Pop Group, Iwasadoledadstoryboy e Life at a Top People’s Hearth Farm.

Ma la vera magia del disco è quel nuovo approdo al silenzio che si respira nelle tracce strumentali della prima facciata e vicevera, sempre su quella, il naufragio emozionale per voci che fluttuano sugli oceani di It’s a Very Deep Sea, Changing of the Guard e The Story of Someone’s Shoe. C’è tutto uno stupore che esonda una volta prosciugata quella palude di incomprensione in cui gli Weller, Talbot e Dee C. Lee vogliono farci affondare e che lo rende insondabile come certi abissi marini che spesso hanno lo stesso rumore del riflusso della nostra anima in solitario tormento.

Le confessioni, ecco. Più che il gruppo pop. Per una volta lasciamo sia quella la cosa ad affascinarci di più. Col presentimento avverato che sia l’ultima volta.  

           

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

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THE KING KHAN EXPERIENCE – Turkey Ride (Ernest Jenning Record Co.)  

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Un disco che era circolato solo in versione promo qualche anno fa e che documentava alcune vecchie sedute di registrazione effettuate tra Berlino (dove vive tuttora) e Bordeaux durante i soggiorni europei del Re Nero del Canada.

Gli Spaceshits si sono sciolti da pochissimo e King Khan si reinventa totalmente come cerimoniere di un’orgia soul-funk trascinante, folle e colorata. Siamo agli albori di quella che sarà la musica degli Shrines ma l’energia dirompente di quel gruppo è già tutta qui: ascoltate I Got Love, Knock Me Off My Feet o Hey Rudi e ditemi se riuscite a restare fermi. Folate di organo che ti spettinano come un soffio di bora, lampi psichedelici di chitarre wah-wah, pattern di batteria che sembrano scivolati via da un disco di James Brown e un groove funkedelico da branco animale. Il boogaloo di King Khan, quello che produrrà capolavori come Three Hairs and You’re Mine, Mr. Supernatural e Idle No More è già tutto qui.

L’estate pure.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE PIAGGIO SOUL COMBINATION – This Is (IRMA)  

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Soul, cha-cha-cha e funky lucidati a dovere, quelli della Piaggio Soul Combination.

Suonati come Dio ordina ma per i miei gusti un po’ troppo sofisticati. Un po’ troppo da apericena programmato. Quello in cui ti presenti vestito bene e col tatuaggio ben in vista. Che anche tu sei della tribù e credi di esserne il capo.

Il secondo album del collettivo multietnico toscano esibisce grandi perizie tecniche ma poco carattere. Sfoggia abiti di pregiatissima sartoria, ma sembra un po’ come ammirare il distinto guardaroba della hall di un teatro.

Intarsi di Hammond, una sezione fiati che spinge i pistoni come fossero dietro la sagoma di Wilson Pickett e un percussionista che sembra invece sceso dal palco dei Fania All-Stars, una caduta di stile nell’annacquato soul sbiadito delle Bananarama (Teen Life) controbilanciata subito da un numero come My Baby Likes Boogaloo che farebbe muovere anche i morti e che è la vera perla di un disco in cui il grande mestiere dei musicisti sembra a tratti prediligere il taglio anonimo dei turnisti chiamati a suonare per le collane da autogrill dei grandi reduci del soul e dell’R&B (chi ne ha mai comprata una sa a cosa mi riferisco) piuttosto che tirare fuori il proprio carattere e anche un po’ di cattive maniere.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

JON SPENCER – Say it loud: I’m white and I’m proud  

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Venerazione assoluta o demolizione definitiva? Le alternative potrebbero essere vere entrambe. E vere tutt’e due senza l’una escludere l’altra. Forse addirittura avvalorandosi a vicenda. Ne aggiungerei addirittura una terza: feticismo maniacale. Ché i Pussy Galore, cinque teenagers accalorati di Washington di cui tutti ignorano l’esistenza, decidono di (o sono costretti a) stampare questo debutto a lunga durata in formato cassetta. In 550 copie. Sapendo che, fatto fuori il giro del parentato, ne resteranno 500 nei magazzini della Shove, che poi è la loro stessa cantina.

La strumentazione consiste in quattro chitarre e una batteria, più svariate percussioni improvvisate. Il che vuol dire arredo e struttura della loro baracca, picchiate con quel che capita e quando capita in mezzo a quello che, più che un diluvio di chitarre sembra in pratica il rumore del disgorgante versato nel gabinetto del CBGB’s.

Avete presente il martello del centurione che in The Passion di Mel Gibson assicura Cristo alla croce non solo facendo penetrare nella carne viva i chiodi di ferro ma piegandone l’estremità affinché non siano scalzati via? Ecco, i Pussy Galore eseguono lo stesso lavoro su quello che era già il disco più brutale e rozzo dell’intera discografia degli Stones. Lo crocifiggono e ne assicurano il corpo martoriato al patibolo, con una ferocia irriverente, blasfema e pure ignorante. Ma non solo: i Pussy Galore si sostituiscono agli stessi Stones, oltraggiandone il cadavere e sbeffeggiandolo, ben consapevoli che tutti si accorgeranno dello scambio. Anzi, orgogliosi del loro atto sciagurato, come dei bulletti di provincia.

‘Exile on Main St’ è l’atto estremo di amore e quello altrettanto smisurato di odio che coincidono nello stesso punto, nel medesimo istante come dentro la canna della calibro 38 di David Chapman sei anni prima.

L’inizio della lunga avventura musicale di Jon Spencer inizia così.

Come quella di un comune teppista.

Uno cui non affidereste neppure il vostro criceto e che invece si mette in testa di suonare gli Stones con una chitarra a tre corde, senza saperne accordare neppure una.

Uno che ambisce ad essere odiato come uomo prima che lodato come artista.

Che si siede come un piccione su un marmo di Michelangelo e si abbandona ad una defecazione corrosiva e balorda.    

 

Quanto i Gories stavano sperimentando a Detroit, trova un battesimo discografico a Washington. Right Now! si diverte a martoriare il garage-punk così come l’anno precedente ‘Exile on Main St’ aveva tratto godimento dallo stupro ai danni dello sporchissimo doppio album degli Stones.

Pussy Galore sono un gruppo eversivo ed amatoriale, senza alcuna cognizione di una qualche idea teorica o pratica di tecnica, felice di usare i pochi strumenti a disposizione (tre chitarre e una batteria spuria assemblata unendo tamburi acustici e scarti industriali) per trovare una formula che possa in qualche modo legare l’austerità degli Einstürzende Neubauten con il rock ‘n’ roll di base. Il risultato è un disco dove il vero protagonista è il frastuono, il disordine, il turpiloquio. Come se una band di vandali fosse entrata a mettere a soqquadro gli scatoloni con i non venduti del deposito Crypt.  

 

Fra i tanti scavafosse che negli anni Ottanta cercarono di estrarre dalle viscere della terra il più disastrato garage-punk degli anni Sessanta, i Pussy Galore vanno ricordati per aver avuto l’idea di effettuare gli scavi dall’interno di un capannone industriale, scoperchiando quelle tombe all’interno di una vera e propria torneria industriale. Mentre mandavano a puttane tutto il purismo del revival rock ‘n’ roll, i Pussy Galore ne demolivano l’intera struttura e aprivano a loro insaputa una breccia che avrebbe rappresentato un nuovo varco, una nuova via di fuga per il rock ‘n’ roll del decennio successivo, assoggettando alla forza del ferro gli uomini dell’età della pietra.

Pochi dischi si avvicinano alla catastrofe sonora quanto quelli dei Pussy Galore pur conservando i tratti, seppur sfigurati, del rock ‘n’ roll, pur obbligandolo a mangiare merda. Che è un’immagine che alla Caroline non piace, tanto da costringere Jon Spencer a cambiare titolo al loro terzo lavoro. Dial ‘M’ for Motherfucker esce nel 1989 con una copertina in grado di catturare alla perfezione quell’atto delinquenziale di demolizione di cui vi parlavo prima, l’ultimo con la formazione originale.

Il rock ‘n’ roll viene messo a muro e trucidato, braccia legate dietro la schiena, benda sugli occhi. Qualcuno scrive una M sul muro. Sembra vernice, vista da lontano.

Invece, è il suo stesso sangue.     

 

Non c’è un solo strumento accordato, dentro quello che molto ironicamente i Pussy Galore chiamano Historia de la Musica Rock, parodiando nel titolo e nell’artwork la famosa collana pubblicata in Spagna negli anni Ottanta come compendio all’omonima enciclopedia rock. Jon Spencer, Bob Bert e Neil Hagerty si arrogano dunque la libertà di sedersi al fianco di Stones, T. Rex, Bowie, Rod Stewart, Kinks e Bob Dylan pur senza reggere in mano uno strumento. Le undici tracce del loro ultimo disco sono canzoni malmesse e fatiscenti dove ognuno sembra suonare, parlare, cantare, sputare per i cazzi suoi, come accade su (Do) The Snake o Song at the End of the Side per la quale ultima i Pussy Galore non si prendono neppure la briga di trovare un titolo. O ancora dentro il metro quadrato di chitarra e voce deformi di Drop Dead. Accozzaglie di rumori e voci messi uno accanto all’altro che portano la firma di tutti e tre i non-musicisti, proprio perché dentro vige un’anarchia impossibile da compattare.

Canzoni come Mono! Man o Eric Clapton Must Die sono invece larve di quel mostro dal volto ustionato che sarà la prima incarnazione della Blues Explosion.

Bluesmen negativi drogati dall’alcol e dall’ego che annunciano una qualche catastrofe, forse la propria. E che si divertono a giocare con la carcassa del dirigibile dei Led Zeppelin dopo averne bucato ogni centimetro della superficie.       

Mentre Jon Spencer chiude il sarcofago dei Pussy Galore e in attesa di tornare a celebrare la figa con i Boss Hog, il musicista incrocia fortuitamente il suo destino a quello di una band dell’Ohio che sogna Memphis: si chiamano Gibson Bros. ma non sono fratelli per nulla, se non in quell’eucarestia pagana che è il rock ‘n’ roll primordiale e il blues dell’asse da lavare. Assieme a loro Spencer e la Martinez registrano The Man Who Loved Couch Dancing e chi ha fatto di Spencer il proprio idolo votivo dovrebbe di tanto in tanto andarselo a riascoltare, quel disco: tre chitarre e un drum-kit. Jon Spencer così come è ricordato nella storia sta tutto là. 

Nel passaggio tra i Pussy Galore e i Boss Hog le chitarre diventano tre e quello fra Jon Spencer e Cristina Martinez è un rapporto che è diventato anche coniugale. L’apporto marginale della Martinez nell’avventura precedente diventa invece focale nella nuova compagine. Sia dal punto di vista artistico che da quello iconografico. Il corpo della Martinez campeggia con disinvoltura già nel primo EP e, nuovamente, sull’album di debutto facendo della coppia una delle più sexy della storia del rock moderno.

Un’esplosione erotica ancora allo stato brado dal punto di vista musicale visto che su Cold Hands i Boss Hog si divertono ancora a scompaginare il rock ‘n’ roll e a succhiare sangue come i vampiri di Twilight. La simulazione coitale che in effetti fa capolino lungo diversi passaggi del disco è annegata dentro la baraonda di rumore che il gruppo si diverte a sollevare. Il turpe disordine di strumenti e voci è figlio diretto di quello di Historia de la Musica Rock e i Boss Hog sono l’ennesimo pittogramma dietro cui si nasconde la fame di scarti avariati ed avanzi del lupo Spencer.     

Quando nel 1990 Jerry Teel invita Jon Spencer ad unirsi al gruppo in cui suona da almeno un lustro prima che venisse ingaggiato nei Boss Hog, non sa ancora che l’ingresso di Spencer in formazione avrebbe di fatto sancito la fine della sua band. È difatti proprio durante le registrazioni di Hung Far Low che Spencer e Simins, il batterista che ha appena sostituito Sally Edroso dietro le pelli degli Honeymoon Killers, scoprono di avere un feeling musicale che può andare oltre le sevizie che i due amano impartire al blues: dentro il disordine di Hung Far Low, in pezzi come Quittin’ Time, Tanks a Lot, Whole Lotta Crap e Scootch Says nasce di fatto la Blues Explosion anche se tutto il mondo è troppo distratto per potersene accorgere.

Lo scarto rispetto al caos puro delle precedenti prove degli Honeymoon Killers è notevole, il rumore bianco che prima fagocitava il repertorio sembra diradarsi lasciando intravedere delle carcasse putrescenti di rock ‘n’ roll malmesso che sembra avere sete di vendetta e fame di sesso.

Il blues degli anni Novanta è pronto ad esplodere.    

 

Nel 1991, quando Jon Spencer decide di mettere assieme la “sua” band, lo fa costruendola sopra le macerie di quello che erano stati i Pussy Galore. Il “groove” sarebbe arrivato dopo.

L’esordio per la Caroline, così come la sua versione europea licenziata dalla Crypt è infatti un rantolo malvagio di rumore che agonizza su venti smorfie blues/punk prodotte da Steve Albini, uno che a rattrappire i muscoli riesce come pochi. Figurarsi se a chiedere i suoi servigi sono tre tossici che si divertono a pisciare in gola al blues e a mettere insieme canzoni che sono poco più che cocci di uno stomp così ossuto e radicale da sembrare suonato sotto tortura.

The Jon Spencer Blues Explosion vive di questa apologia del disgusto, facendo della scuola blues di John Mayall la prima vittima del suo nichilismo spietato.      

 

Il cofanetto di classici Stax e Volt preteso da Jon Spencer al momento della stipula del contratto con la Matador dà i frutti sperati su Extra Width, il disco che segna il momento in cui la musica del terzetto emerge dall’underground garage per diventare il marchio di fabbrica di tutto il rock ‘n’ roll degli anni Novanta, con un piede intinto nella palude blues e soul e l’altro nei più attuali immondezzai dell’hip-hop e del noise. Allargando le maglie di rumore del disco del debutto (nulla più che una, anzi due versioni “ufficiali” delle registrazioni casalinghe spacciate ai primi concerti col titolo di A Reverse Willie Horton, NdLYS) Extra Width permette di godere appieno dei tratti distintivi della Blues Explosion di quegli anni, ovvero il suono per nulla educato della cheap guitar di Spencer, gli incredibili inserti di theremin (e sintetizzatori sotto stupro, come succede nell’assolo di Afro) che arricchiscono di dissonanze e frequenze spurie le già tormentate canzoni del terzetto e le piccole peripezie di Russell Simins che si allontanano sempre più dal tam-tam primitivo e tuckeriano dei primissimi lavori per inventare dialoghi ritmici con la chitarra, regalando ai nuovi pezzi un dinamismo che diventa il marchio di fabbrica della band che di fatto si affranca dal modello Gories degli esordi per diventare esso stesso archetipo di un concetto di rock ‘n’ roll radicale e sempre più spettacolare ed autocelebrativo, sulla falsariga di quello inscenato da James Brown. Extra Width è l’autoscatto perfetto di questo momento in cui Jon Spencer prova a creare l’incesto biologico tra le musiche bianche ed ossute della Sun e quelle pingui e nere della Stax. 

Registrato dentro i Sun Studios, totalmente immerso nel “Sol” di Memphis, lì dove le anime di Re, Colonnelli e Reverendi continuano a parlare alla tua da chissà quale ambone dell’Inferno, Memphis Sol Today! è l’atto finale della band di Jeffrey Evans e Don Howland e anche il coronamento ufficiale di quel sogno rock ‘n’ roll che da Columbus ha portato i Gibson Bros. giù fino alla terra dei padri, in quella terra delle meraviglie raccontata da Monsieur Jeffrey Evans nelle note di copertina.

Il ruolo di terzo chitarrista è ricoperto da Jon Spencer, ma si tratta di una chitarra rabberciata quanto le altre due, tanto che alla fine sembra di sentirne suonare mezza, e per di più accordata ad orecchio. Il suono di Memphis Sol Today! si innesta perfettamente nel solco tracciato dai Cramps a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta e dai Gories esattamente dieci anni dopo. Un’approssimazione delirante capace di regalarci momenti come Memphis Chicken, My Huckleberry Friend, I Feel Good Little Girl e I Had a Dream, I’ll Follow Her Blues, Naked Party, scoordinati blues psicotici che su Coming Up assumono i contorni di una versione southern dei Seeds.

Un disco pieno di tutte quelle imperfezioni senza le quali il rock ‘n’ roll diventerebbe solo un frutto coperto di cera da vendere sui banchi degli ipermercati.

L’anima di Memphis.

Che è anche un po’ della nostra.

 

Russell, Judah e Jon sono in una fatiscente camera del ghetto newyorkese, mentre dall’altra parte della parete un giovane bianco di nome Beck Hansen fa freestyle cianciando dentro una cornetta del telefono. È una parodia della clip di Walk This Way (Run DMC vs. Aerosmith) che la dice lunga sul fatto che la Blues Explosion si prenda molto meno sul serio di quanto si possa pensare, proprio nel momento in cui la loro musica esplode devastando il mondo.

Orange è il disco che definisce in maniera più o meno definitiva il “suono” della Blues Explosion.

Elegante e sporchissimo in egual misura.

Bianco, nero.

Sexy.

Funky.

Copertina a specchio con il theremin Moog Vanguard usato da Spencer stilizzato in copertina. Nessun accenno al frastuono dentro cui quello strumento è immerso, se non quell’unico punto esclamativo messo stavolta all’estremità del moniker della band, messo lì come un avvertimento per i più sprovveduti.

Che sono tanti, perché in quel 1994 che ha definitivamente seppellito la scena grunge, della Jon Spencer Blues Explosion si parla come della cosa più eccitante in giro sul Pianeta Terra. Ma i loro dischi, a quel tempo, non viaggiano su alcuna piattaforma o social, i loro dischi te li devi andare a sentire nei posti adatti a quel lavoro o te li devi “immaginare” leggendone sulle riviste di settore.

Molti dunque sono arrivati senza sapere esattamente quali sermoni sarebbero stati recitati dentro quel disco dalla copertina ammiccante e un po’ narcisa, finendo per venirne in qualche modo travolti, non appena si poggia la puntina su una cosa sporcacciona come Bellbottom che odora di sesso a pagamento e diventa una delle cose imprescindibili di tutto il rock ‘n’ roll del nuovo decennio.

Perché Spencer, il ragazzo che amava violentare gli Stones e i Neubauten, che divorava le Back from the Grave, i dischi di Presley e quelli di Rufus Thomas stavolta ha davvero fatto tutto per bene. Ha messo dentro violini, fiati, theremin, chitarre sbrindellate, giri di basso rotondi come le chiappe di Tina Turner, una batteria scoppiettante, hip-hop, blues, rock ‘n’ roll, funk, soul, lo ha prodotto a fianco di Jim Waters curandone ogni piccolo dettaglio e ha messo fuori un disco dove ogni lordura è calcolata, ogni macchia di sperma lasciata volutamente in vista, a simboleggiare una polluzione impossibile da controllare.

Orange è l’inizio dello spettacolo che Extra Width aveva soltanto annunciato.

Accomodatevi. Le donne ovviamente non pagano il biglietto.

 

Il suono dei Boss Hog acquista tridimensionalità corporea col passaggio alla Geffen e la pubblicazione del disco omonimo.

Come se lo scheletro di Cold Hands avesse messo carne, il secondo album della coppia Spencer/Martinez coordina il rumore degli esordi offrendo una sequenza di pezzi dove è il dinamismo ritmico a fare da collante e propellente per i lick blues/punk di Spencer. Canzoni come Sick, What the Fuck, White Sand, Punkture, Green Skirt scivolano comode e, visti i catorci su cui i coniugi erano abituati a sedersi, ordinatissime sulla strada asfaltata di Orange della Blues Explosion e si impongono come una sorta di versione ♀ degli assalti maschi del gruppo madre. Il tentativo della Martinez di scrollarsi di dosso i peli del villoso marito arriva inaspettato quasi in chiusura del disco, in quella Texas in cui sembra volersi spogliare dei panni di Signora Spencer per vestire quelli gotici di Gitane DeMone ma è un vezzo episodico del tutto marginale in un lavoro che, pur dichiarando esplicitamente la propria sudditanza dal modello Blues Explosion, resta forse il migliore di tutta la carriera dei Boss Hog.  

  

Se i due dischi precedenti erano stati preparati ad hoc per sfondare il muro che separa la Blues Explosion dalla scena alternative affidando l’apertura a due teste d’ariete come Afro e BellbottomsNow I Got Worry si diverte a farne scempio aprendosi con l’urlo da scimmia sgozzata di Skunk e una deviazione quasi hardcore come Identify chiarendo sin da subito che la Blues Explosion è tornata in qualche modo al rock ‘n’ roll sgraziato degli esordi e al garage mutante dei Pussy Galore.   

Suggestionato in maniera decisa dalle assidue frequentazioni con R.L. Burnside, Beastie Boys e Calvin Johnson, Now I Got Worry è infatti un disco eccessivo e brutale ma anche sperimentale e contaminato (Fuck Shit UpEyeballin’Sticky) e volutamente meno radiofonico, come se ad un tratto Spencer avvertisse il bisogno di preservare il suo vecchio spirito nichilista alzando un po’ gli scudi, lavorando volontariamente ad una produzione più cattiva e lo-fi rispetto a quella sfoggiata su Orange.

Jon Spencer torna insomma a vestire i panni a lui cari del teppista, dello stupratore del rock ‘n’ roll, dello sfregiatore seriale che uccide contrariato dalla bellezza.

   

Uno dei vanti della mia discoteca personale è una copia promozionale di Controversial Negro con Mick Jagger in copertina.

Fu già un vanto quando mi arrivò a scrocco dall’ufficio stampa della BMG.

Lo diventò ancora di più quando l’annunciata stampa europea del disco venne cancellata e Controversial Negro finì per venire stampato solo in Giappone, restando un affare per pochi intimi.

Ogni volta qualche fesso veniva a casa mia a chiedermi una rarità degli Stones io tiravo fuori quel disco.

E il fesso rimaneva a bocca aperta.

Dopo avergliela richiusa gli confessavo che non era un disco degli Stones ma della Jon Spencer Blues Explosion.

E il fesso riapriva la bocca.

Era uno dei miei aperitivi preferiti, prima di sedermi a tavola a trangugiare le delizie preparate da mia moglie.

La Shout! Factory, ristamperà anni dopo quel disco, togliendomi quel piacere.

Ma solo in parte.

Controversial Negro perderà infatti gran parte del suo alone di leggenda diventando di dominio pubblico. Però Live in Tucson, come sarà ribattezzato, uscirà con una scaletta allungata a ben ventinove pezzi e con una copertina diversa. Perché se prestate attenzione, su quella edizione, quella che è disegnata sotto la scritta Blues Explosion, quantunque le somigli parecchio, non è la faccia di Jagger ma la testa di uno scimmione.

Pare che il primo volesse portarli in tribunale, l’altro nella giungla.

Loro hanno opteranno per la seconda alternativa.

Ma al di là di questo, Controversial Negro è un autentico massacro.

La Blues Explosion fa scempio del rock ‘n’ roll.

Sono allo stesso tempo la cosa più conservatrice e moderna che il rock ‘n’ roll abbia in quegli anni e riescono a far suonare R.L. Burnside come fosse i Public Enemy (R.L. Got SoulFuck Shit Up). Entrambi una influenza fortissima per la JSBX di quegli anni (Controversial Negro è infatti rubato al passaggio di una delle più belle canzoni di Flavor Flav e soci, NdLYS), diventata una band sofisticata senza perdere di forza abrasiva, soprattutto dal vivo.

Tanto che Controversial Negro, nei suoi momenti migliori (AfroWatermainFuck Shit UpSkunkThe Vacuum of Loneliness) suona come Metallic KO se ci passasse sopra Fear of a Black Planet. O come una versione sfigurata di Presley.

Poi, verso la fine di questa nuova scaletta, il treno di Elvis deraglia.

Il Re viene sommerso dalla polvere, deturpato dai rottami.

Ai bordi della strada ferrata sono rimasti in pochi ad assistere allo schianto.

Eppure, quel momento, quel preciso momento non lo scorderanno più.

 

 

Se è vero che ogni uomo uccide le cose che ama, allora Jon Spencer deve aver amato il blues come pochi altri, un amore viscerale e violento, senza sfumature, un amore incestuoso e brutale, di quelli che ti lasciano senza fiato e senza respiro, se mai si trovasse il tempo per respirare. Jon Spencer ha preso il blues per i capelli e lo ha straziato senza pietà, l’ha violentato e ha goduto del suo annaspare, l’ha visto cianotico e gli ha tappato la bocca col suo sesso per vedere se è proprio vero che ogni bel gioco prima o poi finisce, l’ha strapazzato come una bambola, l’ha punto e trafitto come un feticcio voodoo, gli ha rotto le ossa uno per volta. Infine ha sputato sul suo cadavere decomposto e, come per incanto, egli è risorto, ha ballato con il suo scheletro sorseggiando una bottiglia di bourbon e infine ha affondato le labbra in una bocca che sapeva di morte.

Con Acme Jon ritorna, crudele ma premuroso, a leccare le ferite al suo amante e a curare molto probabilmente le sue. da questo punto di vista il live dell’anno precedente chiudeva un ciclo, quello delle rasoiate elettriche, dei cristalli spaccati, del nichilismo sofferto e sofferente di chi col blues preferiva farci a pugni piuttosto che l’amore. Laddove Controversial Negro infatti risolveva tutto in un delirio orgiastico, Acme si avvicina sfoggiando un’aria di eleganza apparente, come un magnaccia ben vestito ad una festa di alta società, pronto a bestemmiare alla prima macchia sul gessato e il coltello ben nascosto nel gilet.

Il suono è meno contorto e febbrile, incredibilmente cool, un disco conciliante piuttosto che di rottura, gli spilli voodoo hanno lasciato il posto alle spille da balia, infliggendo al diavolo e alla sua musica una tortura meno violenta, forse, ma non per questo meno perversa.

Divelto senza rimpianto ogni residuo di tradizionalismo retorico da cartolina, Spencer si è preso la briga di iniettare allo scheletro ormai ciondolante del blues una nuova puntura di calcio per portare quei macabri resti in giro con la sua macchina del tempo a incontrare vecchi padri (Andre Williams) e pronipoti (Atari Teenage Riot).

La navicella Blues Explosion, col suo carico di debosciato blues mutante ha deciso di prendere il largo. Col serbatoio carico di zolfo, il capitano Spencer ha chiuso i portelli ed impartito ordini alla truppa.

Il compito? Portare il blues oltre la soglia del nuovo millennio dopo avere ingoiato tutta la naftalina del suo baule. Nella speranza che, come è accaduto alla Rolling Stones starship anni fa, non rientri sulla terra senza più carburante dopo essere rimasta in balia del vento stellare.

Acme farà di voi i prossimi bersagli di lucifero. Vendetevi cara la pelle. Anzi, l’anima.

 

Nel 1999 il pop penetra nel corpo di Cristina Martinez. Esattamente come avreste voluto fare voi: fin dentro le viscere. Ma non è esattamente una penetrazione fallica. Il pop, venato di soul music, ha le sembianze femminili. Quelle di Debbie Harry ad esempio. Ma pure quelle di Kate Pierson, di Siouxsie Sioux, di Shirley Manson, di Nina Persson. Il tentativo di farsi possedere da Tina Turner, già tentato sull’album omonimo e qui sbattuto sfacciatamente in apertura sul numero soul della title track, rimane un fallimento. Come tutto il disco che la contiene del resto. Whiteout è spazzatura musicale che vorrebbe essere moderna ed ammiccante ed è invece del tutto asettica e priva di qualsiasi erotismo, sin dalla copertina degna delle pagine di intimo del Postal Market con cui la mia generazione imparò a masturbarsi e che è in esatta antitesi con la vulva pelosa mostrata sull’album di debutto.
L’imbastardimento elettronico che ha preso il sopravvento sul devastante rumore degli esordi non arricchisce la formula del gruppo ma ne avvilisce l’urgenza animale, malgrado Jon Spencer si diverta a fare lo scimmione del blues-punk (come su Jaguar) o il pappone del ghetto (come su Itchy & Scratchy). Meglio la banalità beat di Trouble che la presunzione ridicola che i vecchi fan accettino di vedere uno dei gruppi più sexy del rock ‘n’ roll dei ’90 diventare una ridicola caricatura dei Cardigans o dei Garbage. Cristina con le mutandine fresche di bucato è la cosa meno rock and roll degli ultimi dieci anni.

Ditelo a Richard Kern, ditelo alla City Slang, ditelo a Jon Spencer.

 

Col passare degli anni Jon Spencer ha imparato a scrivere dentro i margini, nonostante l’aria sbruffona da belloccio votato alla causa del blues.

Cosicchè malgrado testi, video e copertine di Plastic Fang giochino a Subbuteo con l’immaginario crampsiano di lupi mannari, vampiri, mummie, uomini-insetto e mostri da laguna, il suono cremoso dell’album ha più a che spartire con tutto il blues/rock che dall’uccello di Sticky Fingers è colato giù fin nei pantaloni a zampa dei Black Crowes che con il rockabilly scheletrico di Lux e compagni. Fraseggi essenziali di tutto lo scibile blues che Judah e Jon hanno imparato a farfugliare negli anni. Manca la destrutturazione rumorista di cui la Blues Explosion si era mostrata grande artigiana e mancano le pose eleganti fino al disgusto che avevano reso ammiccante i loro dischi più venduti.

Per questo Plastic Fang non entrerà nella storia e lo si farà scendere dallo scaffale di tanto in tanto senza ricordarne una sola canzone.  

 

                                                                                 

Orribile, come sempre, diventare dei professionisti.

Ricordate i Pussy Galore? Una latrina in cui il rock ‘n’ roll andava a morire. Jon Spencer era allora un tossicomane che scriveva e incideva i dischi nel cesso. Poi evidentemente la signorina Cristina, nel frattempo diventata signora Spencer deve aver fatto le sue richieste. Una ripulitina alle piastrelle, una toilettina per evitare le sbavature di rossetto, un bidet per prepararsi ai doveri coniugali, magari un box doccia. E Jon  ha finito per trovarsi a imbrattare le mura con lo stick rosso fragola della moglie pur di apparire comunque sovversivo. E diciamo pure che il trucco alla fine ha pure funzionato a lungo. La sua JSBX ha macinato ottimi dischi. Magari non più nella latrina, ma pur sempre dentro un cesso. Jon ha invece deciso adesso di spostare la strumentazione (e la copertina non ne fa mistero, NdLYS) verso la stanza da letto. Il leone va a riposare. E noi con lui. Damage è un disco che fa male perchè è il disco di un declino, la colonna sonora di un fallimento. Damage rimane una pastiglia inzuppata in una soluzione di rock ‘n’ roll mutante. Ma non sono più pasticche di anfetamina, ma barbiturici. Peccato per lo spreco di ospiti con cui Jon ama far salotto (stavolta si toccano icone come Chuck D e James Chance, tra i tanti altri), Damage è la caricatura stessa della Blues Explosion che amavamo. Il simulacro vuoto della sua retorica stonesiana.

 

Quando i Blues Explosion sono diventati ormai una istituzione per la scena rock ‘n’ roll internazionale, Jon Spencer sente il bisogno di costruirsi una casetta rustica. Una sorta di rifugio ecocompatibile dove coltivare le sue vecchie passioni per il rockabilly, la country music, il soul e la musica rurale con cui è in parte cresciuto e di cui si era innamorato durante la sua adolescenza ascoltando Exile on Main Street degli Stones e i dischi di Presley. Quella casetta in legno, sperduta nelle campagne del New Jersey, si chiama Heavy Trash. Ad abitarla sono lui e Matt Verta-Ray, l’amico degli Speedball Baby con cui Jon ha condiviso gli angusti spazi dei camerini in diverse date della sua Blues Explosion parlando della Sun Records, del suono di Memphis e del timbro delle chitarre prodotte in Giappone negli anni Sessanta come Fujigen e Zim-Gar. Quello che i due registrano dentro quella capanna di legno viene pubblicato adesso dalla Yep Roc con lo stesso nome scelto da Spencer e Verta-Ray: Heavy Trash. Che sono in due, ma non sono da soli in questo disco in cui ci sono ben diciotto musicisti e vocalisti di supporto, nascosti chissà grazie a quale macumba dietro le musiche rachitiche dei due musicisti di New York. E che realizzano un disco che piacerà più a chi amava Hasil Adkins, i Beasts of Bourbon o i Gallon Drunk che a chi ha visto la luce quando ha messo sul piatto Acme o Orange. E che pure sarà costretto a farselo piacere, per rispetto del cast.

 

Una ventina di canzoni sono il bottino delle nuove session combinate fra Matt Verta-Ray e Jon Spencer (più diversi musicisti di area new-country, fra cui i Sadies al completo, NdLYS). Tredici di queste finiscono dentro il secondo album degli Heavy Trash Going Way Out mentre le restanti verranno regalate o vendute attraverso il sito della Yep Roc Records.

Fatto salvo che per Spencer gli Heavy Trash sono l’uovo di Colombo, il secondo album del mini-combo è ancora una volta un bel calamaio in cui intingere il pennino del roots rock ‘n’ roll. Quello che si scuote ancora per risonanza con le vibrazioni degli studi Sun e pezzi come She Baby, That Ain’t Right o Pure Gold sembrano proprio un sogno pelvico presleyano. Ma la tentazione di abbandonarsi al più sano rockabilly, al trash psicopatico di marca Cramps e al più folle garage-punk permette al duo di tirare fuori anche roba come Crazy Pritty Baby, Kissy Baby, Way Out, They Were Kings o I Want Oblivion permettendo di avere un quadro completo delle deviazioni rock ‘n’ roll cui non al solo Spencer piace cedere.   

 

Il terzo Heavy Trash si allontana è molto meno trash dei primi due album realizzati in coppia da Jon Spencer con Matt Verta-Ray. Senza tradire la genuina anima rock ‘n’ roll del progetto, Midnight Soul Serenade mostra uno spettro stilistico più vario e un gusto per l’arrangiamento più ricercato, con un occhio lanciato oltre la frontiera messicana, le isole hawaiiane, New Orleans e una voglia di ibridare il suono come mai prima d’ora, sperimentando con una sfilza di organi vintage (dal Vox Continental all’Hammond passando per l’Acetone e il Wurlitzer) e addirittura aggiungendo beat elettronici e piatti.

Canzoni come The Pill, Pimento, Isolation, Sweet Little Bird sono le canzoni che rivelano questo accostamento non ancora definitivo a certa exotica di marca Cramps/Tarantula, questa coloritura che però sembra più il colore di un appassimento creativo rispetto al disco precedente e alla quale io preferisco i colori meno compassionevoli di pezzi come Bedevilment o della cover di Bumble Bee. Ma io sono daltonico, del resto.

 

La copertina macellaia promette carne e sangue.

E, diciamolo francamente, malgrado il banco frigo del blues-punk sia ormai pieno di ogni ben di Dio, al taglio di Mr. Spencer non rinunciamo mai. Uno che sa dove infilare il coltello, senza dubbio. E quindi eccoci qui, alla riapertura del supermercato, a fare la fila davanti ai tre macellai del blues.

Finite da tempo le scorte di manzo fresco, la Blues Explosion tira fuori un po’ di surgelati. Non merce rafferma, sia chiaro. Ma un po’ stopposa purtroppo si. E che cosa vi aspettavate? Il vitellino da latte con contorno di erbette da pascolo? Meat + Bone suona come un disco della Jon Spencer Blues Explosion, anno 2012. Fermatevi su questa frase e traetene le conclusioni che volete, ognuno per conto proprio.

Le sorprese stanno a zero. La grinta c’è ancora. Le canzoni un po’ meno. Tutto quello che ascolterete qui dentro, se c’eravate quando la JSBX pubblicava Extra WidthOrangeAcme o Now I Got Worry, lo avete già sentito tutto. I ritmi spezzati, le sincopi funky, il blues sporcato di punk, gli Stones con su la saliva di Iggy, James Brown con l’uccello ancora sporco di umori soul, l’invito a tirar giù le mutande, tutto già fatto. E più di una volta. E allora? E allora l’uno-due iniziale Black Mold/Bag of Bones spacca comunque il culo. Poi con Boot Cut si piomba nella normalità del Blues Explosion-pensiero, fino a che le ossa del titolo non vengono fuori completamente da quella massa di carne che schiuma sangue dalla copertina.

La rivoluzione non sarà trasmessa in televisione. E non passerà neppure per i dischi di Jon Spencer. Non più. Lui la sua rivoluzione l’ha già fatta con i Pussy Galore, quando molti di voi ascoltavano i Tears for Fears e i Toto e pensavano di stare sulla faccia luminosa della luna. Ora, se vi serve la novità ad ogni costo, affidatevi a qualche altro macellaio. Oppure diventate vegetariani così vivrete più a lungo di me.

 

Non lasciatevi intimorire. Della No Wave evocata dal titolo dentro il nuovo lavoro della Blues Explosion c’è poco o nulla. Il nuovo disco di Jon Spencer ha dentro tutta quella fottutissima miscela stonesiana e funky dei loro dischi più amati e meno estremi (AcmeNow I Got WorryOrange).

Tredici canzoni con cui Mr. Spencer sembra volersi riappropriare della corona di principe ranocchio del rock ‘n roll che Jack White gli ha sottratto da qualche annetto. E, senza volermi vestire da pubblico ministero ne’ da difensore di nessuno, Freedom Tower” le dà sul muso a Lazaretto inanellando una serie di numeri funk ‘n roll davvero esplosivi (Wax Dummy, il Biff! Bang! Pow! di Dial Up Doll, l’orgia stradaiola e keefiana di Crossroad Hop, il cuore di ferrovia metropolitana che stantuffa sui binari di Betty Vs. The NYPD, quella sorta di Loose umiliata dalle frustate delle veneri in pelliccia di White Jesus, il trascinante soul di Down and Out, la strisciante Cooking For Television e i groove assassini di Tales of Old New York: The Rock Box Born Bad le migliori di tutte) che riciclano all’infinito la formula del terzetto newyorkese, che è comunque ormai talmente consolidata e riconoscibile da potersi autocelebrare fino alla parodia ruffiana e vanitosa di cui Spencer è maestro.   

E così ecco lì tutti i “c’ mon” e i “get down” che vi aspettereste da uno che ha deciso di suonare Elvis mugugnando come Robert Earl Bell.

E i cani, e le galline, e tutte le altre bestiole della fattoria del rock ‘n’ roll.  

Che puoi sempre sperare in un mondo migliore. Ma poi ti rompi i coglioni e torni a piazzare la tenda nel peggiore.

Che è l’unico che conosci. E quello che ti fa sentire a casa tua: questo.

Quasi come uno spettro delle twin towers, ecco Jon Spencer costruire una gemella alla Freedom Tower” della Blues Explosion, stavolta radunando il vecchio plotone dei Boss Hog. Un disco che, come quello, mostra una band, una città, un paese intero in mutazione. Brood X ci offre una band ormai distante anni luce da quella degli esordi, conscia delle proprie capacità, compiaciuta e compiacente. Che dopo aver gattonato nella polvere del noise più fatiscente ha imparato subito ad ancheggiare. E questo era già accaduto moltissimi anni fa, ai tempi di Whiteout, il disco in cui la Martinez si appropriava completamente dei Boss Hog, tanto da oscurare il ruolo di Jon Spencer che anche in questo caso c’è ma non si sente (Formula X) ma anche quando c’è (Signal, diciamo. Anzi no, diciamo Rodeo Chica) non fa per nulla paura. Non ne fanno del resto neppure i restaurati Boss Hog. Suonano un po’ come dei cani randagi che hanno trovato casa, di quelli che mangiano solo croccantini e cagano piccole strisce di merda profumata. E che abbaiano senza mordere, come vuole il detto.   

                                              

A 53 anni suonati Jon Spencer si ricaccia in un bel guaio rock ‘n’ roll. Stavolta simbolicamente da solo. Senza dimenticare che hits in inglese significa successi ma che, analogamente, ha valore verbale di “colpire”. E che, se può certamente verificarsi la prima ipotesi ovvero che queste canzoni diventino dei successi per il pubblico assetato di acque torbide, è certezza assoluta che Mr. Spencer su Spencer Sings the Hits colpisce con maestria. Coadiuvato da una nuova sezione ritmica (Sam Coomes dei Quasi e Mike Gard), il musicista americano si butta col mestiere, l’astuzia e l’energia di cui non ha mai peccato nell’ennesimo, riuscito lifting erotico del blues, lusingandoci con la sua lingua pelvica, come se le nostre orecchie fossero degli apparati sessuali da portare al piacere estremo, delle fiche di cartilagine da lubrificare. Il gorgoglio sensuale di Spencer (che ha in Love Handle il suo capolavoro di libido) rinnova i gorgheggi di Gene Vincent, Lux Interior e di gran parte dei feticisti radunati sotto la bandiera maculata del rock ‘n’ roll (compresi quelli del campionario già esplorato con i suoi stessi Heavy Trash, NdLYS). Una sorta di amplesso orale superamplificato in cui Jon Spencer appare così concentrato da dimenticarsi spesso di costruirci attorno un’adeguata sovrastruttura libidinosa ed esplosiva, finendo per suonare un po’ come i “kapow” dentro i telefilm di Batman. Un’impressione che la batteria di Wilderness e Time 2 Be Bad, suonata come fossero i bastoni di un nunchaku, tende ad accentuare oltremodo.

Alla fatta dei conti pezzi come Beetle Boots, I Got the Hits o Wilderness non inventano nulla che non abbiamo già sentito dentro qualche disco di Iggy Pop. Nonostante questo continuano ad attrarci, come contenessero nel loro nucleo il magnete eterno del rock ‘n’ roll. O quell’altro magnete che è biologicamente assimilabile al rock ‘n’ roll e che ne identifica la sua versione carnale.    

Ufficializzata la formazione di Spencer Sings the Hits (ovvero Michael Gard e Sam Coomes + l’intervento sporadico di Bob Bert) sotto il moniker di HITmakers ecco Mr. Jon Spencer dare un seguito al disco del 2018 con Spencer Gets It Lit, album di libidine retro-retrofuturista che a tratti sembra una versione funky/blues dei Man or Astro-man? (ascoltate la bellissima Death Ray, con i suoni twang e i rumori robotici a fondersi e sovrapporsi come se Alan Vega invece di sognare Presley sognasse Duane Eddy) e in altri passaggi dei taglia-e-cuci che ricordano, non tanto nei risultati quanto nei propositi, i primi esperimenti di Beck (The Worst Facts, Rotting Money, Push Comes to Shove).

Un album destrutturato, il nuovo di Spencer, dove anche il giro più banale del rock and roll (quello che sorregge Get Up & Do It, per intenderci) o la più elementare sequenza di pianola elettrica (quella di Junk Man) vengono di fatto sabotate preferendo inciampare piuttosto che concedersi alla libido in maniera spontanea sfornando quelle “hit” cui il nome della formazione sembra alludere e che, come ratificato dalla bellissima Bruise, dimostrano di saper scrivere rifiutando tuttavia  di venire a compromessi e di riempire la vetrina di inutili ciambelle, preferendo alla rotondità perfetta delle donuts il gusto ferroso dei churros salati.     

                                                                

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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THE STYLE COUNCIL – The Cost of Loving (Polydor)  

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Doppio dodici pollici con un paio di brani per facciata e copertina senza alcun riferimento diretto agli autori. Che sono gli Style Council. E che in questo modo rendono omaggio alla club-culture che sta esplodendo in Gran Bretagna, sulla spinta delle contaminazioni del funk che hanno dato via all’hip-hop. Per vedere l’esplosione del fenomeno acid-jazz occorrerà attendere un altro pochino, ma The Cost of Loving si merita la citazione di disco seminale per l’avvento di band come Brand New Heavies e Mother Earth.

Ancora una volta Paul Weller sembra aver capito tutto, ed averlo capito prima.

Il suo pubblico, me compreso, no.  

Quando il Dynamic Trio dichiara “one nation under a groove” su Right to Go, citando volutamente il Dio del P-Funk, in molti (ancora una volta, me compreso) pensano di essere finiti sul disco sbagliato. Sull’altare sbagliato.

E tutto il resto dell’album non si preoccupa certo di fugare questi dubbi. Lo stacco dal passato è netto e la svolta funky talmente marcata da lasciare le marciature ai piedi. Ma, soprattutto, c’è una laccatura che rende indigesto il tutto. Un ritocco stilistico che sa anche di ritocco estetico, un’abbronzatura che sa di lampade UV. Il più amaro tra i bocconi dolciastri che ci toccò ingerire negli anni Ottanta.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro