OPAL – Happy Nightmare Baby (SST)

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Gli Opal. Ovvero quando David Roback si ridesta dal sogno colorato dei Rain Parade e sprofonda in un incubo escheriano.

Sul letto, accanto a lui, c’è distesa Kendra Smith, musa e madonna del movimento Paisley. È un incubo, ma è un incubo niente male.

Happy Nightmare Baby rende tributo all’acid rock californiano di due decenni precedenti e lo avvelena ulteriormente con le ossessioni inglesi di Roback (Pink Floyd in primis e non esclusivamente quelli di Barrett, ma anche i Tyrannosaurus Rex e i Soft Machine) e alcune scorie tossiche che sembrano state trasportate da qualche falda petrolifera sotterranea proveniente dall’oriente.

Ne viene fuori un disco bellissimo e trasversale di grande fascino che disseminerà il suo polline ben oltre il recinto ormai divelto del Paisley Underground. Ne ritroveremo tracce nei dischi di esordio di Uzeda e PJ Harvey ad esempio e, tumulato sotto tonnellate di rumore, in molti dischi shoegaze e anche in quelli di band come Smashing Pumpkins e Tool. Ma mai in questa forma, che suona come una visione dilatata, alterata, deforme, fluttuante del blues primigenio, così come lo sognarono i Doors e i Grateful Dead.

Il Paisley Underground muore agitando i tentacoli, in preda ad un ultimo spasmo, vittima di un ultimo, definitivo fiotto di veleno lisergico e letargico.     

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

LE CAROGNE – TuttiFuzzy (Area Pirata)

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Titolo geniale per il quarto lavoro de Le Carogne, il gruppo che suona garage-rock con le mole di una fresatrice, orgoglio di un’Italia che si nutre di cultura trash, di doppisensi, di televisione spazzatura, di cattivo gusto, di zozzerie. E stavolta ce le cantano (e ce le suonano) anche in inglese. Anche se i pezzi che ci fanno divertire di più restano i tre cantati in italiano, quelli che possiamo cantare assieme a loro ai concerti.

E però, nonostante la si possa cantare meno liberamente, cosa non è Screen Addicted? Tre minuti dove tutto frigge, dove tutto sibila, dove tutto straripa, dove Le Carogne sono ancora più carogne. Tre minuti che varrebbero tutto il disco se non fosse che ci viene scippata sotto gli occhi e seppellita sotto i tumuli di Fermo immagine e di Monster, rugginosi mucchi di ruggine che hanno il colore del sangue rappreso.

Canzoni che hanno il ghigno delle iene, sciacalli che mangiano carogne. Canzoni buone per noi, da divorare come fettine di carne cotte al sangue.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BLACK LIPS – In a World That’s Falling Apart (Fire)  

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Sarà che Hooker Jon, il pezzo che apre questo In a World That’s Falling Apart rassomiglia pericolosamente, rutto escluso, al Bob Dylan di Tombstone Blues e From a Buick 6. Oppure sarà che recentemente ho in heavy rotation sul mio stereo nientedimeno che Delaney & Bonnie ma il nuovo Black Lips mi è piaciuto dal primo solco, come a Romolo piacque Roma.

Un disco dove i richiami a certa country music sono molto più che una suggestione,  dimostrando in almeno due o tre occasioni come i Black Lips sappiano fare, oggi, molto meglio di tante band di roots-rock degli anni Ottanta.

Il frat-rock e il garage punk scazzato non sono tuttavia totalmente scomparsi e fanno capolino in maniera prepotente in pezzi come Rumbler, Dishonest Man e nel whap-a-dang di Angola Rodeo (condotto da un piano honky-tonk e dal sax di Zumi Rosow che finalmente la band di Atlanta sfoggia in copertina ufficializzandone in qualche modo la presenza) ma l’aria che si respira è tuttavia più vicina a quella del “banchetto dei mendicanti” degli Stones, del “rodeo” contadino dei Byrds e, in una meraviglia filigranata come Locust, alla ricetta basica dei primissimi album dei White Stripes o dei Reigning Sound marci di Live at the Goner Records, anche in considerazione del fatto che i Black Lips hanno registrato stavolta praticamente in presa diretta e senza tecnologia di supporto.

Dal vivo in studio.

Vivi, in studio.

Non è ancora finito novembre e io ho già trovato uno dei miei dischi preferiti del 2020. Voi invece quale reunion avete chiesto a Babbo Natale quest’anno?

                                   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WOLFMANHATTAN PROJECT – Blue Gene Stew (In the Red)  

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Se i Broadway Lafayette erano già una sorta di supergruppo, il Wolfmanhattan Project lo è ancora di più. A spartirsi onori e gloria con Mick Collins sono stavolta Bob Bert e Kid Congo Powers (oltre a Lydia Lunch che partecipa a uno dei dieci brani) con i quali il musicista di Detroit realizza un lavoro trasversale al pari di quelli dei Dirtbombs.

Un sillabario dove blues, funk, new-wave, elettronica convivono fianco a fianco.

Un parco al centro di Manhattan dove ti può capitare di vedere Brian Eno camminare fianco a fianco con Andre Williams. E insieme, voltare la testa ogni volta che passa qualche bel paio di natiche da guardare.  

Detto questo, è vero che St. Collins i miracoli li ha già fatti tutti e infatti in Blue Gene Stew di miracoli veri non ce n’è. Così come è vero che lo sperimentalismo di Toybee Tile Blues nei suoi otto e passa minuti di tribalismi industriali alla PiL alla lunga risulta noioso e fine a sé stesso.

Però quando i tre vestono i panni di papponi che gli sono consoni (Now Now Now con la voce licantropa di Powers, Stick, Smells Like You oppure quella versione sci-fi-billy di Third Uncle che è I Feel You) scopriamo che ci si può divertire anche al riparo dai miracoli. E che Mick Collins non ha ancora terminato la sua missione.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE RACONTEURS – Broken Boy Soldiers (XL Recordings) 

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Quando nel 2003 i White Stripes scelsero una cover di Good to Me di Brendan Benson come retro per il loro singolo di maggior successo, nessuno avrebbe immaginato che quell’atto d’amore si sarebbe trasformato in una “relazione” artistica. Eppure, eccoli qua: Jack White e Brendan Benson fianco a fianco in questo nuovo progetto chiamato Raconteurs, cercando di adattarsi l’uno nei vestiti dell’altro. L’album che ne viene fuori è un disco che beneficerà di grandissimo battage proprio in virtù della presenza di White che fa da garante per quello che è in realtà un capolavoro di modeste dimensioni.

Pescando un po’ dove cazzo gli pare (dal blues, dal glam rock, da Elton John, dai Beatles, dal prog, dal power-pop) i Raconteurs mettono in piedi un album di sicuro appeal per le nuove generazioni ma un po’ stantio per quanti di cerchi di vinile ne hanno consumati quanti e più degli autori (basti già l’inaugurale Steady, As She Goes, furbetto singolo da classifica alternative che in realtà è un collage picassiano tra Is She Really Going Out with Him? di Joe Jackson e California Dreamin’ dei Mamas and Papas o l’apatica ballata Together che invece suona come un mash-up tra il passo vellutato del Lennon newyorkese e la melodia di Rocket Man di Elton John).

Per carità, nulla di grave. Ci sono fior fiori di musicisti che hanno costruito un’intera carriera su questo meccanismo (Lenny Kravitz in America, in Italia ci facciamo bastare Zucchero Fornaciari) e di certo non metteremo i Raconteurs alla gogna per questo. Ma neppure tra i gruppi che salveremmo da una catastrofe correndo con i loro dischi sotto il braccio e rischiando di inciampare proprio su quell’ostacolo che abbiamo evitato per anni con grande destrezza.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE SMOGGERS – Get Stoned on Fuzz (Soundflat)

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Perennemente fedeli al garage-punk più decerebrato, gli spagnoli Smoggers tornano con l’ennesimo labirinto di organetti vintage e chitarre fuzz dentro cui si rincorrono le urla spiritate di Fernando Jiménez e i coretti del resto della band.  

Gli Smoggers si muovono insomma dentro le mura di tutti i cliché del genere, aggiungendo poco o nulla a quanto già detto in materia, continuando a pescare da una tradizione che ha ormai più di mezzo secolo di vita. Anche nella scelta delle cover gli Smoggers nuotano a braccio in un oceano che dalle sponde degli anni Sessanta lambisce le coste del neo-garage storico degli anni Ottanta, senza alcun problema. Stavolta la scelta cade sulla Thirteen Women and One Man di Dickie Thompson “risolta” in modalità Renegades/Fuzztones e sul recupero della Radio Go che Los Macana incisero sullo storico split con i Sex Museum pubblicato dalla Romilar-D oramai più di trent’anni fa. Il resto lo scrivono di proprio pugno, adottando il linguaggio espressivo consono al genere, limitando stavolta l’uso dell’idioma spagnolo ad un unico brano e raggiungendo l’eccellenza su Evilness, numero alla 1313 Mockingbird Lane sporcato da una bella armonica che invece latita sul resto di un disco che farà felici ai garage-maniaci invasati per il lato più esasperato della loro musica preferita.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

TONI CRIMINE – Toni Crimine (Area Pirata)  

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Potrebbe capitare che, passeggiando per Pisa, vi troviate davanti ad un cartello con su scritto cave canem. E potrebbe essere che quel varco coincida con la cantina dei Toni Crimine, perché occorre avvertire i passanti che dentro ci sono dei cani feroci.

Cagnacci punk, i Toni Crimine. Che escono per pisciare e poi scompaiono per quindici anni. Poi, quando pare a loro, tornano a ringhiare.

Questa volta lasciano sull’asfalto qualcosa di più che uno schizzo di piscio. Stavolta accanto alla vostra staccionata le deiezioni hanno un colore e una consistenza diversa. Quattordici deiezioni punk con cui è facile vi lordiate le suole mentre camminate guardando il display del vostro smartphone controllando le notifiche di approvazione alle vostre minchiate.

Pisa brucia, dunque. Anche se adesso, rispetto a trent’anni fa, si tratta di piromani disorganizzati e solitari. Tanto che i testi dei Toni Crimine sono quasi sempre declinati alla prima persona singolare.

E però, che bell’incendio.

Basterebbe quella Collezione di vizi di cui vi parlai qualche settimana fa ad innescare la scintilla. Però non basta. E così il gruppo pisano di micce ne accende una bella batteria. Una sequenza di quattordici petardi di punk disonesto e scorretto, in barba alle ordinanze comunali contro i botti di Capodanno che presto verranno diramate per farvi chiudere in casa.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

COLDPLAY – Everyday Life (Parlophone)  

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Un doppio album, diviso in una Sunrise-side e in una Sunset-side, con una ouverture di violini che dà già la misura di grandeur con cui i Coldplay si sono approcciati a questo loro concept-album destinato a diventare il Mellon Collie di Chris Martin e soci. Almeno a metà. Perché qui più che la dimensione onirica che l’analogia potrebbe suggerire affiora invece, scusate l’ossimoro, un tuffo nella realtà.

La vita di tutti i giorni, insomma.

Grigia come la copertina.

Ma anche con un salto salvifico verso la fede, una proiezione ortogonale della speranza che fluttua tra puro misticismo e una più concreta sensibilità ecologista. Proteggere la casa terrena in attesa di costruire una casa ultraterrena.

Lo spaziosissimo contenitore di Everyday Life permette alla band di argomentare senza freni, facendo convivere tutte le sue anime e innestandole con una trasversalità culturale che, e non sembri un confronto irragionevole, è assimilabile a quella del nostro Lorenzo Cherubini. Ascoltare Arabesque per credere: l’incontro con Stromae è del tutto affine a quello tra Jovanotti e Michael Franti.

Ci sono i Coldplay riconoscibilissimi, leziosi e supponenti di Orphans e Champions of the World, quelli che marciano come soldati sotto l’arco di trionfo, ci sono i soliti Coldplay che sanno di abeti e salici piangenti di Everyday Life e Daddy e anche i Coldplay spettrali di Ghost Stories ma ci sono anche dei lunghi sipari in cui il gruppo gioca col blues, col gospel, con il soul, con la musica del terzo e del quarto mondo, riducendo spesso il dialogo a quello intimo di una chitarra acustica o comunque di un unico strumento portante nel tentativo di non rendere indigesto un pasto che però ha obiettivamente un eccesso di portate.

Del resto molti lo regaleranno la vigilia del Natale prossimo venturo, no?  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DEAD KENNEDYS – Tutti gli uomini del presidente

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Bakunin aveva messo in guardia gli sbirri che lo stavano conducendo in prigione: una risata vi seppellirà!


Nel 1980, dopo più di cent’anni, quella risata arrivò, ed era quella di Jello Biafra.


Provocazione e sberleffo, ingiuria e irriverenza, derisione e denuncia politica condite da una voce che sembra proprio voler ridere sarcasticamente sul declino della civiltà occidentale. La musica dei Dead Kennedys arriva a porre fine al punk e dar fuoco alle polveri dell’hardcore. Il messaggio sopra ogni cosa. E le spiagge colorate del beach punk californiano si tingono improvvisamente di rosso sangue.

La California Soprattutto, ma vista come un campo di concentramento nazista, mentre tutt’intorno scoppia la guerra chimica, le menti sono assuefatte dalla televisione di Stato, il Ku Klux Klan annienta la nazione nera, la bomba al neutrone diventa la nuova merce di scambio tra America, Cina e Unione Sovietica e la Cambogia la nuova località balneare per i vitaminizzati marines americani.

E poi un nome che è un’ombra nera proiettata nella storia dell’America moderna e un leader che si è appena candidato alle elezioni municipali di San Francisco con un programma che prevede una divisa da clown per la Polizia della città e che, malgrado tutto, è arrivato quarto su una lista di dieci candidati. La città è salva per un soffio ma l’America non può perdonarlo, così tra una guerra segreta in Nicaragua e una botta alle chiappe del golfo Persico, gli Stati Uniti trovano pure il tempo per dichiarare guerra a Biafra e ai suoi Kennedy Morti. Prima bloccando la pubblicazione entro i patri confini del loro album, infine trascinando il cantante in tribunale con l’accusa di oscenità, prosciugando le tasche della Alternative Tentacles e decretando di fatto la morte del gruppo.


Un anno dopo il processo i Dead Kennedys sono i Dead Dead Kennedys.

Morti due volte. Uccisi due volte.

Poi resusciteranno, come tutti i cadaveri del rock ‘n’ roll obituary, ma quella è un’altra storia, altrettanto macabra. Fresh Fruit for Rotting Vegetables con la sua copertina scomoda (che documenta gli scontri urbani innescati dalla comunità gay di San Francisco a seguito dell’uccisione del loro leader Harvey Milk e della “morbida” ed omofoba sentenza emessa nei confronti del suo assassino Dan White. Dan sarebbe comunque morto prima dei Dead Kennedys, ucciso dal suo stesso rimorso, NdLYS) e i suoi testi ferocemente sarcastici troverà dunque asilo in Inghilterra, dove verrà stampato dalla Cherry Red e finanziato quasi per intero da Iain McNay che dell’etichetta inglese è il fondatore e il presidente ad interim. Uno dei dischi che cambia il volto del punk americano arriva negli Stati Uniti d’importazione. Non tutti lo trovano, nel negozio della propria città, ma chi lo trova resta bruciato da queste quattordici sciabordate che si trasformano ora in un valzer (Chemical Warfare), ora in una parodia del rock ‘n’ roll (la cover di Viva Las Vegas che chiude il disco), ora in una truculenta caricatura di un gruppo garage (Let‘s Lynch the Landlord), di una surf band (Funland at the Beach) o di una gang psychobilly (Drug Me), sganciando sul campo i nuovi anthem della generazione hardcore come KIll the Poor, California Über Alles, Holiday in Cambodia tutti percorsi da un analogo senso di minaccia incombente e bruciati da chitarre sulle soglie dell’epilessia, da un basso perentorio e tritonico e dalle smorfie di Jello Biafra, il Joker del punk californiano.

Gridai:
“Chi ha ucciso i Kennedy?”
quando dopo tutto sapevamo
che eravamo stati voi ed io.

Due mesi dopo la pubblicazione di Fresh Fruit for Rotting Vegetables, Ronald Reagan viene eletto quarantesimo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Su di lui e la sua politica “ispirata da Dio” (uno dei primi emendamenti aveva riguardato la disciplina/imposizione delle preghiere a scuola) che ne avrebbe motivato l’accanimento contro il blocco sovietico, si scagliano gran parte della ferocia dissacrante e delle invettive dei Dead Kennedys.

In God We Trust, Inc. è il primo e più violento atto di accusa e, insieme, urticante documento di sberleffo del Reaganismo degli anni Ottanta.

In suo “onore” i Dead Kennedys riadattano in chiave jazz California Über Alles facendo parlare in prima persona l’”Imperatore” Reagan, in una parodia caustica del suo discorso di insediamento. We’ve Got a Bigger Problem Now dura da sola quanto metà dell’intero lavoro, o poco meno. Perché il resto è costruito attorno alle più feroci schegge hardcore di tutta la loro discografia. Canzoni che durano poco più che una zampata. E che come ogni zampata, graffiano la pelle.

E che non risparmiano nessuno. Senatori, pastori protestanti, anti-femministe militanti, Dio.

A dare una spinta alle già nefande canzoni della band è arrivato D.H. Peligro, capace di portare ogni pezzo sull’orlo di un precipizio.


Sono i Dead Kennedys che cominciano a fare paura.

Che verranno braccati dalla CIA e dai censori.   

Costringendoli alla resa prima del termine del secondo mandato dell’Imperatore Ronald Reagan.

Politica

Rabbia

Energia

California

Ironia

Punk

Impulso

Tempra

Entropia

Violenza

Oltraggio

Lucidità

Isteria

Surf-music

Sberleffo

Integrità

Mani

Epicureo

Veloce

Orgoglio

Licenzioso

Motteggio

Emozione

Nichilismo

Tenacia

Efferatezza                                                                         

$o$tantivo più, $o$tantivo meno, gli ingredienti sono i medesimi del disco di debutto. Quel che manca a Plastic Surgery Disasters rispetto a quell’altro è fondamentalmente la presenza di un brano-anthem, la canzone da aspettare trepidanti a fine set, per mandare definitivamente in pezzi la sala. Per il resto il secondo album dei Dead Kennedys è un parodistico carro di Carnevale che scorre lungo le strade americane, schernendo politici, militari, preti, wasp e benpensati, dispensando trucide canzoni hardcore gonfie di polvere da sparo come Riot, Bleed for Me, Buzzbomb. Trust Your Mechanic, Government Flu che non appena toccano terra sono in grado di provocare voragini che potrebbero inghiottire un’intera città americana. Molto probabilmente Washington D.C..

Il panorama non è solo quello “di cazzi” accluso come poster dentro la copertina del disco e che il 15 aprile del 1986 causò l’irruzione dentro gli uffici della Alternative Tentacles di nove agenti dei dipartimenti di Polizia di Los Angeles e San Francisco, la condanna di Biafra per “distribuzione di materiale dannoso ai minori” e il successivo processo che, nei fatti, causerà la scissione dei Dead Kennedys.

Il panorama è, soprattutto, quello dell’America Reaganiana. Che non era peggio delle altre Americhe che sarebbero venute dopo ma che era l’archetipo del perbenismo rampante, falso e bigotto contro cui Dead Kennedys e la scena hardcore sta urlando. È questo il “mostro” Frankenchrist sulle cui arterie di asfalto scorrazzano i ricconi della massoneria sulle loro macchinine da Banana Splits e sulle cui miserie benvestite la band californiana costruisce il suo acidissimo catalogo di efferatezze punk storpiate da echi surf (Goons of Hazzard) o da anomale, robotiche marce funebri da catena di montaggio (At My Job) o ancora da buffe pantomime da avanspettacolo satirico (MTV Get Off the AirJock-O-Rama) urlate col solito ghigno canzonatore da Mr. Biafra.

Frankenchrist, nonostante lo si voglia più vicino al punk che al trash rock, è la trasposizione dell’universo mostruoso dei Cramps nel mondo reale.

Ronald Reagan succhia sangue al posto di Bela Lugosi.

E l’uomo spazzatura mangia sapone seduto al tavolo rosso del McDonald‘s®.

Sentendosi libero in una nazione libera.

Come noi.

   

Bedtime for Democracy mette alla berlina le contraddizioni dell’America e di quella fetta di mondo che gli è suddito dalla metà del diciannovesimo secolo. Il vessillo della libertà minacciato da mille insidie, divorato da centinaia di vermi diversi per divisa ma, una volta denudati, uguali per viscidume. Alla guida del paese, come in un’allegoria satirica, l’attore protagonista di Bedtime for Bonzo.

Il mondo da cui ci mettono in guardia i Dead Kennedys di Bedtime for Democracy , quello delle facili lusinghe, delle luci abbaglianti, delle pubblicità che ci trasformano in avidi oniomani, cleptomani e collezionisti di roba inutile, delle notizie truccate e manipolate ad arte, della schiavitù dal consumismo, delle palestre dove la cura per il muscolo scalzerà la cura per l’intelletto, degli ideali barattati per poche briciole, del conformismo nascosto dietro il facile ghigno severo del punk, dei colpevolisti pronti ad additar nemici ed assassini, delle armi da tenere sul comodino sarebbe diventato il “new world order” in cui viviamo adesso, quello cui avrebbero piegato la testa anche molti dissenzienti di allora. Che con un po’ di tempo e di fortuna il mondo trova un posto per tutti. E anche se prima ci avevamo sputato, basta una pezzuola per ripulirlo prima di andarci a sedere. Del resto Biafra stesso proverà sulla pelle sua e quella della sua band quanto un gruzzolo in grado di pagarti gli studi in giurisprudenza o, in alternativa, un buon avvocato, possano fare la differenza. Un mese dopo la pubblicazione di Bedtime for Democracy, sfiancati dalle udienze e dalle spese processuali per lo “scandalo” legato al poster di Frankenchrist, i Dead Kennedys sono morti come la famiglia che ne ha ispirato suo malgrado il nome.

Fino a quel momento però la macchina da guerra californiana non arretra di un solo millimetro. E non concede al nemico di avanzare.

Quel che è territorio dei Dead Kennedys, fino alla fine del 1986, è territorio dei Dead Kennedys.

FlashdunceCesspool in Eden, Lie Detector, Chickenshit Conformist, Potshot Heard ‘Round the World, Macho Insecurity, One Way Ticket to Pluto, Dear Abby, Rambozo the Clown sono una pioggia di fuoco che non dà tregua, pur firmandone una.

Una tregua lunghissima, infinita dietro cui si cela una Guerra intestina in cui a morire sono i Kennedys, di nuovo e per sempre. A meno che non crediate ai governi di rimpasto.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

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THE KING KHAN & BBQ SHOW – Bad News Boys (In the Red)

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Stavolta c’hanno messo più del solito, King Khan e Mark Sultan, a far confluire i loro impegni e mettere su un nuovo disco. Ben sei anni separano infatti Bad News Boys dal precedente Invisible Girl. Nel frattempo anche King Khan, seguendo l’esempio dell’amico fraterno, ha messo in piedi un’etichetta personale anche se per la vecchia sigla comune hanno scelto ancora una volta le garanzie della In the Red.

Di veramente nuovo ci sono i costumi di scena disegnati dalla moglie di Khan, due tute nere come la notte forate sui capezzoli e due mascheroni a coprire metà del viso con cui i due hanno dato il via al Nipples ‘n Bits tour e posato per le foto promozionali di rito. Per il resto, le canzoni scollacciate del duo non conoscono margini di miglioramento, e se per qualcuno questo può voler dire una “cattiva notizia” per altri, me compreso, non lo è. Nonostante continui a preferire le canzoni meglio rifinite degli Shrines, lo spettacolo che i due riescono ad allestire grattugiando solo due chitarre ha del prodigioso, riuscendo ancora una volta a riempire il foglio di schizzi rock ‘n’ roll, doo-wop e frat-rock (e anche qualche numero di punk schizoide come Zen Machines e D.F.O.) senza stare attenti ai margini. Anzi, imbrattando più quelli che le rigorose e composte righe a centro pagina. Avercene, di ultimi della classe così.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro