DEAD MOON – In the Graveyard (Tombstone)

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Una storia d’amore reciproco e, insieme, di passione musicale che non conosce battute d’arresto quella tra Fred Cole e Kathleen “Toody” Conner che tornano ad armeggiare col rock ‘n’ roll all’indomani della breve avventura country dei Western Front e quella ancora più effimera dei Range Rats.

Rispetto ai rAts, la grandissima e sottovalutata band che nella prima metà degli anni Ottanta realizzò tre fra i più begli album punk americani, siamo qui più vicini allo spirito dei seminali Lollipop Shoppe, con un richiamo marcato al suono degli Elevators che Fred ha sempre amato a dismisura, così come ai Love più burberi e meno inclini alla poesia: pezzi come Graveyard o la cover di Hey Joe, per dire, si muovono esattamente e prepotentemente in quelle direzioni.

Per il resto pezzi come Don’t Burn the Fires, Remember Me, Out on a Wire e la tormentata e scura Dead in the Saddle ci raccontano di un uomo e di una donna ancora bruciati dal fuoco eterno del garage rock e senza alcuna voglia di chiedere una qualche redenzione dal peccato che si portano addosso.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DIED PRETTY – Lost (Blue Mosque) 

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Il secondo album dei Died Pretty segna uno dei più inaspettati e clamorosi tracolli artistici di tutti gli anni Ottanta. Lost dissipa in tre quarti d’ora un’attesa lunga due anni che il bel singolo Winterland, con i suoi grumi infetti di sangue loureediano (What Goes On si muove come un’ombra spettrale dietro tutto il pezzo, NdLYS) era riuscita a caricare di aspettative, amplificando alla fine la delusione per un album in cui tutta la tensione drammatica che è stata tipica della formazione australiana fino a quel momento si stempera in uno sciatto repertorio di blande ballate inacidite più dalla svogliatezza che dal sacro veleno del rock ‘n’ roll.

Ron Peno sembra “perduto” in un romanticismo stereotipato che giunge al culmine del suo languore da patetico crooner nella conclusiva Free Dirt (un duetto che dovrebbe essere appassionato con Astrid Munday e l’elusivo accompagnamento al piano di Don Walker dei Cold Chisel) dopo averci ammorbato con canzoni dall’aplomb autunnale come Springenfall, As Must Have, Towers of Strength, in una tediosa allegoria della desolazione fertile dei Died Pretty desertici del primo album, lontani da quell’approssimazione verso il nulla che ci aveva incantato ascoltando blues capaci di coprire distanze paradossali e senza un solo ciuffo d’albero che ci riparasse dal buco del culo del sole.

Adesso i Died Pretty ci riaccompagnavano a casa in un carro coperto, passandoci qualche borraccia d’acqua. Ma facendoci rimpiangere l’arsura urticante e selvaggia del primo indimenticabile viaggio.  

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

NAKED PREY – Kill the Messenger (Fundamental)

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Fra le tante minchiate che girano nel para-giornalismo musicale ce n’è una che è diventata quasi verità collettiva, come spesso accade con le bugie che rimbalzano tanto a lungo da far dimenticare a tutti che siano tali ed è quella che vuole che Kill the Messenger dei Naked Prey sia un disco dal vivo. Segno evidente che spesso chi scrive di musica nel migliore dei casi non ha neppure ascoltato il disco di cui si fregia di dispensare pareri. Il terzo album dei Naked Prey viene invece registrato in studio a Phoenix e non dal vivo a Tucson come invece sarebbe stato per il mini-album successivo. Phoenix è a quel tempo la seconda patria per la band di Van Christian che suona regolarmente in locali come il Purple Turtle e l’Impulse, posti diventati dei rifugi antiaerei per i reduci della scena Paisley ormai all’empasse e le compagini di gruppi di desert rock e di cow-punk che stanno faticosamente tirando a campare. Kill the Messenger dal canto suo non può aspirare a risollevare le quotazioni della scena roots a causa soprattutto di una prima facciata dove le emozioni latitano e il carburante, per quanto biologico sia, scarseggia. Nulla di disastroso, ovviamente, anche se il suono sembra adagiarsi su uno stantio rock da birreria o da decapottabile.

Le cose vanno decisamente meglio sulla facciata B, soprattutto quando arriva quel distillato di Sister Morphine che è I Saw the Light che ci lascia inermi davanti all’impatto col rockabilly di Road Rash e ad una Blind Man vicinissima alle produzioni dei Green on Red migliori. Kill the Messenger sembra insomma dirci che se i Naked Prey non riescono a cambiare le sorti del roots-rock sembrano però decisi a non contribuire allo sfacelo. Non più di quanto lo faccia certo enciclopedismo rock che punta più sull’abbondanza che alla sostanza. Spesso biologica anche quella.

                                               

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Sub Pop 200 (Sub Pop)

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Con l’arrivo di Jonathan Poneman a dare manforte a Bruce Pavitt il “regno” della Sub Pop si è ormai insediato definitivamente nella geografia della storia del rock imprimendo da questo momento in avanti un marchio indelebile che per qualche anno assumerà quasi i contorni di un’egemonia culturale. Sub Pop 200 è il momento che fotografa l’inizio dell’ascesa dell’etichetta, il suo insediamento al trono.

Tad, Soundgarden, Mudhoney, Nirvana, Green River, Swallow, Fluid, Screaming Trees, Blood Circus vengono coinvolti assieme ad altri rodati gruppi dell’etichetta come Girl Trouble, Fastbacks, Walkabouts, Cat Butt, Beat Happening, Thrown Ups nella scaletta di una compilation EPOCALE.

Le band vengono suddivise a grappoli: tre/quattro chicchi acidi per facciata, su un totale di sei sides, pubblicate il 28 dicembre del 1988 in una confezione di tre dodici pollici che diventa uno dei regali più ricercati a cavallo delle festività di fine anno.

A differenza del “volume” precedente (Sub Pop 100) ci troviamo qui di fronte ad uno spostamento di prospettiva e di sguardo dalle “vetrine” altrui alla propria. Pavitt e Poneman sono coinvolti in prima persona, con i Soundgarden (complici nella vita reale dell’incontro fra i due) che inscenano una telefonata con entrambi nel manifesto programmatico del disco, Sub Pop Rock CitySub Pop 200 infligge al rock un’accelerazione con pochi precedenti, costringendolo a muoversi dal suo pantano creativo e ad incamminarsi verso lo Space Needle, come pellegrini che hanno trovato il loro nuovo totem.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SOCIAL DISTORTION – L.A. Prison Bound (Restless)

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L’assimilazione di elementi C&W nel punk già polveroso dei Social Distortion dà vita, nel 1988, ad L.A. Prison Bound, il disco che rende giustizia al suono piatto dell’esordio ma che non salva la band di Mike Ness da una mediocrità ben tollerata da pubblico e critica ma non da me.

Uscito di prigione, Mike decide di vestire i panni del fuorilegge non più per vocazione ma per esperienza con una serie di titoli e testi programmatici (e ripetitivi): Prison Bound, Lawless, It’s the Law, Like an Outlaw (for You), immergendosi in questo immaginario romantico. Braccia scoperte ad esibire una fitta mappa di tatuaggi diventano il nuovo dress-code da bad boy ma il disco è solo di un palmo superiore a quello precedente. Sicuramente più bilanciato nei suoni, più “mediato” e rifinito come dimostra No Pain No Gain, la “drama-song” meglio riuscita del lotto.

L’insieme tiene e si allinea anche con quelle che saranno le traiettorie del punk degli anni Novanta, qui anticipate da Indulgence e da una personale versione di Backstreet Girl degli Stones. Eppure, ai Social Distortion sembra mancare quel pizzico di carisma, di lerciume, di sporcizia, di epicità (un tratto su cui lavoreranno, nello stesso anno, i Bad Religion) che potrebbe renderli più attrattivi di quello che a me sono sempre sembrati.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DINOSAUR JR – Bug (SST)

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Bug consacra i Dinosaur Jr (finalmente “ringiovaniti” come dei moderni Benjamin Button, NdLYS) ad icona del nuovo rock, fotografandoli al massimo della forma proprio un attimo prima di venir soffocati dallo straripamento del fiume grunge.

Un album che crolla addosso come centomila metri cubi di acqua al cedimento di una diga.

Registrato fra le pareti portentose del Fort Apache Bug consegna alla storia dell’indie-rock almeno una mezza dozzina di capolavori, autentiche ferite aperte sul tessuto lacerato del cantautorato americano come Freak Scene, No Bones, They Always Come, Let It Ride, Yeah We Know, Budge su cui No Bones o la galoppata wah wah di Yeah We Know spargono del sale perché lo spasmo sia ancora più intenso, ancora più stordente.

Canzoni che sono pelle scorticata e dolore lancinante subito addolcito dalla ugola rattrappita di J Mascis, una cateratta di elettricità che ci travolge come il crollo di una diga. Lo stile della band di Amherst diventa canone di quel rock che galleggia sopra il rumore, un po’ come era per lo shoegaze inglese, ma con un’indolenza da periferia americana tutta sua, tutta diversa e che della lontana Albione assorbe, quando può e quando vuole, le sferzate di pioggia malinconica dei Cure e null’altro.   

Dopo, nulla sarebbe più stato lo stesso per i Dinosaur Jr e per grandissima parte del rock a stelle e strisce.

Il piccolo uovo di dinosauro diventa un virus capace di infettare il mondo, facendo meglio di quanto avrebbe fatto il millennium bug dodici anni dopo.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE NEW CHRISTS – Divine Rites (Citadel)

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Sei brani su vinile, il doppio nella versione digitale. Nel 1988 la Citadel celebra in questo modo il “rito divino” della resurrezione dei New Christs, dopo la deflagrazione avvenuta due anni prima.

Con le ossa calcificate attorno alla costola di Rob Younger i New Christs riacciuffano il rock and roll per i capelli e lo bruciano su una pira piena di benzina. Tre singoli (di cui uno doppio) realizzati in rapida sequenza e in rapida sequenza assemblati su Divine Rites, come vagoni di un treno d’acciaio che tagliano il Brickfielder. Dentro quelle bare di metallo c’è molto più blues rispetto agli esordi, a partire dall’aria di sfacelo cow-punk di The Black Hole fino a quella Dropping Like Flies con cui i New Christs edificano una versione altrettanto putrida dello swamp lercio dei Gun Club.

Ma lo spirito originario, il totem rock and roll che guarda fisso verso Detroit non viene affatto tradito: I Swear con il fischio dell’organo di Louis Tillett e la chitarra rovente di Charlie Owen è ancora lì che guarda. E a furia di guardare lì, finiscono per vedere apparire il corpo di Dio falcidiato su quelle stesse rotaie, da quelle stesse ruote di metallo del loro treno che viaggia spedito fino al limite del thrash con I Saw God, sputando fiele dal finestrino e che nella sua folle corsa imbarca anche l’improbabile fanfara del paese su Headin’ South, costringendola a soffiare sui fumi della chitarra enorme di Owen che adesso getta la sua ombra minacciosa sull’intero paesaggio, sull’intera Australia. Forse, sull’intero pianeta.

Prostratevi, Cristo è risorto.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BAND OF SUSANS – Hope Against Hope (Blast First)

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Le tre Susanna c’erano davvero, ognuna di loro con uno strumento a corda in mano, ad erigere quel muro di suono che è l’architettura base della band di New York, che può schierare ben tre chitarre “frontali” per modellare in forma di canzone quel mostro di argilla che Robert Poss aveva messo in vetrina con Inverse Guitar. Dello spericolato rumore di quel disco Hope Against Hope conservava ancora qualche rudimento (Elliott Abrams in Hell, ad esempio) ma l’obiettivo era stavolta irretire il pubblico devoto al punk-rock progressista di Washington D.C., Chicago e Minneapolis smussando le asperità sperimentali per creare piuttosto una sorta di scudo sonico a quelle melodie un po’ appassite che Poss coltiva nel suo ombroso vivaio e che in verità ricordano soprattutto quelle di qualche band post-punk e neo-gotica inglese (Cult, Mission e Fields of the Nephilim in primis) creando un miasma elettrico che confonde il chitarrismo epico tipico di quei gruppi con le fosche caligini dell’alternative rock americano. Orfane di melodie vere e proprie così come di riff esemplari (ad eccezione della sola title-track e della sua coda fluorescente), le canzoni dei Band of Susans si ergono come spettrali cattedrali decadenti, lavorando più sull’impatto, sull’atmosfera, sull’architettura e sulla struttura globale dei pezzi, rifiutando per scelta o per incapacità oggettiva tutti quegli espedienti che le potrebbero rendere memor(izz)abili e meno aliene, approdando alla fine ad un inconsistente ma ingombrante pachiderma noise-rock cui sono state tirate via le zanne.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE BEGUILED – Gone Away (Dionysus)

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Ispirati da quell’immaginario di serie B che era stato il propellente dentro le taniche di Cramps e Fourgiven i Beguiled vengono fuori, dopo aver fatto capolino sulla bellissima Sounds of Now! a fianco di Untold Fables, Yard Trauma, Cynics, Zebra Stripes e degli stessi Fourgiven, con un intero album di chitarre rantolanti e pieno di spooky-songs intitolato Gone Away (che è quello che la band farà subito dopo aver inciso il disco, salvo tornare fugacemente anni dopo, un soffio prima della tragica scomparsa di Mike Ball che di quelle chitarre era l’artefice, NdLYS). Prima di essere avvolti da quelle nebbie che sul disco assumono più volte la consistenza di un sudario sepolcrale, soprattutto lungo la prima facciata dell’album.  

Sotto queste brume anche due eccezionali numeri piovuti direttamente dai sixties come Next in Line dei Birds e Little Girl dei Them prendono le sembianze di corvi dalle grandi ali nere e avvicinano la band al suono cisposo degli Untold Fables  preparando il terreno alla strabiliante title-track che chiude il disco con una febbricitante dose di R&B avvolto dalle spine che, tra i pezzi firmati dal gruppo, contende l’alloro alla Psychotic Girl che si erge dallo stagno melmoso della prima parte del disco.

Con Gone Away i Beguiled diventano la Mystery Machine in grado di inerpicarsi su quel declivio lungo cui sta scivolando il garage rock californiano alla fine degli anni Ottanta.  

   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

KIM SALMON AND THE SURREALISTS – Hit Me with the Surreal Feel (Black Eye)  

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Il disordine che aveva caratterizzato la carriera degli Scientists diventa l’ingrediente basico della nuova esperienza di Kim Salmon una volta rientrato in Australia. I Surrealists sono quel che il loro nome promette, un esperimento di deframmentazione ancora più estremo e caotico, costruito sulle scorie del blues, sulla destrutturazione del suo DNA. C’è una teatralità malata, dentro Hit Me with the Surreal Feel, con gli strumenti che lavorano in maniera indipendente ricomponendosi solo per chinare la testa davanti al feretro del rock ‘n’ roll (Torture, Blue Velvet, Devil in Disguise).

Il resto è un blues sbriciolato, “surreale” alla maniera di Captain Beefheart che ci inghiotte in un viaggio dadaista e onomatopeico tra bave di lumache e passi di tartarughe, versi di licaone e zoccoli di gnu, rumori di sedie trascinate sul pavimento della soffitta e scarichi idraulici.  

Il salmone australiano risale le correnti del blues.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro