THE POGUES – Pogue Mahone (WEA)

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Pogue Mahone, sin dal titolo, è il tentativo dei Pogues di ritornare alle origini. Ed è un tentativo che, per quanto possa adesso suonare stereotipato, risulta in gran parte riuscito. Rispetto al passo falso di Waiting for Herb si torna su territori più sicuri e le nuove canzoni risultano più convinte e convincenti. Il registro vocale adottato da Spider Stacy è stavolta lo stesso di Mr. MacGowan e l’impianto musicale è strettamente legato a quello della loro terra d’origine.

L’album si apre curiosamente con una cover di How Come?, il pezzo che aveva inaugurato la carriera solista di Ronnie Lane dopo le avventure con gli Small Faces e i Faces subito dopo e che già all’epoca, nel 1973, col suo mandolino in bella evidenza sembrava “un pezzo dei Pogues”. Il resto, ad eccezione di una versione a rotta di collo di When the Ship Comes in di Dylan, è tutta farina del loro sacco, anche quando si tratta di mettere in musica i testi di Apollinaire. Ed è ancora farina buona, nonostante la rimacinatura e qualche biscotto poco cotto (Love You ‘Till the End, Four O’Clock in the Morning, Oretown).

Il passaggio di consegne alla nuova compagine di gruppi celtic-punk come Dropkick Murphys, Flogging Molly o Filthy Thieving Bastards costretti a “baciare il culo” ai Pogues per sempre si consuma qui, con l’ultima levata di boccali.  

Se dovessi uscire dalla grazia di Dio, dove nessun dottore possa più sollevarmi, lasciatemi andare, fratelli. Lì dove tutti i fiumi diventano secchi.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE POGUES – God save the Guinn(ess)

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Shane MacGowan, con la sua bocca simile ad un cimitero profanato e l’alito da botte di rovere posa assieme agli altri infagottato in un pastrano da film western ma con un vistoso gesso al piede e un bastone per sorreggersi. Può succedere che cadi dalle scale, quando sei sbronzo. Ma se le gambe sono quel che sono, la musica dei suoi Pogues ha invece la schiena dritta.

Oltre al look torvo da bovari, che a benedire il loro ingresso nel gran rodeo della musica ci fosse John Fitzgerald Kennedy era un’altra sorta di depistaggio. Perché una volta aperta la porta a battente del saloon ti ritrovavi nel bel mezzo di una caciara simile all’alticcia vigilia della Festa di San Patrizio.

Varcato l’uscio, appena diradata la coltre di fumo dei primi trenta secondi di Transmetropolitan, puoi vedere un’orgia popolana di uomini con le mani in tasca e donne che reggono l’orlo della sottana mentre con le gambe ad angolo retto si lasciano andare in una quadriglia esplosiva, saltando come su un tappeto di petardi.

Dalla ruota panoramica di Londra non si vede l’Irlanda. Ma è come se si vedesse. E se hai abbastanza fegato da buttarti giù, puoi saltare dentro il fango della campagna di Dublino inzuppata dalle lacrime e dal piscio di Dio. Perché Red Roses for Me è una vacca irlandese piazzata al centro di Londra, come un cavallo di Troia. Se le mungi le tette, vieni sborrato da salvifico latte celtico.

E così la notte del 15 ottobre del 1984 ci trovammo ad alzare i boccali sotto le fisarmoniche fulminanti di Waxie’s DargieStreams of WhiskeyBoys from the Country Hell Down in the Ground Where the Dead Men Go e poi sfiniti e avvinti dalla malinconia che sale quando il serbatoio dell’adrenalina è ormai in riserva, a cantare qualche canzone triste come The Auld Triangle o Kitty. Aspettando una pacca sulla spalla, mentre sputiamo il catarro sulle nostre scarpe di smalto consumato.

 

Quanti avevano scommesso che Shane MacGowan non avrebbe superato il Natale, persero la loro scommessa: in piena estate dell’85 Shane era tornato in una epifania gloriosa come un San Giorgio pronto ad ammazzare il drago, alla guida dei sui Pogues, a sputarci ancora addosso vecchie storie di alcolizzati e sciancati, marinai e pescatori di frodo, giocolieri, reduci di guerra, sardanapali, pistoleri strabici, pifferai e sgualdrine. Tutta quella massa ciondolante abituata a prendere calci e a distribuirne altrettanti.

Canzoni sprezzanti ma anche cariche di una tenerezza infinita, quelle di Rum Sodomy & the Lash. Cantate da una ciurma di pirati appena scesa da una mercantile cariche entrambe di rum e di idromele.

La negromante seduta all’ombra della Tower of London fa le carte e per ognuno di loro tira fuori un Arcano Maggiore, facendosi pagare due scellini e guardandoli negli occhi col suo occhio di vetro.

Shane tornerà ancora. E ancora. E ancora. Fino a celebrare, oltre che i compleanni, anche gli anniversari di una morte annunciata e mai arrivata. Col fegato gonfio e una sfilza di denti nuovi, per addentarvi il culo come un topo da fogna.

 

Alla fine il culo riuscirono a farselo baciare davvero, i Pogues.  

Nel 1988, quando esce il loro terzo album, tutti stravedono per loro.  

Vecchi puristi, anime ribelli, ubriaconi, stelle del rock, giovani appassionati di musica indipendente, glorie del punk, giornalisti, gestori di pub, registi, dentisti.

Una folla che acclama i Pogues come la più importante band londinese del dopo-Clash. Sembrano scesi dalla terza classe di un transatlantico, stipati tra casse di alcol e brande di legno marcio eppure sono riusciti a conquistare il mondo.

Il rogue-folk, quell’alcolico blend tra musica zigana, tradizione popolare e impudenza punk è al suo apice artistico e commerciale e If I Should Fall From Grace with God è arrivato per raccogliere quello che Red Roses for Me e Rum, Sodomy and the Lash avevano seminato, al passo indemoniato di gighe e polkas o a quello più mesto e doloroso di ballate come Fairytale of New York o Lullaby of London, cartoline grigie piovute tra il Natale e l’Epifania più tristi del decennio.  

Il dolore che resta lì, come se nessuno fosse venuto a ritirare le pattumiere dell’umido. Il dolore rappreso in gola, mischiato con il whisky e la birra a triplo malto. Il dolore che ha corroso lo smalto dei denti di MacGowan e ora gli sta portando via anche l’anima.

Musica carica di un paganesimo così intenso e fiero da diventare sacro.

Un disco pieno di nostalgia e furore, di necessità di riscatto e di politica, di voglia di ballare attorno al falò delle proprie disgrazie, If I Should Fall from Grace with God.

Un album ancora indisciplinato e velenoso, nonostante gli sforzi di Steve Lillywhite per mettere un po’ di ordine nel muro di suono della band.   

Quindici canzoni che ci fecero diventare, per qualche ora, tutti irlandesi. Senza conoscere l’Irlanda.

Tra i dieci dischi da portare all’Inferno, per far ballare Belzebù.

                                                                                               

Con Peace and Love i Pogues sperimentano la voglia di andare fuori tema e a bluffare sin dalla copertina, aggiungendo un dito ai pugni serrati di Hugh Cameron che annunciano pace, amore e cazzotti.

Ecco dunque fioccare canzoni che paiono appartenere ad un repertorio improbabile e alieno come Gridlock, Lorelei, Blue Heaven o Down All the Days e pure l’articolata USA alternate alle solite quadriglie e alle ballate storte che rappresentano invece l’anima arcaica della band irlandese e che raggiungono vette straordinarie in pezzi come Misty Mountain, Albert Bridge e Cotton Fields.

L’apparato Pogues, messo a dura prova dagli eccessi di MacGowan, regge benissimo e paradossalmente, cercando di tirarsi fuori dalla gabbia stilistica in cui sono rimasti imprigionati per un lustro, trovano la strada maestra per diventare una band attuale, facendo storcere il naso ai puristi come Dylan al pubblico di Newport.

 

Nel 1990 i Pogues sono ancora la più grande nave pirata che fa la spola fra Inghilterra e Irlanda e lo dimostrano con un disco bellissimo come Hell’s Ditch, servito ad un pubblico sempre più distratto e lontano da quella che per molti era stata solo una temporanea variante “world” ai propri ascolti di rock ordinario. E così mentre qualcuno ne studia i cirripedi attaccati alla carena e la ruggine che ne ha cominciato a corrodere la struttura, la nave dei Pogues solca il mare con un disco sfavillante carico di rum celtico e polvere pirica proveniente dalle baie dei bucanieri d’Irlanda, caricando a bordo pure Joe Strummer, inchiodandolo alle sue responsabilità di produttore e non più solo a quelle di fanatico della band.

Hell’s Ditch non disperde quel senso di “allegra brigata” che è sempre stata tipica dei Pogues e non dissimula la fede incrollabile del gruppo alla musica della sua verde terra ma allo stesso tempo mostra un gruppo ormai in grado di manovrare abilmente il timone e di realizzare un grandioso disco di musica da viaggio. Con la prua indirizzata verso l’Irlanda e l’equipaggio brillo che dall’alto del cassero respira a pieni polmoni della salsedine che arriva da ogni parte del mondo.     

 

Un giornale italiano sulla copertina della più irlandese delle band irlandesi. Il numero è quello del 14 febbraio 1988, a valle delle dimissioni di Goria e, visto che per immaginario, soggetti e fonti null’altra connessione è plausibile con i Pogues, forse vuole annunciare alle “dimissioni” del capo di governo della formazione che adesso non siede più negli scranni e la cui assenza pesa come un macigno sulla decisione del “consiglio” e del commissario chiamato a supplire alla sua mancanza.

Waiting for Herb è un album che sa di disinfettante, come se la band avesse voluto cancellare di MacGowan non solo la presenza ma anche l’odore. Tanto che alla fine va via anche il loro, assieme a gran parte del “carattere”, finora fortissimo, dei Pogues. Quel che resta è una loro marinatura e a tratti un souvenir irlandese da ipermercato (Modern World, Tuesday Morning) o da Champs Elysees. Con la varichina al posto della doppio malto.

 

Pogue Mahone, sin dal titolo, è il tentativo, in qualche modo disperato, dei Pogues di ritornare alle origini. Ed è un tentativo che, per quanto possa adesso suonare stereotipato, risulta in gran parte riuscito. Rispetto al passo falso di Waiting for Herb si torna su territori più sicuri e le nuove canzoni risultano più convinte e convincenti. Il registro vocale adottato da Spider Stacy è stavolta lo stesso di Mr. MacGowan e l’impianto musicale è strettamente legato a quello della loro terra d’origine.

L’album si apre curiosamente con una cover di How Come?, il pezzo che aveva inaugurato la carriera solista di Ronnie Lane dopo le avventure con gli Small Faces e i Faces subito dopo e che già all’epoca, nel 1973, col suo in bella evidenza sembrava “un pezzo dei Pogues”. Il resto, ad eccezione di una versione a rotta di collo di When the Ship Comes in di Dylan, è tutta farina del loro sacco, anche quando si tratta di mettere in musica i testi di Apollinaire. Ed è ancora farina buona, nonostante la rimacinatura e qualche biscotto poco cotto (Love You ‘Till the End, Four O’Clock in the Morning, Oretown).

Il passaggio di consegne alla nuova compagine di gruppi celtic-punk come Dropkick Murphys, Flogging Molly o Filthy Thieving Bastards costretti a “baciare il culo” ai Pogues per sempre si consuma qui, con l’ultima levata di boccali.  

Se dovessi uscire dalla grazia di Dio, dove nessun dottore possa più sollevarmi, lasciatemi andare, fratelli. Lì dove tutti i fiumi diventano secchi.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SHANE MACGOWAN AND THE POPES – The Snake (ZTT)

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Dice l’adagio che chi entra papa esce cardinale. Shane MacGowan invece, concluso il conclave che decide per la sua estromissione dai Pogues, si autoproclama papa, allargando il titolo anche ai suoi nuovi compagni di ventura, ivi compreso Johnny Depp, lo “special teen idol” che imbraccia la chitarra su That Woman’s Got Me Drinking e che si prende la briga di dirigere e interpretarne il relativo video.

E così il comandante della nave Pogues, dopo l’ammutinamento della ciurma, guarda dal suo Domus Pălātĭum affondare il suo vecchio esercito, divorato dalla noia mentre aspettava l’erba. E mentre loro contemplavano il prato aspettando la loro razione di biada, lui si insinua tra le verdi foglie in forma di serpente, portando nel suo disco tutto il veleno che aveva ancora in stiva e che i vecchi compagni avevano stoltamente dilapidato.

C’era, certo, nei Popes un tiro rock più marcato (A Mexican Funeral in Paris, Victoria, I’ll Be Your Handbag, il basso poderoso quanto quello di Lemmy di That Woman’s Got Me Drinking) ma la rotta percorsa portava MacGowan a lambire le stesse sapide scogliere irlandesi già accarezzate dai Pogues, e di farlo ancora con grande passione e, adesso, anche tutto quel mestiere che ha accumulato negli anni. Tanto che a vederlo manovrare il timone su The Rising of the Moon, Donegal Express, The Snake with the Eyes of Garnet, Aisling o le bellissime The Church of the Holy Spook e The Song with No Name sembra di vedere una vecchia foto di qualche ammiraglio dei primi del secolo. Ora che quel secolo è ormai alla fine e che il nuovo papa ha dimostrato di poter risorgere infinite volte.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

POGUES – Hell’s Ditch (Pogue Mahone)

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Nel 1990 i Pogues sono ancora la più grande nave pirata che fa la spola fra Inghilterra e Irlanda e lo dimostrano con un disco bellissimo come Hell’s Ditch, servito ad un pubblico sempre più distratto e lontano da quella che per molti era stata solo una temporanea variante “world” ai propri ascolti di rock ordinario. E così mentre qualcuno ne studia i cirripedi attaccati alla carena e la ruggine che ne ha cominciato a corrodere la struttura, la nave dei Pogues solca il mare con un disco sfavillante carico di rum celtico e polvere pirica proveniente dalle baie dei bucanieri d’Irlanda, caricando a bordo pure Joe Strummer, inchiodandolo alle sue responsabilità di produttore e non più solo a quelle di fanatico della band.

Hell’s Ditch non disperde quel senso di “allegra brigata” che è sempre stata tipica dei Pogues e non dissimula la fede incrollabile del gruppo alla musica della sua verde terra ma allo stesso tempo mostra un gruppo ormai in grado di manovrare abilmente il timone e di realizzare un grandioso disco di musica da viaggio. Con la prua indirizzata verso l’Irlanda e l’equipaggio brillo che dall’alto del cassero respira a pieni polmoni della salsedine che arriva da ogni parte del mondo.     

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE DROPKICK MURPHYS – Turn Up That Dial (Born & Bred)

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Il kilt l’avevo lavato, stirato e messo via ormai quasi quattro anni fa. Lo ritiro fuori adesso volentieri e mi accorgo che mi sta stretto di cinta, ché nel frattempo ho preso qualche chilo e non l’ho più restituito, dato che m’è piaciuto. Non sono l’unico, a giudicare dalle foto recenti della band di Boston. Ma ora, in questo assaggio di primavera, possiamo finalmente entrambi smaltirne qualcuno e metterci con le gambe pelose al vento e il batacchio in libertà, al ritmo delle gighe festose di Turn Up That Dial che arriva con una copertina anonima e già vista mille volte a farci sentire ancora una volta un po’ più irlandesi, un po’ più bostoniani, un po’ più felici, un po’ più giovani, come quando parte Queen of Suffolk County e ti sovviene di come siano passati quasi quaranta anni da quando comprasti il primo disco dei Pogues e di come, nonostante all’epoca tracannassi pinte di birra come e più di loro (no, più di loro non credo), non te ne sia mai dimenticato.

La musica dei Dropkick Murphys, per metà inni da hooligan e per metà canti da immigrati alticci, ha questo potere e non è potere da poco. A parte l’ironica ma un po’ bruttina Mick Jones Nicked My Pudding, tutto il nuovo album mantiene la scorza dura della loro passata produzione e dopo venticinque anni non è per nulla scontato. Ci si sente sempre un po’ pirati, sempre un po’ zingari e sempre un po’ ribelli quando passa la loro musica. E ci si sente parte di una comunità, quale che essa sia. Cosa che, pensateci bene, non accade praticamente più in questa immensa solitudine condivisa che è diventato il nostro mondo ad un passo da diventare cenere.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE POGUES – Rum Sodomy & the Lash (Stiff)

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Chi aveva scommesso che Shane MacGowan non avrebbe superato il Natale, perse la scommessa e in piena estate dell’85 Shane era tornato in una epifania gloriosa come un San Giorgio pronto ad ammazzare il drago, alla guida dei sui Pogues, a sputarci ancora addosso vecchie storie di alcolizzati e sciancati, marinai e pescatori di frodo, giocolieri, reduci di guerra, sardanapali, pistoleri strabici, pifferai e sgualdrine. Tutta quella massa ciondolante abituata a prendere calci e a distribuirne altrettanti.

Canzoni sprezzanti ma anche cariche di una tenerezza infinita, quelle di Rum Sodomy & the Lash. Cantate da una ciurma di pirati appena scesa da una mercantile cariche entrambe di rum e di idromele.

La negromante seduta all’ombra della Tower of London fa le carte e per ognuno di loro tira fuori un Arcano Maggiore, facendosi pagare due scellini e guardandoli negli occhi col suo occhio di vetro.

Shane tornerà ancora. E ancora. E ancora. Fino a celebrare, oltre che i compleanni, anche gli anniversari di una morte annunciata e mai arrivata. Col fegato gonfio e una sfilza di denti nuovi, per addentarvi il culo come un topo da fogna.

                                                                            Franco “Lys” Dimauro

 

THE POGUES – Red Roses for Me (Stiff)

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Shane MacGowan, con la sua bocca simile ad un cimitero profanato e l’alito da botte di rovere posa assieme agli altri infagottato in un pastrano da film western ma con un vistoso gesso al piede e un bastone per sorreggersi. Può succedere che cadi dalle scale, quando sei sbronzo. Ma se le gambe sono quel che sono, la musica dei suoi Pogues ha invece la schiena dritta.

Oltre al look torvo da bovari, che a benedire il loro ingresso nel gran rodeo della musica ci fosse John Fitzgerald Kennedy era un’altra sorta di depistaggio. Perché una volta aperta la porta a battente del saloon ti ritrovavi nel bel mezzo di una caciara simile all’alticcia vigilia della Festa di San Patrizio.

Varcato l’uscio, appena diradata la coltre di fumo dei primi trenta secondi di Transmetropolitan, puoi vedere un’orgia popolana di uomini con le mani in tasca e donne che reggono l’orlo della sottana mentre con le gambe ad angolo retto si lasciano andare in una quadriglia esplosiva, saltando come su un tappeto di petardi.

Dalla ruota panoramica di Londra non si vede l’Irlanda. Ma è come se si vedesse. E se hai abbastanza fegato da buttarti giù, puoi saltare dentro il fango della campagna di Dublino inzuppata dalle lacrime e dal piscio di Dio. Perché Red Roses for Me è una vacca irlandese piazzata al centro di Londra, come un cavallo di Troia. Se le mungi le tette, vieni sborrato da salvifico latte celtico.

E così la notte del 15 ottobre del 1984 ci trovammo ad alzare i boccali sotto le fisarmoniche fulminanti di Waxie’s DargieStreams of WhiskeyBoys from the Country Hell Down in the Ground Where the Dead Men Go e poi sfiniti e avvinti dalla malinconia che sale quando il serbatoio dell’adrenalina è ormai in riserva, a cantare qualche canzone triste come The Auld Triangle o Kitty. Aspettando una pacca sulla spalla, mentre sputiamo il catarro sulle nostre scarpe di smalto consumato.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DROPKICK MURPHYS – Do or Die (Hellcat)  

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Nei paesi celtici le vittime degli upskirt sono gli uomini. A Boston, periferia dell’impero irlandese in terra americana (il sangue irlandese scorre praticamente in un quarto della sua popolazione), pure. Sotto il kilt dei Dropkick Murphys si vede un’erezione perenne da fare invidia ai re del porno.

Ve ne accorgerete anche senza curiosare sotto le loro gonnelle. Basta prestare ascolto al loro disco di debutto.

Basso/chitarra/batteria e cornamuse. E tanta voglia di scazzottare, come il loro idolo John E. Murphy.

Do or Die, con la sua fierezza sbandierata, ostentata ed urlata, è il disco che ci fa sentire tutti appartenenti ad una comunità che neppure conosciamo.

Ci fa sentire skin, operai, irlandesi, carcerati, celtici, Bostoniani, marinai, emigranti, devoti di San Patrizio.

Con sedici canzoni sporche di sudore e di asfalto. Canzoni come Do or Die, Get Up, Road of the Righteous, Caught in a Jar, Noble che ti obbligano ad imparare l’inglese per poterle strillare a squarciagola sopra quella parata di strumenti potente come una randellata sui denti.

Forte, sempre più forte, finchè Tim Finnegan non resusciti dal suo sepolcro di mattoni rossi.

E noi saremo lì a servirgli la sua pinta di birra scura.   

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

DROPKICK MURPHYS – 11 Short Stories of Pain & Glory (Born & Bred)

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La coerenza non difetta di certo ai Dropkick Murphys, band del Massachusetts che continua da venti anni, come i vecchi maestri birrai, a registrare dischi con la stessa identica ricetta. Cori da stadio o da birreria, cornamuse, chitarroni. Senza mai tradire la sua fede ne’ tantomeno il suo pubblico.

Ad un margine di rinnovamento pari allo zero e ad un immaginario col quale risulta difficile identificarsi (marinai, emarginati sociali, emigranti) corrisponde un’adesione totale ad un modello, quello dello street-punk in salsa celtica, inoppugnabile.

Dunque ancora una volta, se avete comprato un disco dei Dropkick Murphys tornerete a casa con un bel lotto di canzoni da cantare a squarciagola (Blood, I Had a Hat, First Class Loser, Kicked to the Curb ma anche l’inaspettato finale di Until the Next Time che sposta l’ago verso il british-pop dei Madness quelle più adatte all’uopo). Perché era l’unica cosa di cui avevate bisogno, dopo una giornata di lavoro e una serata con amici che non hanno più nulla da raccontarvi.   

Siatene fieri.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

FILTHY THIEVING BASTARDS – Our Fathers Sent Us (TKO)  

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Non l’avrebbero più fatto un disco così, Koski e Bonnel. Neppure con gli Swingin’ Utters, che di questa accolita di bastardi erano il gruppo madre. I padri invece erano quelli mostrati in copertina su questo mini album: Shane MacGowan, Elvis Costello, Billy Bragg, John Lydon, Chuck Berry, Joe Strummer e tutti gli altri.

Un piccolo campionario di bottiglie vuote frugate dalla cantina dei Pogues dentro cui, soffiando, puoi sentirti in Irlanda anche se vivi a Boston.

Canzoni che a cantarle ti viene fuori una smorfia, un ghigno da mascalzone. E non te ne accorgi neppure. E pensi che la tua chitarra ammazzi i fascisti, quando invece i fascisti sono tutti fuori tiro, a fare i cattivi al concerto degli Impaled Nazarene.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

FILTHYTHIEVINGOURFATHERS