XTC – Go 2 (Virgin)  

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È probabilmente la follia alla Devo di Meccanik Dancing che apre il secondo album degli XTC a far innamorare perdutamente Brian Eno della formazione di Andy Partridge e Colin Moulding. Un corteggiamento a tutti gli effetti contraccambiato, celebrato proprio qui dentro nel bellissimo tormento (e unica genialata del disco, a dirla tutta) di Battery Brides (Andy Paints Brian) e con la scelta di Eno come candidato alla produzione. Opzione poi declinata in realtà dallo stesso musicista, salvo aver rivelato a posteriori che quella degli XTC era l’unica formazione di cui avesse mai voluto fare parte.

Bizzarrie da musicisti bizzarri. Gli uni e gli altri, ovviamente.

Go 2 è, in questo, degno seguito del debutto di pochi mesi prima, coi suoi ritmi in levare che sembrano fare il verso alla 2-tone e allo skattante pub-rock di Costello e che sembrano dirti che ogni giorno è buono per morire, purché non sia quello in cui stai ascoltando un disco degli XTC. L’effetto immediato è in realtà quello che la formazione del South West sia solo un branco di scimmiette intente a farsi beffe di tutti, loro compresi e che se il corso degli eventi li avesse cancellati alla fine di quell’anno, di loro sarebbe rimasta solo l’impronta dell’ennesima sventurata band new-wave sepolta dalla storia. Così non è stato, per destino, fato o intervento divino che sia. E gli XTC sarebbero diventati una delle pietre angolari di tutta la musica inglese a venire.  

     

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

THE DEAD 60s – The Dead 60s (Deltasonic)  

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C’erano le sirene e gli dei Clash e le chitarre skankin’ dei Beat, dentro il disco di debutto dei Dead 60s, che degli uni e degli altri potevano essere quasi nipoti e che invece furono dichiarati figli. In realtà i Dead 60s suonavano più come un incrocio tra i Franz Ferdinand e i Bad Manners, con in più qualche flashback che ci riporta alle prime imprese della Joe Jackson Band.

Che non è di per sè male, attenzione. Solo, è un’altra cosa. Che ciondola. E come tutte le cose che ciondolano, non è sempre indice di buona salute.

Lo scontro avviene insomma su un terreno di gioco non distante da quello dominato dagli Hard-Fi che però hanno canzoni migliori e mostrano meno la fontina.

Un disco destinato a scaldare un paio d’estati. Forse addirittura una soltanto. Poi di loro, nonostante qualcuno sia finito direttamente tra le fila degli Specials, nessuno serberà memoria.  

 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

BAZOOKA – Zero Hits (Inner Ear) 

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I Bazooka mettono un po’ d’ordine in garage. Zero Hits mostra una band determinata ad affrancarsi dal classico garage in bassa fedeltà degli esordi e decisa allo stesso tempo a rivendicare l’orgoglio delle proprie origini. La lingua greca è infatti diventata di assoluto predominio dentro una musica che ha ormai allargato il proprio raggio d’azione esondando verso un punk insieme epidemico e concettuale con un innesto fiatistico (Void, Prison, Night Shift) che non mi stupirebbe se riuscisse a far breccia nel cuore di chi segue la scena ska-punk.

Ma il meglio il gruppo di Atene ce lo riserva nella seconda metà dell’album, quando sembra girare come uno sciame di mosche attorno al corpo in preda alle convulsioni di certo post-punk di scuola Swell Maps/Undertones (ma anche Orange Juice, Woodentops e That Petrol Emotion) che si agita nervoso e pronto allo scatto epilettico nella zona pelvica del disco: In the City, Something I Have Betrayed, Soultana, I Break Everything, Indifferent Glances.

I Bazooka continuano a sparare. Stavolta con una mira più precisa del previsto.

                                                                                                         

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RANCID – …and Out Come the Wolves (Epitaph)

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Nel 1994 il contenitore punk incontra il gusto del pubblico alternativo e si impone come genere di successo. Dapprima è Dookie dei Green Day, poi Smash degli Offspring quindi Punk in Drublic dei NOFX e Stranger Than Fiction dei Bad Religion a conquistare le masse facendo scendere gli eroi del grunge dal podio e insediandosi al loro posto.

…and Out Come the Wolves, terzo album dei californiani Rancid, arriva un po’ più tardi, nell’estate del 1995 ed impone definitivamente la Epitaph come l’etichetta più figa del momento sancendo il momento d’oro del punk-rock. Rispetto agli altri “eroi” della nuova onda i Rancid sembrano i più vicini ad un concetto e ad una iconografia punk old-style. Dalla copertina che è un omaggio “crestato” ai Minor Threat al suono devoto a quello degli amatissimi Clash e, al pari di quello e della band da cui hanno preso origine (gli Operation Ivy del chitarrista Tim Armstrong e del bassista Matt Freeman), fortemente influenzato dallo ska e dal reggae giamaicani. Dei quaranta pezzi che i Rancid portano in studio, diciannove finiscono dentro …and Out Come the Wolves che riecheggia di accordi rubati a Clash City Rockers e Career Opportunities, agli Stiff Little Fingers e alla vecchia scuola punk/Oi! inglese fatte salve le pause skankin’ di Time Bomb, Daly City Train e Old Friend.

Puro revival, ma con la giusta dose di rabbia e l’abilità non comune di saper scrivere degli anthem immediati.

Chi si è fermato a questo, vedendo nei Rancid l’ennesimo furbo tentativo di plagio, buca clamorosamente l’appuntamento con uno dei migliori dischi punk del decennio e con una scaletta che non ha neppure un gradino traballante.

I Clash non torneranno. Ed è meglio così.

Ora smettetela di rodervi il fegato e tornate a divertirvi.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro  

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