AA. VV. – Sub Pop 100 (Sub Pop)

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A fare davvero la storia sarà, due anni dopo, Sub Pop 200, ma questo fu l’inizio di tutto. Talmente inizio che non ne trovate menzione neppure sul sito dell’etichetta, dove fra l’altro la nascita della label è attestata addirittura nel 1988.

Siamo qui invece nel 1986, a Seattle, e Bruce Pavitt è ancora un venticinquenne in fissa col “pop sotterraneo” che si muove come una tenia sotto la crosta dura dell’America. Con quel nome ha già messo in piedi una fanzine e ora, facendo tesoro del materiale che gli arriva un po’ da mezzo continente, vuole stampare qualche disco. Senza grosse pretese, generando suo malgrado l’ultimo grande fenomeno di costume del XX secolo. Una rivoluzione che in qualche modo è già in nuce in questa mezz’oretta di musica che vede allineata una dozzina di band che saranno fra gli ispiratori del primo grunge, Wipers, Scratch Acid, Sonic Youth, U-Men in primis. E poi un tot di mentori del “fastidio”, dagli Skinny Puppy ai Boy Dirt Car, dai Lupe Diaz ai Savage Republic fino agli sperimentalismi di Steve Fisk che da lì a breve diventerà uno dei produttori di fiducia dell’etichetta mettendo le mani sui primi singoli di Soundgarden, Walkabouts, Screaming Trees, Beat Happening, Helios Creed. Il mondo non è ancora pronto, ma Bruce Pavitt sta preparando la sua rivoluzione.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LAURIE ANDERSON – Home of the Brave (Warner Bros.)

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Durata esigua (35 minuti scarsi) rispetto all’ora e mezza della pièce artistica che Laurie Anderson presenta nell’estate del 1985 sul palco del Park Theater di New York e, ovviamente, tutto l’apparato multimediale ridotto ad un semplice prodotto audio. Ma, al di là di questo, Home of the Brave si impone già dalla sua uscita come l’apice della carriera di Laurie Anderson, un concentrato di musiche modernissime, figlie della robotica, dell’elettronica applicata, degli studi sulla deformazione vocale ma che conservano come uno scrigno tutta la creatività musicale e performativa che è bagaglio umano, capacità immanente di dialogare con la cultura collettiva e riprodurne i significati soggettivandone la forma espressiva.

Figlio diretto e dichiarato della “rivoluzione elettronica” propagandata da William S. Burroughs su The Ticket That Exploded Home of the Brave registra l’ennesimo, riuscito tentativo della Anderson di invadere l’intero spettro delle performance artistiche e dei supporti audio-visivi disponibili, di esporre la sua musica davanti a nuove sfide e a confronti serrati con l’audience, creando una musica concettuale capace di scendere a compromesso col paradigma dell’intrattenimento meno becero. Frac, tute d’amianto e maschere tribali sfilano esibendo il guardaroba possibile per incamminarci fra i mille percorsi praticabili che Laurie ci indica. Fuori e dentro di noi.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WORKDOGS – In Hell (Sympathy for the Record Industry)

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All’inferno con altri dannati, lasciando la porta socchiusa in modo che chiunque voglia possa entrare a raccontare la sua perversione, come una seduta psicoterapeutica di gruppo. Laddove psicoterapia fa rima con psicopatia.

Quella dei Workdogs è la versione perversa e post-industriale del talking blues e In Hell uno dei dischi collettivi più sgangherati di sempre. Priva di forma e di bordi, la musica dei Workdogs e dei loro ospiti (fra cui Jad Fair, Moe Tucker, Jeff Evans, Bob Bert, Lydia Lunch, Foetus) tracima dappertutto, in un workshop creativo di destrutturazione armonica in cui strumenti reali, suoni concreti, feedback, modulazioni di frequenza ed altri elementi di disturbo si alternano o si sovrappongono creando grumi e canali di scolo per le confessioni proibite dei protagonisti in un concept sul vizio che unisce trasversalmente la New York di Lou Reed a quella della no-wave e di Jon Spencer, la musica improvvisata e le favole dell’orco cattivo.     

    

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PSYCHIC TV – Dreams Less Sweet (Some Bizarre)

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Charles Manson e Babbo Natale nello stesso disco, attorniati da cani che latrano, uccelli cinguettanti, campane tibetane, clacson, mitragliatori, aghi da tatuatori, badili da becchini, telefoni che squillano, cori polifonici, xilofoni, oboi, oggetti che si rigano, si spaccano, si frantumano, piedi che strisciano, orchi che russano e mentre russano sognano e fanno sogni da orchi. Rumori e suoni catturati un po’ ovunque, isolati e poi “proiettati” attraverso la macchina sonora olofonica ideata da Hugo Zuccarelli che permette di percepirne la presenza in maniera tridimensionale, tattile.

Quello degli Psychic TV è il mondo degli angeli caduti e i loro dischi sono quelli dove l’innocenza viene perennemente tenuta sotto minaccia, ma non viene mai negata.

Anche la musica non scompare mai, non viene mai ingiurata ma anzi sublimata come quella dei musici dell’Alta Cappella medievale (chi altri potrebbe scrivere una cosa empirea e magniloquente come The Orchids, così stucchevole e romantica che alla fine merita di essere abbattuta da un mitra? NdLYS), ma nessun disco del gruppo è mai del tutto un disco “di musica”. Essa ne costituisce uno degli elementi ma è il valore esperienziale dei dischi degli PTV a costituire la chiave di lettura dell’intero lavoro, la necessità avvertita dal loro pubblico di sentirsi parte di quel processo, di recepirne la forza evocativa, le suggestioni, le allegorie estetiche, religiose, culturali, meta-linguistiche.

Fuori da ogni tempo e luogo, gli Psychic TV sono l’imbuto nero attraverso cui defluiscono amore e perversione, meraviglia ed orrore, paganesimo e misticismo, nascita e morte, un prato fiorito che circonda lapidi e sculture funebri. L’ultimo atto del Romanticismo occidentale.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro  

BLUE AEROPLANES – Bop Art (Abstract Sounds)

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Una sorta di officina sonora, quella dei Blue Aeroplanes, dove chiunque volesse poteva sperimentare con quel che trovava, attivando una sorta di economia circolare con i rottami di funk, post-punk, jazz, musica tradizionale e musica concreta. E concreta lo era veramente, la musica dell’ensemble di Bristol. Anzi, concretissima.

Bop Art è un coagulo di musica sperimentale sicuramente ispirata dal decostruttivismo radicale dei concittadini Pop Group e Rip Rig + Panic ma che incamera anche l’approccio moderno e suburbano al dub delle band On-U Sound (New Age Steppers, Dub Syndicate e African Head Charge in particolare) e l’eversiva forza meccanica della musica industriale cui fa da contrasto la ricerca percussiva di tipo tribale, in un incredibile caleidoscopico art-rock concettuale ma anche molto fisico, introducendo per primi quella figura del “festaiolo” danzante prima degli Happy Mondays e che negli anni prenderà sempre più la forma di una versione meno imbronciata dei Fall e che qui invece è ancora priva di argini e per questo, straboccante di idee che pochi riusciranno a raccogliere come avrebbero dovuto.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MARK STEWART + MAFFIA – Learning to Cope with Cowardice (On-U Sound)

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Dopo aver composto il miscuglio tra funk e post-punk del Pop Group, Mark Stewart scoprì grazie ai Maffia che poteva decomporlo secondo le primitive tecniche del dub e dell’hip-hop disgregandone l’amalgama fino a staccarlo dalla lastra di vinile (Blessed Are Those Who Struggle), provando a tirarlo via come fosse un adesivo, lasciando intere ecchimosi dove puoi sentire solo i solchi sfregare sulla testina, mentre la musica è già andata altrove.

Tutto è ridotto a brandelli. A polvere. Un’urna funeraria dove Mark Stewart raccoglie le ceneri della sua giovinezza e le disperde nelle acque piene di rame dei bacini himalayani.

Il tocco dei Maffia e di Adrian Sherwood diventa pregnante in pezzi come Don’t Ever Lay Down Your Arms (innestata sulla version di Lay Down Your Arms di Wes Brooks) e Jerusalem (cover alterata della corale di Hubert Parry già rifatta dagli Emerson, Lake & Palmer e inserita nella Fool’s Overture dei Supertramp), trasportando Mark Stewart in quei mari dei Caraibi che da sempre aveva sognato di solcare e in cui adesso affonda il suo vascello arrugginito.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE TELESCOPES – Experimental Health (Weisskalt)

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Realizzato con sintetizzatori tascabili a batteria e altri poverissimi gingilli da provetti nerd Experimental Health è il nuovo tassello dell’infinita avventura dei Telescopes, una sorta di adattamento “ecologista” dello shoegaze, prodotto a costi irrisori e senza l’ausilio di chitarre, totalmente recise dal loro habitat sonoro.

Il suono è spesso simile a quello di enormi insetti volanti ma, a ben sentire, il mood di pezzi narcolettici come When I Hear the Sound, 45e o Leave Nobody Behind non è molto dissimile da quello dei Telescopes degli esordi, appena appena arrugginita dalla pioggia raccolta in questi anni, fino a depositarsi come cancro arancione sulle lancette dell’orologio di quel valzer sulle stampelle che è The Turns.

Experimental Health ha la forma cava di un rifugio.

Venite a staccare la spina dal resto del mondo, se è quello che come me desiderate.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro 

THIS HEAT – Deceit (Rough Trade)  

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Un viaggio salgariano post-moderno, quello dei This Heat. Che trova approdo senza entrare in nessun porto, gettando l’ancora a casaccio in un punto indefinito dell’oceano con Deceit, capolavoro dada di raggelante world music di un qualche continente sconosciuto, appena appena più accogliente dell’omonimo debutto. Fra le spine spunta qualche accenno melodico che resta tuttavia inafferrabile, diafano, obliquo, dissonante come tutto il resto. Quello di Cenotaph, Paper Hats, Shrinkwrap, Makeshift Swahili è un canto sciamanico, più che musicale in senso occidentale. La musica dei This Heat diventa in qualche modo una stampa in negativo del jazz alato di Robert Wyatt, la sua proiezione infernale. Spostandosi in balia delle onde che loro stessi creano, i This Heat vanno alla deriva in un pianeta che pullula di vita amorfa e procariota, dominando le acque.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

RADIOHEAD – Amnesiac (Parlophone)

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Un rumore di pentolame ci introduce ad Amnesiac, il disco che ci conferma che il Ragazzino A è cresciuto e ha messo il primo dentino. Soffre di claustrofobia e di osteogenesi imperfetta ma è comunque in grado di camminare, nonostante le sue ossa di vetro e il suo sguardo sghembo.

È, anche, un bambino prodigio.

A soli otto mesi sa giocare a Tetris fino al livello 10 e risolvere il cubo di Rubik. Sa infilare la testa nella boccia dei pesci rossi e stare lì in apnea per più di quaranta minuti. Ingerisce liofilizzati mischiati a scaglie di vetro e ha più fame d’amore che di proteine. Per questo disegna piccoli diavoli che piangono. Gioca con oggetti appuntiti. Lame di coltelli, scaglie di porcellana, latte arrugginite, rasoi, punte di forbici, schegge di legno.   

A volte anche con le punte delle stelle.

Di notte, se ti appoggi con l’orecchio all’uscio della sua camera, puoi sentire un fruscio d’ali. Come se provasse a volare. E magari vola veramente.

Sembra precipitato dall’asteroide B-612, quel posto magico da cui puoi vedere il tramonto quarantatre volte nello stesso giorno.

Come il suo protagonista, Amnesiac è disco altrettanto prodigioso, un palazzo della musica progettato da Renzo Piano dove l’ordinario precipita dentro un imbuto di vetro e lega di zirconio, una moderna architettura gotica dove sotto ogni guglia si apre un abisso. Zoom in avanti-carrellata indietro, come un vertigo hitchcockiano.  

Dentro le sue mura di cristallo, un minotauro cerca la strada per uscire da quel dedalo di corridoi concentrici. E piange, mentre fuori precipitano le stelle.       

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

OSꙄI – Osꙅi (Snowdonia)

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Quando Vittorio Nistri mi ha scritto per presentarmi il progetto Osꙅi, il suo nome non mi è suonato del tutto nuovo. Poi a disco arrivato leggo nel comunicato che lo accompagna che aveva fatto parte dei Deadburger. E io i Deadburger li avevo tenuti a battesimo in radio, due decenni e mezzo fa. Erano altri tempi, quando le piccole case discografiche investivano ancora qualche spicciolo in promozione e l’allora neonata Fridge si spingeva fin sulle coste che si affacciano all’Africa per sostenere i propri artisti. Oggi viaggia invece tutto sulla Rete, anche l’arte. Anche il coraggio. Il disco degli Osꙅi però, per mia fortuna, è arrivato mantenendo tutto quel contenuto di calcio che ostenta sin dal nome e si è posizionato, con tutta la sua cartilaginea fisicità sul piatto. Dell’esperienza Deadburger è rimasta appunto quella: l’esperienza. Adesso messa al servizio di un mash-up surreale dove loop, campionamenti, pezzi di vita reale ed elettronica si innestano fra le maglie di un suono fatto di fosco garage-rock e folk fatto con quelle macchine che una volta ammazzavano i fascisti e che invece sempre più spesso stanno appese al chiodo, in attesa che riappaia il lupo e che, soprattutto, lo si sappia riconoscere.  

Osꙅi è una sorta di sviluppo sonoro dell’urbanismo unitario, l’ambiente spaziale del situazionismo storico che qui diventa un intricato calembour per i flâneur del post-pandemia. Un disco volante, una flying teapot come quelle dei Gong che parcheggia nei posti per disabili dell’Ikea mentre tutto il mondo sta per franare. Sbagliando dunque tempo e luogo, ma portandoci in dono la sua vista prismatica che sembra un occhio massonico con le cataratte.

Impreziosito dai disegni di Andrea Pazienza, Lido Contemori, Gabriele Menconi e Ugo Delucchi (il che vi obbligherà a comprarlo e non a genuflettervi davanti alle prodezze della banda larga, NdLYS) oltre che dalle collaborazioni di Dome La Muerte, Bruno Dorella e Andrea Appino (“camuffati” quel tanto che basta perché non li riconosciate), il debutto degli Osꙅi sfida le convenzioni e salta gli steccati, reinventa la cultura freak riadattandola ai nostri giorni, cacciando via i nuovi demoni come la Edgar Broughton Band fece coi vecchi e come i Fugs avevano tentato di esorcizzare quelli che infestavano il Pentagono.

Alla ricerca di spiriti affini. Ove mai ce ne siano.                         

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro