AA. VV. – Mondo Zombie Boogaloo (Yep Roc)  

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Ricordate la bellissima copertina di Bad Music for Bad People, la raccolta che fece conoscere a migliaia di persone, me compreso, i Cramps?

Bene, Steve Blickenstaff, autore di quel disegno (ma pure di quello altrettanto memorabile di In the Spanish Cave dei Thin White Rope, rimette la mano sul foglio per disegnare la cover di questa bellissima raccolta che vede in azione tre fra le migliori band del catalogo Yep Roc alle prese con un repertorio tipicamente trash/horror tra i migliori che io abbia mai ascoltato in un tema ormai super-inflazionato come questo.

Brani scritti e ri-scritti per l’occasione (tra cui una gagliarda versione di Ghostbusters! tutta piena di molle arrugginite), giusto in tempo per celebrare la festa di Halloween del 2013 presentando in tour queste quindici canzoni, abbigliati da mostri e vampiri.

Quindici canzoni bellissime e cenciose adatte anche al vostro, di Halloween. E non solo quello del 2013.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

PAOLO CONTE – Appunti di viaggio (RCA)

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Appunti di viaggio è altro disco estremamente goloso della discografia di Paolo Conte, riassunto efficace e emozionalmente increspato di nostalgie e malinconie lontane adornate a festa dei temi cari all’autore di Asti: gli sportivi semidei che si muovono dentro un’Italia ancora invidiabile e favolosa, i safari appassionati e immaginari che Paolo Conte si trascina dai tempi degli Oleandri e dei Baobab piantati in giardino e che non sono altro che perlustrazioni della propria anima.

Paolo Conte dimostra di essere il vero, unico Corto Maltese della musica italiana. Le sue canzoni, sono “strisce” facilmente assimilabili a quelle di Hugo Pratt. Viaggi tropicali ricchi di incontri in cui l’unica compagna fedele resta la propria solitudine (“se nel mio passo hai avvertito un’inquietudine e un grande inchino è perché ero vicino a una città lontana tutta di madreperla, argento, vento, ferro e  fuoco ma non trovavo qui nessuno per parlarne un poco”), le sole alleate la memoria, la saggezza personali.

Appunti di viaggio non ha zavorre, è un disco bellissimo, inquieto, affascinante, elegiaco che si muove nello spazio e nel tempo come la nave degli argonauti. Ogni canzone ha una sua sfera di perfezione che la rende invulnerabile, piccoli mausolei d’arte galleggianti arrangiati con gusto sopraffino, arredati con metodo e gusto caraibico, profumati da essenze da compagnia delle indie. La macchina a pressione lavora a regime perfetto, regalando stantuffate come Diavolo rosso, Dancing e Lo zio e scivolando sull’oceano lasciandoci in balia della salsedine come Nord, Hemingway, Gioco d’azzardo.

Schiumosa di ruggine e sale la piattaforma di Appunti di viaggio lascia che un uomo in frac improvvisatosi capitano ci trascini alla deriva di “una sorte bizzarra e cattiva” a cercare la felicità che come lui non riusciamo a trovare altrove.      

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

WOLFMANHATTAN PROJECT – Summer Forever and Ever (In the Red)

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Canicola e umidità.

Odore di sangue marcio in strada.

E i lupi di Manhattan scendono di nuovo in città.

Summer Forever and Ever è swamp blues sfuggente e urbano, alienato come un contadino della provincia catapultato nell’inferno metropolitano.

I Wolfmanhattan Project hanno introiettato decine di influenze diverse che vanno dal garage rock ai Sonic Youth (con Countdown Love che praticamente è una sincrasi di entrambi), dal jungle-beat del Dio Diddley fino allo svitato art-rock di Dave-id Busaras e le riflettono su uno specchio convesso che ne distorce il raggio, assorbe un ampio spettro di frequenze e ne rimanda quelle che più gli aggradano. E che a volte sono quelle che aggradano pure a me. Ma molte altre volte sembra piacciano solo a loro. 

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

FÀSHIÖN MUSIC – Fàshiön Music (Easy Action)

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Chitarra/basso/batteria. Come i Police che, tenuto conto che anche questo terzetto di Birmingham subiva come loro il fascino dei ritmi in levare del reggae, se li portano in tour negli Stati Uniti dove fra l’altro li presentano a Miles Copeland, il fratello di Stewart, che acquisisce i diritti per la stampa del loro album per il mercato americano. I Fàshiön Music però si muovevano dentro un mondo più fosco, più opprimente. La loro musica sembrava come avvolta da uno spesso strato di cellophane e le brevi linee di synth che Luke “Skyskaper” e John Mulligan alternavano alle loro linee di chitarra e di basso le conferivano un aspetto artefatto da psicodramma post-moderno.

Fàshiön Music indaga sui primi anni del gruppo, quelli con Luke alla voce e in cui aprono, oltre che per i Police, per John Cooper Clarke, per i Cramps, per gli Alternative TV, per Patti Smith, per gli U2, per Billy Idol, per Toyah, per i B-52’s e per gli UB40 e nei quali danno una mano ai Duran Duran a lasciare il reparto ostetricia e occupare quello di neonatologia. Raccoglie i quattro singoli del periodo, moltissime demo (e, nella versione compact disc uno show registrato alla base RAF di Brize Norton) più le memorie di Luke Sky.

Dei tre singoli, il migliore resta quello pubblicato per la I.R.S. di Copeland con le chitarre scarificate di The Innocent e Sodium Pentathol Negative e il reggae di Red Green and Gold con la sua bella linea di armonica che fa capolino all’orizzonte come un riflesso Wall of Voodoo e le sue chitarre skank che giocano con la linea decisa e rotonda del basso. Le demo dell’80 e quelle del ’78 sono quelle pubblicate privatamente e solo in digitale da Luke Skyscraper rispettivamente col titolo di T​é​rmin​à​te e di Föundàtion un paio di anni fa e sono caratterizzate dal morboso e lungo brivido noir sintetico di Fiction Factory le prime e dalla febbricitante I Don’t Take Drugs, I Don’t Tell, piccolo capolavoro art-punk che sembra l’anello mancante fra i Buzzocks e i Magazine le altre.

Come per le demo, anche le dieci tracce registrate live nel ’79 sono quelle pubblicate in formato liquido col titolo di F​á​shi​ö​n music LIVE 1979 e che qui diventano corpo solido, pur con i limiti tecnici e vocali mostrati sul palco.

Magari non il “prodotto perfetto” che loro stessi proclamavano di aver confezionato, ma i Fàshiön Music meritavano di essere riscoperti, qui nella nostra epoca delle vacche magre.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TALK TALK – Laughing Stock (Verve)  

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L’uscita di scena dei Talk Talk coincide con la pubblicazione del loro capolavoro assoluto, perfetto compimento della musica free-form di Spirit of Edene da quello distante tre anni esatti (entrambi i dischi vengono pubblicati il 16 settembre). Affrancata da ogni gabbia stilistica, da ogni dottrina la musica del duo (adesso orfano del bassista Paul Webb) si spiega libera, immensa, con ali maestose. Laughing Stock viene registrato fuori dal tempo e dallo spazio, secondo precise direttive impartite da Mark Hollis che sigilla ogni finestra dello studio e rimuove ogni orologio dalle pareti. Ogni strumento viene microfonato ad una distanza in grado di percepire ogni piccolo rumore, ogni piccola sfumatura ma di mandarla in bobina con un leggerissimo, atmosferico ritardo.

Sono canzoni che avanzano per suggestioni, per percezioni sensoriali, dilatandosi come vapore che si disperde nell’aria e che all’improvviso sceglie di abbattersi in piccoli temporali inaspettati (Ascension Day, la batteria atmosferica di After the Flood) che ti obbligano a tirar dentro il bucato mentre infradiciano i vestiti che hai addosso. Canzoni che sono posti imprecisati, nuvole di passaggio, memorie che riaffiorano e vengono spinte dalle onde, passanti senza volto avvolti nei pastrani che hanno addosso tutte le morbide cicatrici d’autunno, tutta la sferzante forza degli inverni.

Laughing Stock è la bellezza contemplata, la placida beatitudine del riposo, il ritemprante abbraccio del giaciglio, il mistero soave delle cose informi a cui diamo le forme che vogliamo, come a perfezionare l’atto della Creazione modellando ogni cosa alla sagoma della nostra felicità, perché la si possa riconoscere sotto la tormenta.             

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE CHAMELEONS – What Does Anything Mean? Basically (Statik)

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Il tentativo di emanciparsi stilisticamente dai Joy Division costringe i Chameleons ad esagerare con il delay e più in generale con l’effettistica, tanto che gran parte del loro secondo album sembra quasi “galleggiare” su questo strato di chitarre, quando non annegare del tutto. Una presenza invasiva, quella delle chitarre effettate, che tuttavia è sempre meglio del preludio osceno di Silence Sea and Sky affidato per intero ad un giro di synth totalmente slegato dal resto dell’album (anche se il suono di un sintetizzatore affiora di tanto in tanto, come su Home Is Where the Heart Is)

I Chameleons si affidano dunque alle acque, come la mamma di Mosè, per salvare le loro creature. Sperando in un porto sicuro o una mano benevola che ne raccolga i corpicini e li alzi al cielo, separandoli dal resto dei detriti new-wave.

Il paradossale risultato è che il pezzo migliore dell’album, (i primi tre minuti di) Looking Inwardly, è invece quello che può contare sul riff più consistente e che su quello disegna uno dei migliori brani post-Joy Division della new wave inglese. Il “progetto” dream-pop tentato col resto dell’album è, invece, un parziale fallimento, un nebbioso tentativo di costruire una sorta di psichedelia neo-esistenzialista parallela a quella delle band retro-rock partendo dalle ceneri del gothic rock anziché dalle polveri lievitanti degli anni Sessanta che costringe la formazione, suo malgrado, ad essere relegata al ruolo di Sound di serie B.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STRENGSBREW – Too Far North! (Chaputa!)

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Mantenendo tutte le promesse e solo parzialmente le premesse, giunge finalmente a maturazione il progetto Strengsbrew, il mostro a quattro teste che vede in azione Keith Streng, Måns Månsson, Robert Eriksson e Jim Heneghan e che con Too Far North! ci regala un buon disco di rock and roll, seppur non privo di difetti.

Quando la band svedese guida attivando la funzione smart (Full Bitch, Sweet Stone Rock) quella che abbiamo di fronte è una versione potenziata dei Fleshtones, se volete. Con addosso ancora le toghe alla Animal House, lacerate però da qualche unghiata alla Cream (Catnip, le chitarre che invadono tutto l’invaso di Pol-i-ticks) e da qualche zampata che ricorda i Deep Purple del ‘68 (Hold On, Way Over) che costringe la vettura a qualche consapevole azzardo.

Manovre cui la band non si sottrae e che anzi sembra assecondare con diletto, anche a scapito dell’immediatezza pur non pregiudicando il risultato finale che rimane quello di un buon disco ma che le premesse ci facevano sperare devastante.

E invece, la devastazione non c’è.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

HENRY ROLLINS – Hot Animal Machine (Texas Hotel)

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Il tono perentorio con cui apre Black and White, in anticipo di un nanosecondo su tutto il resto del gruppo, ci mette subito in allerta: Henry Rollins è tornato ed è una belva affamata. L’altro animale si chiama Chris Haskett, classe 1962, appena tornato nella sua Washington dopo cinque anni di permanenza a Leeds.

É lui a convincere l’amico Henry a rifondare una band, anzi due.

Chris ha, oltre ad una multiforme capacità di adattamento (che lo porterà ad esempio a collaborare assiduamente con Steven Brown dei Tuxedomoon, NdLYS), uno stile particolare, angolare, geometrico, che deve più ai chitarristi ingegnosi del post-punk (Keith Levene, Rowland S. Howard, Andy Gill) che a quelli belligeranti ma tutto sommato banali del punk, assecondando anche quella propensione per i brani “narrati” che sembra interessare Henry Rollins in maniera pressante e che qui si manifesta in particolare su Hot Animal 2, Man and a Woman e nella sequenza cinematografica senza immagini di No One.

Il suono di Hot Animal Machine è un fagocitante e maschissimo power-rock dalla pelle bronzea e legnosa come quella di un vecchio marinaio con le sue mille storie da raccontare, mentre il fragore delle onde lo costringe ad alzare la voce.     

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

GILLA BAND – Most Normal (Rough Trade)

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Per il suo terzo album la band irlandese cambia nome ma non l’approccio disturbante a cavallo tra industrial, noise e gli immancabili Fall che anzi mettono in mostra sin da subito, alzando la saracinesca su un’officina di rumori praticamente insostenibile, quasi a voler fare una prima scrematura tra chi è referenziato per potersi inoltrare e chi invece sarà costretto a restare sull’uscio, facendo finta di essere finito lì per caso mentre portava il cane a pisciare.   

Quella della Gilla Band resta una musica disturbante, eccessiva, molto spesso priva di coordinate musicali vere e proprie e simile ad una radio ad onde corte che capta segnali indecifrati dall’etere post-industriale, rumori spuri, dissonanze, notiziari, brandelli di conversazioni e di talk-show politici, lembi di pelle squamata caduta sotto le brande d’obitorio su cui sono stesi i corpi di Whitehouse, Jesus Lizard, Radiohead, Scorn, Strokes, Fall, Membranes, Glaxo Babies.

Un mondo che si sfalda e soffoca nelle sue macerie, quello della Gilla Band. Come il nostro. Per quello ci fa così tanta paura.        

         

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WIPERS – Follow Blind (Restless)

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Le chitarre dei Wipers tornano grumose e lo stile più omogeneo su Follow Blind, il secondo disco su Restless pubblicato a poca distanza da Land of the Lost e che vede la band esibire quello stile ibrido e selvaggio da cespuglio incolto e quell’attitudine all’epica decadente che era stato il loro tratto iniziale e che adesso viene rivalutato dalle formazioni che si preparano a raccogliere, da quel cespuglio, i frutti del nascente grunge-rock. Quello di cui risulta carente è però la capacità di coagulare la formula intorno a canzoni memorabili. Ecco dunque che il disco funziona bene come “blocco”, come veduta d’insieme, come corpo unico e molto meno separando una o due canzoni dal suo contesto, fatta forse eccezione per la pigra e dolente canzone che apre e intitola l’intero album.

Cieco e accigliato, Greg Sage si muove circospetto nel mondo che lui stesso ha creato e che adesso si popola di mille creature dannate.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro