Robert Nesta Marley, Winston Hubert McIntosh (inteso Tosh), Neville Livingstone (inteso Wailer), i fratelli Aston (inteso Family Man) e Carlton Barrett.
Ma anche Clement Dodd (inteso Coxsone), Leslie Kong, Rainford Perry (inteso “Scratch” Lee) e Chris Blackwell.
Questi i nomi inevitabili della più appassionante e in larga parte conosciuta storia della musica giamaicana, ovvero quella di Bob Marley e dei suoi Wailers, coloro che passo dopo passo riuscirono a portare la musica reggae su un altro livello, facendo di una piccolissima striscia di terra (dieci volte più piccola di Cuba) circondata dall’oceano una delle più produttive ed influenti officine musicali del pianeta.
The Wailing Wailers, debutto su grande formato del 1965, è l’unico disco ska dei Wailers.
L’unico in cui le pulsioni pacifiste che Marley sentirà vibrare sempre più forte fanno ancora i conti con gli atteggiamenti non esattamente miti e bonari dei rude boys e la fiera indipendenza giamaicana finalmente conquistata fa invece i conti con la musica che arriva dalle stazioni radio americane, quando di notte le radio locali spengono i loro ripetitori e lasciano campo libero al jazz, al soul e alle ballate di gente come Bacharach e Gershwin.
E i giamaicani anziché il loro Sole nascente, guardano la stessa luna degli odiati yankees.
Siamo nel 1965, nell’ultima estate infuocata dallo ska, rimpiazzato l’anno successivo dai ritmi più morbidi del rocksteady. E Bob Marley sta piano piano diventando il leader naturale dei Wailers, mettendo fuorigioco Junior Braithwaite.
Marley, Tosh e Livingstone (i tre superstiti della band originale) sono ancora, fondamentalmente, un gruppo vocale. Il loro approccio agli strumenti è rude, essenziale, modesto. Per questo, ma non solo per questo, Clement Dodd affianca loro i Soul Brothers, la resident-band del suo Studio One appena tirata su.
Sir Coxsone è a casa sua e può far quello che gli pare. E anche se fosse a casa di altri, chi lo sa, probabilmente farebbe quel cazzo che gli pare lo stesso. Del resto maneggiare armi e microfoni per lui e per gli altri artisti giamaicani è la regola.
Non si va tanto per il sottile, in Giamaica. Neppure la musica ska è gentile, del resto.
Ha un suono di chitarre che ricorda quello di un arrugginito letto in ferro quando i loro occupanti non sono esattamente intenti a dormire. E il rullante di batteria tirato al massimo in modo che quando ci picchi nel modo corretto, somigli allo scoppio di un’arma da fuoco. Dietro l’eleganza ostentata dai suoi musicisti (compresi i Wailers, tanto che la silhouette di Tosh verrà “adottata” dalla 2Tone prima e da tutto il movimento poi come icona definitiva dello ska) si cela in realtà una raffinatezza da malaffare del tutto simile a quella dei gangster mafiosi, eletti ad idoli di una rivendicazione sociale ottenuta ad un prezzo altissimo.
Il debutto dei Wailers è il prodotto di tre ragazzini che guardano a questo immaginario e che producono musica per ballare e per rimorchiare ragazze, cantando d’amore o cercando di far da pacieri tra i rissosi amici del ghetto (come succede su Simmer Down, inaspettato numero uno nelle classifiche locali di quell’anno).
Per parlare di rivoluzione occorrerà aspettare un lustro buono.
E nel frattempo, quel ritmo scalcagnato da bettola si sarà trasformato, lentamente, nella sinuosa onda melliflua del reggae.
E i Wailers nel gruppo spalla di Bob Marley.
Prima di unirsi a Peter Tosh e Bunny Wailer, Bob Marley aveva in realtà già iniziato una promettente carriera solista. A scoprirne le doti di cantante era stato Jimmy Cliff, che lo aveva portato dritto fra le mani di Leslie Kong, uno dei tanti uomini-chiave della musica giamaicana (c’è lui dietro il successo di Toots & The Maytals e di molte produzioni Trojan). Dopo l’esperienza ska con Coxcone Dodd, i Wailers tornano alla corte di Kong per aiutarli nel passaggio necessario dai convulsi ritmi ska a quelli più attuali del rocksteady. Nel maggio del 1970, dentro i Dynamic Sound Studios i Wailers, con l’aiuto della Beverleys’ All-Stars al gran completo si apprestano a ridefinire dunque il proprio stile secondo le esigenze di mercato grazie al suono brillante di canzoni come Soul Shakedown Party, Soul Captives, Back Out o le bellissime Stop the Train e Soon Come di Peter Tosh che li impongono immediatamente come gli Impressions della Giamaica. Il successo locale è immediato ma Kong non potrà mai saperlo, morendo per arresto cardiaco pochissimi giorni dopo l’uscita di quello che verrà pubblicato come The Best of The Wailers.
L’ulteriore ridefinizione del suono dei Wailers nelle forme sinuose e calde che l’avrebbero reso famoso passa, oltre che per il percorso rasta intrapreso da Bob Marley, per le mani e le direttive di Lee Perry, il primo a capire che quelle nuove “vibrazioni” spirituali avevano bisogno di un’adeguata oscillazione musicale che non poteva essere quella dello ska e del rocksteady degli esordi. È un adeguamento, quello del progressivo rallentamento dei ritmi, che investe in realtà tutta l’isola e in cui Perry , assieme ad altri produttori come Bunny Lee, Clancy Eccles e Linford Anderson, gioca un ruolo centrale grazie soprattutto all’arruolamento della sezione ritmica dei fratelli Aston e Carlton Barrett. Le robuste linee di basso di Aston in particolare, in cui sincopi e pause acquistano lo stesso identico valore, sono l’elemento timbrico essenziale del nuovo suono dei Wailers, rappresentato su Soul Rebels. Tutto il resto, compresi gli upstrokes chitarristici che poi saranno individuati come caratteristica del genere, è poco più che una suppellettile, un semplice abbellimento che verrà esaltato solo successivamente, quando si tratterà di vendere la musica reggae al pubblico rock.
Canzoni come Soul Rebel, Corner Stone, No Sympathy e 400 Years, con quelle linee di basso che sembrano borbottare come risacche di schiuma salata sulle coste giamaicane, diventano l’archetipo del nuovo “portamento” della musica dell’isola, ridefinendo anche le inclinazioni e le armonizzazioni vocali che adesso si emancipano dalla tradizione doo wop per abbracciare in toto l’afflato e il call-and-response tipici della musica soul, diventandone in qualche modo l’erede naturale.
Dopo un primo tentennamento che lo aveva portato ad optare per i Soul Syndicate, per il secondo disco sotto la sua egida Lee Perry decide di affiancare ai Wailers nuovamente i “suoi” Upsetters realizzando Soul Revolution, di fatto un “doppione” di Soul Rebels. Siamo ancora dentro i territori di un reggae che sta cercando di trovare una sua identità stilistica muovendosi dentro le influenze del rocksteady, del mento, del calypso e di gruppi americani come gli Impressions, i Tams e i Moonglows. È una musica rurale, ancora piena di spigoli vivi e di call-and-response giocati sulle voci in falsetto anche se tra le pieghe di Fussin’ and Fighting c’è già tanto del Marley che verrà e il repertorio messo insieme sarà quello cui il cantante tornerà ad attingere quando si tratterà di allestire un disco che, nonostante il soggiorno forzato in Inghilterra, lo faccia “sentire a casa”: Sun Is Shining, Kaya, Satisfy My Soul finiranno tutte, vestite di abiti svolazzanti su Kaya, ma all’epoca di Burnin’ la band aveva ripreso già Put It On e Duppy Conqueror (la cui traccia-madre verrà riciclata da Perry per farne un singolo come Mr. Brown, incredibile prototipo di horror-reggae guidato da un Wurlizer maestoso suonato da Tosh, NdLYS) trafugandole proprio da qui.
Lee Perry approfitta dell’occasione per realizzare un album “gemello” (la “Part II della Part II”, visto che nella confusione discografica di quegli anni, entrambi i dischi uscirono alla fine con lo stesso titolo, NdLYS) contenenti le version (ovvero, semplificando, la traccia ritmica delle canzoni privata dall’apporto vocale che avrebbe permesso ai dj giamaicani di improvvisare sopra i soundsystem e, anche, di creare un numero pressochè infinito di brani con la stessa base) dei brani di Marley.
Peter Tosh stranamente contribuisce all’album solo come strumentista (l’armonica dell’esercizio strumentale Memphis chiaramente ispirato ai Booker T and The M.G.’s e il pianoforte su Riding High) e, ovviamente, come corista. Nient’altro. Stavolta, a differenza delle precedenti, non canta e non firma nessun pezzo. Chissà perché. Chissà perché non ha mai voluto dircelo.
Alle fine degli anni Sessanta Chris Blackwell, un giovane inglese di origini giamaicane, ottiene dalla madre il permesso di sfruttare una tenuta di proprietà di suo zio situata nel cuore di Kingston per utilizzarla come quartier generale giamaicano della sua Island Records. Al n. 56 di Hope Road Chris offre strumentazione e alloggio ad alcuni dei migliori musicisti locali. Quello stesso posto verrà venduto a Bob Marley nel 1975 per fondare la sua “impresa” musicale, la Tuff Gong. Tre anni prima, dopo aver tentato di agganciare Jimmy Cliff, Chris Blackwell aveva dato udienza a Bob e ai suoi amici musicisti Peter Tosh e Bunny Wailer, mollati in Inghilterra dal loro impresario senza biglietto per il rientro in patria.
Con l’anticipo del contratto firmato con la Island, i Wailers fanno ritorno in Giamaica per partire definitivamente alla conquista del mondo, grazie proprio alla spinta di Chris Blackwell, l’uomo che educò il pubblico bianco alla musica reggae pubblicando in pochi anni nomi come Third World, Aswad, Lee Perry, Steel Pulse, Toots & The Maytals, Burning Spear, Linton Kwesi Johnson, Black Uhuru, infettando l’Inghilterra e l’Europa coi ritmi in levare della sua “isola” del cuore. Il risultato, Catch a Fire, arriva nei negozi di dischi nell’aprile del ’73 in un’originale ma poco pratica copertina a forma di accendino. Che poi quella fiamma sprigionata dovesse servire, già dalla seconda tiratura, ad accendere il classico joint di erba che sarebbe rimasto associato all’immagine di Marley nei secoli dei secoli era una strategia di marketing altrettanto mirata e a suo modo lungimirante. Anche perché di tutti i messaggi di cui Marley si faceva portavoce, l’unico che veramente attecchirà a nord di Kingston sarebbe stato quello che legato all’uso della cannabis.
Delle rivendicazioni sociali, civili, religiose che ardono sotto quel fuoco, diciamocelo, al grande pubblico europeo interessava poco meno di niente. Piacevano però quei suoni dondolanti ed esotici, quei ritmi a singhiozzo, quegli stacchi irregolari di organo e di rullante. Assieme a Marley, Tosh e Wailer ci sono gli ex-Upsetters Carlton e Aston Barrett, sottratti a Lee Perry ed arruolati come sezione ritmica permanente. Il reggae esce dalla sua fase artigianale (lasciando le “officine” locali a piallare l’enorme quantità di master e di acetati per dare via alla rivoluzione dub) e diventa prodotto industriale.
Blackwell diventa il primo imprenditore dei ritmi in levare.
Il primo standard dei Wailers apre il sesto album del gruppo. Si intitola Get Up, Stand Up e, a formazione ormai disintegrata, verrà reincisa in proprio sia da Peter Tosh che da Bunny Wailer nei loro dischi solisti del ’77. È un pezzo dall’andamento svagato e ondeggiante con una linea di basso decisa e rotonda molto simile alla Slippin’ into Darkness registrata dai War due anni prima e che invita alla rivendicazione dei propri diritti sociali, tanto da venire adottata da Amnesty International come proprio inno e slogan ufficiale. Rispetto alla precedente produzione dei Wailers, Burnin’ ha un tono barricadero che serve da testa d’ariete per penetrare il mercato bianco, grazie a canzoni come quella d’apertura ma anche I Shot the Sheriff e Burnin’ and Lootin’ ma è anche il disco in cui la fede religiosa e la spiritualità sono chiamate a giocare un ruolo fondamentale (Pass It On, Hallelujah Time, Put It On, Rastaman Chant) nella crescita personale e collettiva, un valore da cui non si può prescindere. Quella di mitigare le istanze rivoluzionarie con una forte dose di mistica benevolenza è una scelta voluta, tanto che il gruppo va a recuperare canzoni vecchissime (Pass It On era stata addirittura scritta da Wailer prima della nascita ufficiale del gruppo, NdLYS) o canti tradizionali giamaicani. Una scelta consapevole e felice che legittima i Wailers e Marley come i portavoce delle istanze sociali della loro terra, custodi delle proprie radici e credibili ambasciatori del re Selassiè.
Il tour di supporto a Burnin’ è l’ultimo atto ufficiale del triumvirato Marley/Wailer/Tosh (un atto già monco, in realtà, con Bunny Wailer sostituito sul palco con Joe Higgs, NdLYS). ‘Natty Dread’ è dunque a tutti gli effetti il primo disco “solista” di Bob Marley, realizzato come tutti col preziosissimo contributo dei fratelli Aston e Carlton Barrett e con i nuovi ingressi del tastierista Jean Alain Roussel (suo l’Hammond famoso di No Woman No Cry) che finirà come tastierista aggiunto nei Police e del chitarrista Al Anderson, primo musicista non giamaicano ad essere reclutato nella band.
Ma le novità più importanti di ‘Natty Dread’ sono in realtà altre: la scelta in parte obbligata di sostituire il ruolo vocale lasciato vacante da Tosh e Wailer con delle voci femminili (tra cui quella della moglie) e il tentativo di sfruttare quel nuovo marchingegno elettronico che è la drum machine. Un approccio timido e neppure troppo felice nei risultati che però mostra l’esigenza di trovare nuove soluzioni ad un suono che Marley e Chris Blackwell vogliono riuscire a vendere ad ogni costo. Ma, nonostante questa fallita e per fortuna presto abbandonata tentazione, ‘Natty Dread’ è disco di una bellezza estrema, dove l’amore per il rastafaresimo e l’ancora vivida attitudine ribelle convivono in piena simbiosi (Natty Dread, Rebel Music, Revolution, So Jah Se, Them Belly Full, Talkin’ Blues), l’abbandono definitivo nel concetto dell’“I and I” della religione rasta come atto lirico di fede.
L’album contiene inoltre il primo set di canzoni che avrebbero costretto Rita Marley a comparire molti anni dopo in tribunale assieme, fra gli altri, agli avvocati della Island e della Tuff Gong per difendersi dalle accuse della Cayman Music di Danny Sims cui Marley in quel periodo era ancora legato da un contratto di edizioni musicali e che pur tuttavia il cantante giamaicano pensò bene di “raggirare” garantendo una pensione tranquilla alla moglie e all’amico Vincent Ford costretto ad una carrozzina da un diabete particolarmente affamato. A loro e ai musicisti della band Marley pensò di intestare 2/3 del set (sul disco successivo avrebbe loro affidato la paternità di tutta la scaletta, con la sola eccezione di Night Shift, NdLYS), riuscendo a procedimento giuridico concluso, a raggiungere il suo intento. Se non fosse riuscito a salvare le moltitudini con la spiritualità, avrebbe quantomeno riuscito a garantire economicamente il sostegno dei pochi.
Perché in fin dei conti nell’attesa di sapere se ti sarà destinato un pezzo di giardino nell’aldilà, puoi sempre comprare un bel pezzo di terra e fartelo qui, il tuo piccolo paradiso.
“Voglio che tutta la mia gente ci veda entrare nella Top 100” canta Marley su Roots, Rock Reggae. È la prima, l’unica, profezia del cantante giamaicano a tradursi in realtà. Roots, Rock, Reggae è il singolo con cui i Wailers finiscono finalmente nella classifica dei 100 singoli più venduti del 1976, destinato a far da traino per l’esplosione di Marley in tutto il continente americano con l’arrivo dell’album Rastaman Vibration, fiera e vibrante dichiarazione di amore alla propria terra e alla propria religione.
Stranamente è uno dei dischi più controversi e ombrosi di Marley. E non sto parlando dell’ombra delle palme caraibiche. Parlo di ombre interiori, di dubbi e avvilimento davanti alle condizioni del suo popolo, della fame di guerra che divora la sua isola e il mondo intero. Un clima che si ripercuote nelle atmosfere del disco, con le chitarre passate in retroguardia rispetto alle tastiere, quasi impassibili davanti alla crescente fame di distruzione e potere che sta dilaniando il mondo (un esempio memorabile è War, con la chitarra che si limita a ripetere lo stesso, automatico accordo lasciando ai fiati il compito di sottolineare i passaggi chiave del brano). L’amore è quasi del tutto assente come moto passionale e sopravvive solo come rifugio consolatorio. Inibito anch’esso dal dilagante vuoto che sembra aver preso possesso delle terre emerse e che si sente inadatto a colmare.
Il 1977 non era un anno qualunque.
Non per i rastafari, perlomeno.
Avevano appuntamento per le ore sette del 7 luglio di quell’anno. Il giorno in cui, secondo la profezia di Marcus Garvey, sarebbe arrivata l’Apocalisse e la caduta di Babilonia.
Alle otto di sera sarebbero rientrati a casa, un po’ delusi.
Non si accorsero che il 7 luglio del ’77 la sua Apocalisse l’aveva portata eccome, anche se non era quella tutta fulmini e distruzione che loro si aspettavano.
Bob Marley rientra un po’ più tardi, quella sera.
Torna dall’ambulatorio del suo medico di fiducia a Londra.
Gli è stato appena diagnosticato il melanoma all’alluce che lo condurrà lentamente alla morte.
In quel momento non ci fa caso nessun altro, se non lui.
Sa che l’Apocalisse è arrivata davvero, ma che sarà un affare tutto suo.
La sua fede religiosa gli impone di non sottoporsi all’amputazione che gli salverebbe la vita.
E Marley si affida alle onde del destino che se lo porteranno via quattro anni dopo.
Il resto del mondo è invece distratto da un’altra Apocalisse.
Culturale, musicale, estetica: quella del punk.
Una “scossa” avvertita ovunque, anche in Giamaica.
I Culture l’avrebbero celebrata in Two Sevens Clash e Marley su Punk Reggae Party, proprio in quel luglio del 1977. Facendo nomi e cognomi: Damned, Clash, Jam, Dr. Feelgood, Maytals. E, come in una profezia di morte, i Wailers. Ma non lui. The Wailers will be there, canta…
Per i primi quattro mesi di quello stesso anno invece Marley era stato impegnato a registrare Exodus.
Exodus: Esodo. Quello del suo popolo e quello personale che lo vede emigrare in Inghilterra dopo essere scampato all’attentato del dicembre dell’anno precedente che verrà raccontato in musica su Ambush in the Night e in ricordo del quale Marley si rifiuterà di farsi estrarre il proiettile che gli si conficcherà nel braccio sinistro.
Un disco dalla struttura bizzarra, Exodus.
Una prima facciata lenta, cadenzata, uniforme, impegnata e mistica, fino all’apoteosi della title track dove una guizzante chitarra ska ferma su un unico accordo in La minore guida le trombe che conducono il popolo di Jah nella sua fuga da Babilonia.
Il secondo lato smorza invece i toni drammatici e li stempera in un clima più disteso dove è l’amore, privato ed universale, a diventare il vero protagonista.
Jamming, Waiting in Vain, Three Little Birds, One Love vengono sputate fuori dalla Island come singoli, assieme ad Exodus e Marley viene ufficialmente decorato come rockstar universale, nello stesso anno in cui Presley lascia vacante il posto di Re del rock ‘n’ roll e il punk colora di violenza esasperata il mondo occidentale.
Blackwell, che appositamente per Bob aveva fondato la Tuff Gong usando lo stesso nomignolo che gli era stato affibbiato a Kingston, intuisce che Marley può diventare il volto mistico da contrapporre agli eccessi del rock ‘n’ roll.
L’eroe buono che guida una rivolta civile e sociale contrapposta a quella nichilista del punk bianco. Ed è quello che Marley diventa, a partire proprio da questo disco.
Sviscerato e studiato negli anni successivi su pellicole, libri, saggi, book fotografici (Exodus: Exile 77 di Richard Williams, The Book of Exodus di Vivien Goldman e Bob Marley – Exodus 77 di Anthony Wall quelli che vi consiglio, NdLYS) ed eletto allo scadere del secolo scorso miglior disco del XX Secolo dalla rivista Time (Rolling Stone gli riserverà invece solo un 168° posto preferendogli Catch a Fire, NdLYS), Exodus è un disco cardine della vicenda artistica di Marley, seppure non raggiunga la forza e la coesione del Survival che lo seguirà due anni dopo e che inasprisce il clima di tensione politica che Marley sente sempre più pressante.
Un’aria di svagata rilassatezza si respira su Kaya, forse di quanto più vicino alla “nostra” visione delle isole caraibiche fatte di spiagge assolate e odore d’erba, ebrezza euforica e torpore. È forse la stessa visione contagiosa ad assumere i tratti della nostalgia e a farsi spazio sotto la chioma di dreadlocks sempre più ricca di Marley, tanto da riprendere alcune canzoni del primissimo repertorio (naturalmente virate nei colori tenaci e fluttuanti del roots reggae e non più del bluebeat e dello ska dei primi anni) e decidere, appena dopo l’uscita dell’album, di fare rientro in patria. Kaya rappresenta una sorta di pausa spensierata e ritemprante fra due dischi “guerrieri” come Exodus e Survival. Canzoni come Is This Love, Satisfy My Soul, Kaya, Easy Skaking, Sun Is Shining e Crisis riescono a trasmettere un senso di placida comunione con la natura e con se stessi, forse banalizzando un po’ i temi della poetica marleyana e con qualche momento di stanca, soprattutto nelle ultime tracce del disco.
Con Kaya Marley ci regala insomma la Giamaica che il mondo chiede a gran voce, prima di tornare a sedersi sul suo trono di Kingston.
Forse il meno celebrato fra i dischi di Marley. Fra tutti, quello dall’approccio più militante. Quello senza donne che piangono, senza ganja in copertina, orfano dell’”everything’s gonna be alright”. Survival è, più ancora di Exodus, il definitivo canto di riconciliazione del popolo nero e dell’auspicata caduta di Babilonia proprio dopo averla fotografata dai finestrini di un pullman stracarico di gente.
Dentro Marley ci ha messo molte delle vibrazioni tirate fuori disfacendo i bagagli del suo viaggio nel grande continente africano.
Survival è il grande abbraccio alla culla del mondo, un’esortazione all’emancipazione delle popolazioni africane dalla schiavitù politica e culturale del mondo occidentale, in parte coronata dalla proclamazione di indipendenza dello Zimbabwe proclamata proprio a pochi mesi dalla bellissima omonima canzone che farà da colonna sonora all’evento.
Forse è dunque una scelta quella di dare alle stampe un disco dinamicamente “piatto” a livello musicale. Un ondeggiante tappeto reggae che sembra voler accompagnare il ritorno in patria dei battelli carichi di carne nera, offrendo loro un viaggio senza scossoni.
Ecco perché ancora oggi Survival è il disco di Marley meglio ricordato dai fratelli neri mentre noi non ne abbiamo mai imparato a memoria una sola canzone.
A provare a penetrare il mercato americano con la musica reggae aveva tentato fra il ’71 e il ’73 Cool Herc, giamaicano trapiantato nel Bronx e padre dell’hip-hop tutto che l’avrebbero eletto tale per la sua “messa a fuoco” dei breakbeat della musica funk e latinoamericana cui aveva dovuto ripiegare visto l’assoluto disinteresse della comunità newyorkese verso la musica della sua terra madre. Marley avrebbe conquistato l’America a poco a poco, passo dopo passo, linea di basso dopo linea di basso, accordo skankin’ dopo accordo skankin’. Ora, con quello che sarà destinato a diventare il suo testamento spirituale, Bob Marley aveva davvero conquistato tutto e tutti. Con il ritmo pulsante di Could You Be Loved, anche le piste delle discoteche erano pronte ad abbassare il ponte levatoio e stendere un tappeto di palme sotto ai piedi del profeta dell’amore rasta.
Uprising, ultimo atto di un Marley ormai ad un passo dalla morte, è il disco definitivo dell’artista giamaicano. E lo sarebbe stato con molta probabilità anche se non fosse stato l’ultimo in grado di registrare. Una mirabile summa della sua musica, del suo messaggio, della sua ambizione e dei suoi sogni destinati a rimanere tali. Non una sola canzone men che necessaria, nonostante le sue tante sfaccettature, con un conclusivo atto acustico, intimo e folk che ha davvero tutta l’aria di un atto di commiato definitivo ma ancora carico di speranza, di “good vibes”. Ogni canzone vibra di un amalgama unico, fiero, stiloso, drammatico ed accattivante assieme. Ogni canzone è rotonda e soda come le chiappe di una giovane donna dei caraibi che scende dalla spiaggia fin dentro le acque del mare delle Antille ma allo stesso tempo l’intreccio degli effetti applicati alle chitarre e l’utilizzo massiccio del Clavinet conferiscono a molte tracce quel suono “ferroso” che riesce ad imprigionare l’ascoltatore, ammanettandolo alla musica del Duppy Conqueror. Un piccolo scrigno di capolavori come Zion Train, Coming In from the Cold, Work, We and Dem, Could You Be Loved intrecciano i dreadlocks di Marley alle radici della sua terra in un’ultima profezia di risurrezione che impone come sacrificio necessario l’atto estremo che arriverà l’11 maggio del 1981, un attimo dopo aver accarezzato sulla guancia il figlio Ziggy sussurando “i soldi possono comprare tutto ma non la vita”.
Franco “Lys” Dimauro