BOB MARLEY AND THE WAILERS – Turn Me On, Dread Man

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Robert Nesta Marley, Winston Hubert McIntosh (inteso Tosh), Neville Livingstone (inteso Wailer), i fratelli Aston (inteso Family Man) e Carlton Barrett.

Ma anche Clement Dodd (inteso Coxsone), Leslie Kong, Rainford Perry (inteso “Scratch” Lee) e Chris Blackwell.

Questi i nomi inevitabili della più appassionante e in larga parte conosciuta storia della musica giamaicana, ovvero quella di Bob Marley e dei suoi Wailers, coloro che passo dopo passo riuscirono a portare la musica reggae su un altro livello, facendo di una piccolissima striscia di terra (dieci volte più piccola di Cuba) circondata dall’oceano una delle più produttive ed influenti officine musicali del pianeta.    

The Wailing Wailers, debutto su grande formato del 1965, è l’unico disco ska dei Wailers.

L’unico in cui le pulsioni pacifiste che Marley sentirà vibrare sempre più forte fanno ancora i conti con gli atteggiamenti non esattamente miti e bonari dei rude boys e la fiera indipendenza giamaicana finalmente conquistata fa invece i conti con la musica che arriva dalle stazioni radio americane, quando di notte le radio locali spengono i loro ripetitori e lasciano campo libero al jazz, al soul e alle ballate di gente come Bacharach e Gershwin.

E i giamaicani anziché il loro Sole nascente, guardano la stessa luna degli odiati yankees.

Siamo nel 1965, nell’ultima estate infuocata dallo ska, rimpiazzato l’anno successivo dai ritmi più morbidi del rocksteady. E Bob Marley sta piano piano diventando il leader naturale dei Wailers, mettendo fuorigioco Junior Braithwaite.

Marley, Tosh e Livingstone (i tre superstiti della band originale) sono ancora, fondamentalmente, un gruppo vocale. Il loro approccio agli strumenti è rude, essenziale, modesto. Per questo, ma non solo per questo, Clement Dodd affianca loro i Soul Brothers, la resident-band del suo Studio One appena tirata su.

Sir Coxsone è a casa sua e può far quello che gli pare. E anche se fosse a casa di altri, chi lo sa, probabilmente farebbe quel cazzo che gli pare lo stesso. Del resto maneggiare armi e microfoni per lui e per gli altri artisti giamaicani è la regola.

Non si va tanto per il sottile, in Giamaica. Neppure la musica ska è gentile, del resto.

Ha un suono di chitarre che ricorda quello di un arrugginito letto in ferro quando i loro occupanti non sono esattamente intenti a dormire. E il rullante di batteria tirato al massimo in modo che quando ci picchi nel modo corretto, somigli allo scoppio di un’arma da fuoco. Dietro l’eleganza ostentata dai suoi musicisti (compresi i Wailers, tanto che la silhouette di Tosh verrà “adottata” dalla 2Tone prima e da tutto il movimento poi come icona definitiva dello ska) si cela in realtà una raffinatezza da malaffare del tutto simile a quella dei gangster mafiosi, eletti ad idoli di una rivendicazione sociale ottenuta ad un prezzo altissimo.

Il debutto dei Wailers è il prodotto di tre ragazzini che guardano a questo immaginario e che producono musica per ballare e per rimorchiare ragazze, cantando d’amore o cercando di far da pacieri tra i rissosi amici del ghetto (come succede su Simmer Down, inaspettato numero uno nelle classifiche locali di quell’anno).

Per parlare di rivoluzione occorrerà aspettare un lustro buono.

E nel frattempo, quel ritmo scalcagnato da bettola si sarà trasformato, lentamente, nella sinuosa onda melliflua del reggae.

E i Wailers nel gruppo spalla di Bob Marley.

 

Prima di unirsi a Peter Tosh e Bunny Wailer, Bob Marley aveva in realtà già iniziato una promettente carriera solista. A scoprirne le doti di cantante era stato Jimmy Cliff, che lo aveva portato dritto fra le mani di Leslie Kong, uno dei tanti uomini-chiave della musica giamaicana (c’è lui dietro il successo di Toots & The Maytals e di molte produzioni Trojan). Dopo l’esperienza ska con Coxcone Dodd, i Wailers tornano alla corte di Kong per aiutarli nel passaggio necessario dai convulsi ritmi ska a quelli più attuali del rocksteady. Nel maggio del 1970, dentro i Dynamic Sound Studios i Wailers, con l’aiuto della Beverleys’ All-Stars al gran completo si apprestano a ridefinire dunque il proprio stile secondo le esigenze di mercato grazie al suono brillante di canzoni come Soul Shakedown Party, Soul Captives, Back Out o le bellissime Stop the Train e Soon Come di Peter Tosh che li impongono immediatamente come gli Impressions della Giamaica. Il successo locale è immediato ma Kong non potrà mai saperlo, morendo per arresto cardiaco pochissimi giorni dopo l’uscita di quello che verrà pubblicato come The Best of The Wailers.     

 

L’ulteriore ridefinizione del suono dei Wailers nelle forme sinuose e calde che l’avrebbero reso famoso passa, oltre che per il percorso rasta intrapreso da Bob Marley, per le mani e le direttive di Lee Perry, il primo a capire che quelle nuove “vibrazioni” spirituali avevano bisogno di un’adeguata oscillazione musicale che non poteva essere quella dello ska e del rocksteady degli esordi. È un adeguamento, quello del progressivo rallentamento dei ritmi, che investe in realtà tutta l’isola e in cui Perry , assieme ad altri produttori come Bunny Lee, Clancy Eccles e Linford Anderson, gioca un ruolo centrale grazie soprattutto all’arruolamento della sezione ritmica dei fratelli Aston e Carlton Barrett. Le robuste linee di basso di Aston in particolare, in cui sincopi e pause acquistano lo stesso identico valore, sono l’elemento timbrico essenziale del nuovo suono dei Wailers, rappresentato su Soul Rebels. Tutto il resto, compresi gli upstrokes chitarristici che poi saranno individuati come caratteristica del genere, è poco più che una suppellettile, un semplice abbellimento che verrà esaltato solo successivamente, quando si tratterà di vendere la musica reggae al pubblico rock.  

Canzoni come Soul Rebel, Corner Stone, No Sympathy e 400 Years, con quelle linee di basso che sembrano borbottare come risacche di schiuma salata sulle coste giamaicane, diventano l’archetipo del nuovo “portamento” della musica dell’isola, ridefinendo anche le inclinazioni e le armonizzazioni vocali che adesso si emancipano dalla tradizione doo wop per abbracciare in toto l’afflato e il call-and-response tipici della musica soul, diventandone in qualche modo l’erede naturale.      

 

Dopo un primo tentennamento che lo aveva portato ad optare per i Soul Syndicate, per il secondo disco sotto la sua egida Lee Perry decide di affiancare ai Wailers nuovamente i “suoi” Upsetters realizzando Soul Revolution, di fatto un “doppione” di Soul Rebels.  Siamo ancora dentro i territori di un reggae che sta cercando di trovare una sua identità stilistica muovendosi dentro le influenze del rocksteady, del mento, del calypso e di gruppi americani come gli Impressions, i Tams e i Moonglows. È una musica rurale, ancora piena di spigoli vivi e di call-and-response giocati sulle voci in falsetto anche se tra le pieghe di Fussin’ and Fighting c’è già tanto del Marley che verrà e il repertorio messo insieme sarà quello cui il cantante tornerà ad attingere quando si tratterà di allestire un disco che, nonostante il soggiorno forzato in Inghilterra, lo faccia “sentire a casa”: Sun Is Shining, Kaya, Satisfy My Soul finiranno tutte, vestite di abiti svolazzanti su Kaya, ma all’epoca di Burnin’ la band aveva ripreso già Put It On e Duppy Conqueror (la cui traccia-madre verrà riciclata da Perry per farne un singolo come Mr. Brown, incredibile prototipo di horror-reggae guidato da un Wurlizer maestoso suonato da Tosh, NdLYS) trafugandole proprio da qui.

Lee Perry approfitta dell’occasione per realizzare un album “gemello” (la “Part II della Part II”, visto che nella confusione discografica di quegli anni, entrambi i dischi uscirono alla fine con lo stesso titolo, NdLYS) contenenti le version (ovvero, semplificando, la traccia ritmica delle canzoni privata dall’apporto vocale che avrebbe permesso ai dj giamaicani di improvvisare sopra i soundsystem e, anche, di creare un numero pressochè infinito di brani con la stessa base) dei brani di Marley.

Peter Tosh stranamente contribuisce all’album solo come strumentista (l’armonica dell’esercizio strumentale Memphis chiaramente ispirato ai Booker T and The M.G.’s e il pianoforte su Riding High) e, ovviamente, come corista. Nient’altro. Stavolta, a differenza delle precedenti, non canta e non firma nessun pezzo. Chissà perché. Chissà perché non ha mai voluto dircelo.  

 

Alle fine degli anni Sessanta Chris Blackwell, un giovane inglese di origini giamaicane, ottiene dalla madre il permesso di sfruttare una tenuta di proprietà di suo zio situata nel cuore di Kingston per utilizzarla come quartier generale giamaicano della sua Island Records. Al n. 56 di Hope Road Chris offre strumentazione e alloggio ad alcuni dei migliori musicisti locali. Quello stesso posto verrà venduto a Bob Marley nel 1975 per fondare la sua “impresa” musicale, la Tuff Gong. Tre anni prima, dopo aver tentato di agganciare Jimmy Cliff, Chris Blackwell aveva dato udienza a Bob e ai suoi amici musicisti Peter Tosh e Bunny Wailer, mollati in Inghilterra dal loro impresario senza biglietto per il rientro in patria.

Con l’anticipo del contratto firmato con la Island, i Wailers fanno ritorno in Giamaica per partire definitivamente alla conquista del mondo, grazie proprio alla spinta di Chris Blackwell, l’uomo che educò il pubblico bianco alla musica reggae pubblicando in pochi anni nomi come Third World, Aswad, Lee Perry, Steel Pulse, Toots & The Maytals, Burning Spear, Linton Kwesi Johnson, Black Uhuru, infettando l’Inghilterra e l’Europa coi ritmi in levare della sua “isola” del cuore. Il risultato, Catch a Fire, arriva nei negozi di dischi nell’aprile del ’73 in un’originale ma poco pratica copertina a forma di accendino. Che poi quella fiamma sprigionata dovesse servire, già dalla seconda tiratura, ad accendere il classico joint di erba che sarebbe rimasto associato all’immagine di Marley nei secoli dei secoli era una strategia di marketing altrettanto mirata e a suo modo lungimirante. Anche perché di tutti i messaggi di cui Marley si faceva portavoce, l’unico che veramente attecchirà a nord di Kingston sarebbe stato quello che legato all’uso della cannabis.

Delle rivendicazioni sociali, civili, religiose che ardono sotto quel fuoco, diciamocelo, al grande pubblico europeo interessava poco meno di niente. Piacevano però quei suoni dondolanti ed esotici, quei ritmi a singhiozzo, quegli stacchi irregolari di organo e di rullante. Assieme a Marley, Tosh e Wailer ci sono gli ex-Upsetters Carlton e Aston Barrett, sottratti a Lee Perry ed arruolati come sezione ritmica permanente. Il reggae esce dalla sua fase artigianale (lasciando le “officine” locali a piallare l’enorme quantità di master e di acetati per dare via alla rivoluzione dub) e diventa prodotto industriale.

Blackwell diventa il primo imprenditore dei ritmi in levare.   

 

Il primo standard dei Wailers apre il sesto album del gruppo. Si intitola Get Up, Stand Up e, a formazione ormai disintegrata, verrà reincisa in proprio sia da Peter Tosh che da Bunny Wailer nei loro dischi solisti del ’77. È un pezzo dall’andamento svagato e ondeggiante con una linea di basso decisa e rotonda molto simile alla Slippin’ into Darkness registrata dai War due anni prima e che invita alla rivendicazione dei propri diritti sociali, tanto da venire adottata da Amnesty International come proprio inno e slogan ufficiale. Rispetto alla precedente produzione dei Wailers, Burnin’ ha un tono barricadero che serve da testa d’ariete per penetrare il mercato bianco, grazie a canzoni come quella d’apertura ma anche I Shot the Sheriff e Burnin’ and Lootin’ ma è anche il disco in cui la fede religiosa e la spiritualità sono chiamate a giocare un ruolo fondamentale (Pass It On, Hallelujah Time, Put It On, Rastaman Chant) nella crescita personale e collettiva, un valore da cui non si può prescindere. Quella di mitigare le istanze rivoluzionarie con una forte dose di mistica benevolenza è una scelta voluta, tanto che il gruppo va a recuperare canzoni vecchissime (Pass It On era stata addirittura scritta da Wailer prima della nascita ufficiale del gruppo, NdLYS) o canti tradizionali giamaicani. Una scelta consapevole e felice che legittima i Wailers e Marley come i portavoce delle istanze sociali della loro terra, custodi delle proprie radici e credibili ambasciatori del re Selassiè.         

 

Il tour di supporto a Burnin’ è l’ultimo atto ufficiale del triumvirato Marley/Wailer/Tosh (un atto già monco, in realtà, con Bunny Wailer sostituito sul palco con Joe Higgs, NdLYS). ‘Natty Dread’ è dunque a tutti gli effetti il primo disco “solista” di Bob Marley, realizzato come tutti col preziosissimo contributo dei fratelli Aston e Carlton Barrett e con i nuovi ingressi del tastierista Jean Alain Roussel (suo l’Hammond famoso di No Woman No Cry) che finirà come tastierista aggiunto nei Police e del chitarrista Al Anderson, primo musicista non giamaicano ad essere reclutato nella band.

Ma le novità più importanti di ‘Natty Dread’ sono in realtà altre: la scelta in parte obbligata di sostituire il ruolo vocale lasciato vacante da Tosh e Wailer con delle voci femminili (tra cui quella della moglie) e il tentativo di sfruttare quel nuovo marchingegno elettronico che è la drum machine. Un approccio timido e neppure troppo felice nei risultati che però mostra l’esigenza di trovare nuove soluzioni ad un suono che Marley e Chris Blackwell vogliono riuscire a vendere ad ogni costo. Ma, nonostante questa fallita e per fortuna presto abbandonata tentazione, ‘Natty Dread’ è disco di una bellezza estrema, dove l’amore per il rastafaresimo e l’ancora vivida attitudine ribelle convivono in piena simbiosi (Natty Dread, Rebel Music, Revolution, So Jah Se, Them Belly Full, Talkin’ Blues), l’abbandono definitivo nel concetto dell’“I and I” della religione rasta come atto lirico di fede.         

L’album contiene inoltre il primo set di canzoni che avrebbero costretto Rita Marley a comparire molti anni dopo in tribunale assieme, fra gli altri, agli avvocati della Island e della Tuff Gong per difendersi dalle accuse della Cayman Music di Danny Sims cui Marley in quel periodo era ancora legato da un contratto di edizioni musicali e che pur tuttavia il cantante giamaicano pensò bene di “raggirare” garantendo una pensione tranquilla alla moglie e all’amico Vincent Ford costretto ad una carrozzina da un diabete particolarmente affamato. A loro e ai musicisti della band Marley pensò di intestare 2/3 del set (sul disco successivo avrebbe loro affidato la paternità di tutta la scaletta, con la sola eccezione di Night Shift, NdLYS), riuscendo a procedimento giuridico concluso, a raggiungere il suo intento. Se non fosse riuscito a salvare le moltitudini con la spiritualità, avrebbe quantomeno riuscito a garantire economicamente il sostegno dei pochi.

Perché in fin dei conti nell’attesa di sapere se ti sarà destinato un pezzo di giardino nell’aldilà, puoi sempre comprare un bel pezzo di terra e fartelo qui, il tuo piccolo paradiso.

   

Voglio che tutta la mia gente ci veda entrare nella Top 100” canta Marley su Roots, Rock Reggae. È la prima, l’unica, profezia del cantante giamaicano a tradursi in realtà. Roots, Rock, Reggae è il singolo con cui i Wailers finiscono finalmente nella classifica dei 100 singoli più venduti del 1976, destinato a far da traino per l’esplosione di Marley in tutto il continente americano con l’arrivo dell’album Rastaman Vibration, fiera e vibrante dichiarazione di amore alla propria terra e alla propria religione.  

Stranamente è uno dei dischi più controversi e ombrosi di Marley. E non sto parlando dell’ombra delle palme caraibiche. Parlo di ombre interiori, di dubbi e avvilimento davanti alle condizioni del suo popolo, della fame di guerra che divora la sua isola e il mondo intero. Un clima che si ripercuote nelle atmosfere del disco, con le chitarre passate in retroguardia rispetto alle tastiere, quasi impassibili davanti alla crescente fame di distruzione e potere che sta dilaniando il mondo (un esempio memorabile è War, con la chitarra che si limita a ripetere lo stesso, automatico accordo lasciando ai fiati il compito di sottolineare i passaggi chiave del brano). L’amore è quasi del tutto assente come moto passionale e sopravvive solo come rifugio consolatorio. Inibito anch’esso dal dilagante vuoto che sembra aver preso possesso delle terre emerse e che si sente inadatto a colmare.    

                                                                                  

Il 1977 non era un anno qualunque.

Non per i rastafari, perlomeno.

Avevano appuntamento per le ore sette del 7 luglio di quell’anno. Il giorno in cui, secondo la profezia di Marcus Garvey, sarebbe arrivata l’Apocalisse e la caduta di Babilonia.

Alle otto di sera sarebbero rientrati a casa, un po’ delusi.

Non si accorsero che il 7 luglio del ’77 la sua Apocalisse l’aveva portata eccome, anche se non era quella tutta fulmini e distruzione che loro si aspettavano.

Bob Marley rientra un po’ più tardi, quella sera.

Torna dall’ambulatorio del suo medico di fiducia a Londra.

Gli è stato appena diagnosticato il melanoma all’alluce che lo condurrà lentamente alla morte.

In quel momento non ci fa caso nessun altro, se non lui.

Sa che l’Apocalisse è arrivata davvero, ma che sarà un affare tutto suo.

La sua fede religiosa gli impone di non sottoporsi all’amputazione che gli salverebbe la vita.

E Marley si affida alle onde del destino che se lo porteranno via quattro anni dopo.

Il resto del mondo è invece distratto da un’altra Apocalisse.

Culturale, musicale, estetica: quella del punk.

Una “scossa” avvertita ovunque, anche in Giamaica.

I Culture l’avrebbero celebrata in Two Sevens Clash e Marley su Punk Reggae Party, proprio in quel luglio del 1977. Facendo nomi e cognomi: Damned, Clash, Jam, Dr. Feelgood, Maytals. E, come in una profezia di morte, i Wailers. Ma non lui. The Wailers will be there, canta…

Per i primi quattro mesi di quello stesso anno invece Marley era stato impegnato a registrare Exodus.

Exodus: Esodo. Quello del suo popolo e quello personale che lo vede emigrare in Inghilterra dopo essere scampato all’attentato del dicembre dell’anno precedente che verrà raccontato in musica su Ambush in the Night e in ricordo del quale Marley si rifiuterà di farsi estrarre il proiettile che gli si conficcherà nel braccio sinistro. 

Un disco dalla struttura bizzarra, Exodus.

Una prima facciata lenta, cadenzata, uniforme, impegnata e mistica, fino all’apoteosi della title track dove una guizzante chitarra ska ferma su un unico accordo in La minore guida le trombe che conducono il popolo di Jah nella sua fuga da Babilonia.

Il secondo lato smorza invece i toni drammatici e li stempera in un clima più disteso dove è l’amore, privato ed universale, a diventare il vero protagonista.

Jamming, Waiting in Vain, Three Little Birds, One Love vengono sputate fuori dalla Island come singoli, assieme ad Exodus e Marley viene ufficialmente decorato come rockstar universale, nello stesso anno in cui Presley lascia vacante il posto di Re del rock ‘n’ roll e il punk colora di violenza esasperata il mondo occidentale.

Blackwell, che appositamente per Bob aveva fondato la Tuff Gong usando lo stesso nomignolo che gli era stato affibbiato a Kingston, intuisce che Marley può diventare il volto mistico da contrapporre agli eccessi del rock ‘n’ roll.

L’eroe buono che guida una rivolta civile e sociale contrapposta a quella nichilista del punk bianco. Ed è quello che Marley diventa, a partire proprio da questo disco.

Sviscerato e studiato negli anni successivi su pellicole, libri, saggi, book fotografici (Exodus: Exile 77 di Richard Williams, The Book of Exodus di Vivien Goldman e Bob Marley – Exodus 77 di Anthony Wall quelli che vi consiglio, NdLYS) ed eletto allo scadere del secolo scorso miglior disco del XX Secolo dalla rivista Time (Rolling Stone gli riserverà invece solo un 168° posto preferendogli Catch a Fire, NdLYS), Exodus è un disco cardine della vicenda artistica di Marley, seppure non raggiunga la forza e la coesione del Survival che lo seguirà due anni dopo e che inasprisce il clima di tensione politica che Marley sente sempre più pressante.

 

Un’aria di svagata rilassatezza si respira su Kaya, forse di quanto più vicino alla “nostra” visione delle isole caraibiche fatte di spiagge assolate e odore d’erba, ebrezza euforica e torpore. È forse la stessa visione contagiosa ad assumere i tratti della nostalgia e a farsi spazio sotto la chioma di dreadlocks sempre più ricca di Marley, tanto da riprendere alcune canzoni del primissimo repertorio (naturalmente virate nei colori tenaci e fluttuanti del roots reggae e non più del bluebeat e dello ska dei primi anni) e decidere, appena dopo l’uscita dell’album, di fare rientro in patria. Kaya rappresenta una sorta di pausa spensierata e ritemprante fra due dischi “guerrieri” come Exodus e Survival. Canzoni come Is This Love, Satisfy My Soul, Kaya, Easy Skaking, Sun Is Shining e Crisis riescono a trasmettere un senso di placida comunione con la natura e con se stessi, forse banalizzando un po’ i temi della poetica marleyana e con qualche momento di stanca, soprattutto nelle ultime tracce del disco.

Con Kaya Marley ci regala insomma la Giamaica che il mondo chiede a gran voce, prima di tornare a sedersi sul suo trono di Kingston.    

 

Forse il meno celebrato fra i dischi di Marley. Fra tutti, quello dall’approccio più militante. Quello senza donne che piangono, senza ganja in copertina, orfano dell’”everything’s gonna be alright”. Survival è, più ancora di Exodus, il definitivo canto di riconciliazione del popolo nero e dell’auspicata caduta di Babilonia proprio dopo averla fotografata dai finestrini di un pullman stracarico di gente.

Dentro Marley ci ha messo molte delle vibrazioni tirate fuori disfacendo i bagagli del suo viaggio nel grande continente africano.

Survival è il grande abbraccio alla culla del mondo, un’esortazione all’emancipazione delle popolazioni africane dalla schiavitù politica e culturale del mondo occidentale, in parte coronata dalla proclamazione di indipendenza dello Zimbabwe proclamata proprio a pochi mesi dalla bellissima omonima canzone che farà da colonna sonora all’evento.

Forse è dunque una scelta quella di dare alle stampe un disco dinamicamente “piatto” a livello musicale. Un ondeggiante tappeto reggae che sembra voler accompagnare il ritorno in patria dei battelli carichi di carne nera, offrendo loro un viaggio senza scossoni.

Ecco perché ancora oggi Survival è il disco di Marley meglio ricordato dai fratelli neri mentre noi non ne abbiamo mai imparato a memoria una sola canzone.

 

A provare a penetrare il mercato americano con la musica reggae aveva tentato fra il ’71 e il ’73 Cool Herc, giamaicano trapiantato nel Bronx e padre dell’hip-hop tutto che l’avrebbero eletto tale per la sua “messa a fuoco” dei breakbeat della musica funk e latinoamericana cui aveva dovuto ripiegare visto l’assoluto disinteresse della comunità newyorkese verso la musica della sua terra madre. Marley avrebbe conquistato l’America a poco a poco, passo dopo passo, linea di basso dopo linea di basso, accordo skankin’ dopo accordo skankin’. Ora, con quello che sarà destinato a diventare il suo testamento spirituale, Bob Marley aveva davvero conquistato tutto e tutti. Con il ritmo pulsante di Could You Be Loved, anche le piste delle discoteche erano pronte ad abbassare il ponte levatoio e stendere un tappeto di palme sotto ai piedi del profeta dell’amore rasta.  

Uprising, ultimo atto di un Marley ormai ad un passo dalla morte, è il disco definitivo dell’artista giamaicano. E lo sarebbe stato con molta probabilità anche se non fosse stato l’ultimo in grado di registrare. Una mirabile summa della sua musica, del suo messaggio, della sua ambizione e dei suoi sogni destinati a rimanere tali. Non una sola canzone men che necessaria, nonostante le sue tante sfaccettature, con un conclusivo atto acustico, intimo e folk che ha davvero tutta l’aria di un atto di commiato definitivo ma ancora carico di speranza, di “good vibes”. Ogni canzone vibra di un amalgama unico, fiero, stiloso, drammatico ed accattivante assieme. Ogni canzone è rotonda e soda come le chiappe di una giovane donna dei caraibi che scende dalla spiaggia fin dentro le acque del mare delle Antille ma allo stesso tempo l’intreccio degli effetti applicati alle chitarre e l’utilizzo massiccio del Clavinet conferiscono a molte tracce quel suono “ferroso” che riesce ad imprigionare l’ascoltatore, ammanettandolo alla musica del Duppy Conqueror. Un piccolo scrigno di capolavori come Zion Train, Coming In from the Cold, Work, We and Dem, Could You Be Loved intrecciano i dreadlocks di Marley alle radici della sua terra in un’ultima profezia di risurrezione che impone come sacrificio necessario l’atto estremo che arriverà l’11 maggio del 1981, un attimo dopo aver accarezzato sulla guancia il figlio Ziggy sussurando “i soldi possono comprare tutto ma non la vita”.    

                                                                                 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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CASINO ROYALE – Dieci piccoli indiani

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Non furono i primi. Il primato dello ska, in Italia, spetta agli Statuto di Torino.

Ma furono i migliori, anche dopo che le ombre lunghe degli Specials avrebbero disertato le loro anime e lasciato il posto ad altri spettri che ne avrebbero decretato lo status di band poliedrica e dalla caratura internazionale. Nella seconda metà degli anni Ottanta i Casino Royale sono una gang di dieci rude boys che raccoglie cocci da esperienze molteplici, implose in pochissimo tempo. C’è chi viene dal punk, chi dal garage-rock, chi dall’hardcore, chi dalla new-wave. Ci sono schegge di Shockin’ TV, Pression X, Rappresaglia.

Una miscela che trova nella musica in levare giamaicana il proprio punto di fusione.

E in quegli anni in cui molte scene musicali metropolitane stanno implodendo l’energia dello ska prende piede con rinnovato vigore. In fondo ci si accorge che, a parte i nomi grossi che ci suonano familiari, c’è tutto un mondo da scoprire e una giungla di piccole leggende giamaicane intricata come dei dreadlocks. Dal vivo i Casino Royale accendono le sale. Fiati e ritmi skankin’, aria di festa, atteggiamenti da rude boys gentili, occhialini neri e due MC che si spartiscono il ruolo di leader, finchè scopriranno che l’ego di uno mal sopporta quello altrettanto invasivo dell’altro.

Rimestano nel vecchio, i Casino Royale degli esordi. Ma suonano come una cosa nuova. L’approdo alla lingua italiana è ancora lontana, così come la voglia di meticciato e di musica globale che inghiottirà la band già con Jungle Jubilee e in via definitiva da Dainamaita in poi. Proprio per questo Soul of Ska fa un po’ storia a sé nella discografia della band milanese. Ci sono dentro un paio di cover dei giamaicani Blues Busters (I Won‘t Let You Go e Soon You‘ll Be Gone) e una deliziosa versione in levare di Under the Boardwalk dei Drifters. Il resto è farina del sacco di Aliosha Bisceglia, Giuliano Palma, Michelino Pauli e Ferdi ed è il grano migliore della raccolta, dalla divertente Stand Up, Terry! che fa il verso allo ska idiota dei Bad Manners alla memorabile Casino Royale che diventa il pezzo “inevitabile”, quello che chiude la scaletta dei concerti, quello che tutti cantano saltando come dei matti, quello che addirittura finisce come traccia nello spot dello shampoo antiforfora più famoso d’Italia (non so quante bottigliette ne abbiano potute vendere tra gli skinhead che affollano i loro concerti dell’epoca, NdLYS), dal trascinante non-sense di Mr. Spock & Mr. Space al morbido blue beat di Housebreaker al boogaloo anni sessanta di Bad Times alle arie western della strumentale Ten Golden Guns. I Casino Royale non fanno ancora tendenza e ti costringono ad agganciare le bretelle per aver salvi i pantaloni durante i loro concerti.

I loro gig all’epoca sono ancora il ritrovo per skin e punkabbestia che si ritrovano in quelle piccole storie ordinarie di sveglie che suonano sempre troppo presto e di giovani che sbarcano il lunario facendo i topi d’appartamento nei quartieri bene della città e sono disertati dai modaioli. Troppo difficile immaginarsi quello che i Casino diventeranno negli anni Novanta. Troppo difficile dimenticare quanto ci fecero sudare.

 

Fatte le dovute proporzioni (ehhh..noi maschietti…) i Casino Royale furono per la musica ska, in Italia, quello che erano stati i Clash per il punk inglese.

Un autentico laboratorio in grado di rivoluzionare la formula base facendola precipitare in decine di reagenti diversi.

Ecco dunque che per Jungle Jubilee lo ska prepotente del disco di debutto smette di diventare il centro del mondo e diventa una delle tante periferie possibili.

In questa intuizione, che è stata appresa sicuramente alla scuola dei Clash ma anche di band contemporanee come Mano Negra e Negresses Vertes, si gioca la scommessa di un album che sdogana l’uso del dialetto (la cover di Caravan Petrol), le coloriture etniche (l’uso di strumenti da strada come lo scacciapensieri, il mandolino e la fisarmonica), la contaminazione come elemento indispensabile di tutela (e non “svendita”) della propria identità, creando piccole meraviglie come la saudade caraibica di Love Is the Law, il soul primaverile di Available Swing (vicinissimo a quello che stanno facendo, sponsorizzati da Sanremo e dalla EMI, i Ladri di biciclette, anche se fa scandalo dirlo, NdLYS) o spostando i tropici dentro le foreste dei Nebrodi su White Sun.

I Casino Royale lanciano un sasso che agita le chete acque della musica di settore, trovando una via di fuga verso gli anni Novanta.

Non deve essere stato semplice mettere su un disco come Dainamaita. Coordinare gli umori e i gusti di dieci persone inclini al muso facile, riordinare le idee e tentare di ripartire, rimettersi in gioco scommettendo sul proprio nome e cercando di tirarlo fuori dalla nicchia ska, stipulare un contratto con una grossa distribuzione come quella PolyGram senza deluderne le aspettative di vendita e preservare la propria identità pur puntando su un lavoro che è un azzardo stilistico che può bruciare tutta la fatica che ci sta dietro in un attimo.

Dainamaita è un po’ il lancio nel vuoto per i Casino Royale, artefici loro malgrado di quella gran babele di stili, dialetti, generi e tecniche che si imPOSSEsseranno dell’Italia negli anni Novanta.

Ma se Jungle Jubilee permetteva al gruppo milanese di rischiare pur muovendosi in un porto sicuro, Dainamaita rade al suolo ogni certezza. Col rischio che al prossimo concerto verranno a vederti solo per prenderti le generalità.

Dainamaita si apre con un piccolo frammento di trenta secondi. Uno swing suonato al pianoforte da Michele “De Maestro” Ranauro che richiama Caravan Petrol e il refrain di Casino Royale.

Una intro che è messa lì come rito propiziatorio. Ma che è anche un gesto domestico simbolico. Come quando entri a casa di qualcuno, togli il cappello e lo appendi all’ingresso. E quel posto diventa un po’ tuo, marcando il territorio.

Un disco coraggioso, il terzo Casino Royale. Che ascoltato oggi non è invecchiato benissimo, che adesso riesci a fare roba simile schiacciando per errore un’app del cazzo sul tuo telefonino e se sbagli magari mamma te ne compra un altro.

Ma allora, nel 1993, era tutto sudore e scazzi vari.

Era bestemmiare cento volte dietro una puntina che era saltata per uno scratch più nervoso dell’altro, anche se a farlo era un fuoriclasse come DJ Gruff.

Era dire delle cose. E dire cose che avessero un valore non solo a Niguarda, a Quarto Oggiaro o a Ticinese. E non solo “qui ed ora”. Ma in tutto il pianeta. E sempre.

Come quelle dette in Justice e Metallo giallo.

Era dirle col cuore di Giuliano Palma.

E dirlo con le budella di Alioscia.

E dirlo suonando. E suonarlo su un cavallo che non si è ancora ammaestrato. O che magari non si voleva ammaestrare. Magari dirle e cantarle con una gran confusione in testa. Grattandosi il mento e la fronte. Come i pionieri e come i barboni.

Casino Royale in missione speciale. Facendo della periferia il centro del nuovo mondo.

Passeggiando per Milano, camminando piano piano…quante cose puoi vedere, quante cose puoi sapere.

 

Nel 1995 i Casino Royale vengono a raccogliere quanto seminato con Dainamaita.

E lo fanno con un album strabiliante che rimette ordine nella confusione, in parte voluta e in parte obbligata, che dominava il disco precedente.

Per smerigliare il suono ispido di quello vengono chiamati Ben Young e Roberto Vernetti. Le chitarre scompaiono quasi del tutto, alleggerite e “sospese” su un sound pastoso, densissimo, moderno, edificato sulla sovrapposizione di suoni naturali e “disturbi” elettronici e allo stesso tempo capace di creare dei perfetti vuoti d’aria dove le voci di The King e BBDai sembrano precipitare, come dentro un imbuto soul.

Sempre più vicini. mostra una band lucidissima, pienamente consapevole dei propri mezzi e in grado di veicolarli con il massimo dell’espressività, con l’orgoglio e la superbia che sono indispensabili per fare le cose in grande.

Un deciso scarto in avanti non solo rispetto alla produzione precedente del gruppo milanese ma dell’intera musica prodotta in Italia. Uno di quei goal che costringono gli avversari a riorganizzarsi, a cingersi a coorte, a improvvisare un cavallo di Troia pur di penetrare le altissime difese che gli si sono parate dinanzi, dopo aver macinato chilometri nella nebbia. I Clash, gli Specials, Alton Ellis si muovono come corpi evanescenti, evocati ora da un rullante bello teso, ora da un giro di basso, ora da una pennata di chitarra più decisa delle altre, intrappolati dentro una giungla plastica e metropolitana.

Bizzarri, gli specchi. Subdoli. Ogni tanto ti ci guardi e ti piaci. Ogni tanto, spesso, no.

I Casino Royale, per celebrare i primi dieci anni, decidono di guardarsi allo specchio. Sono in tanti: il King, BB-Dai, Pardo, Ferdi, Patrick, Manna, Rata e Gatto. E non tutti si piacciono.

Quella macchina onnivora in cui si è trasformata la band meneghina sta per incepparsi e spaccarsi in due. Non prima di aver regalato al mondo il disco che perfeziona ulteriormente quanto già espresso su Sempre più vicini.. Arrivando alla meta cui quello annunciava di avvicinarsi. CRX è un album che suona come nessun altro in Italia, in quel 1997 e per molti degli anni che verranno, che riesce a dare una tridimensionalità anche al vuoto, come dimostra una cosa pazzesca come Ora solo io ora, costruita fondamentalmente sopra il nulla, dentro le intercapedini di un beat e di qualche sparuto rumore, con le voci di Alioscia e Giuliano Palma totalmente sovrane. Molto di quello che sta qui dentro è in qualche modo una evoluzione del concetto ritmico che stava dentro un lavoro seminale come Rapadopa di DJ Gruff che infatti qui dentro continua a mettere qualche sua bella unghiata. OltreLà dov’è la fineHomeboyIn picchiataCRXThe Future sono costruite fondamentalmente su un beat. Il resto è un ennesimo lavoro di rasatura eseguita col rasoio di Occam, come era stato per il disco precedente.

Casino Royale diventano l’equipaggio dell’enterprise in orbita lungo una traiettoria spersa e solitaria. Poi i portelli si aprono, qualcuno si lancia nello spazio dentro una capsula che gli permetta di rientrare alla base. I più audaci però, perseverano nel loro viaggio fra le stelle.

 

Le due X in copertina ci ricordano che sono passati venti anni di Casino Royale. Approssimati leggermente per eccesso ma descritti con precisione algebrica nell’intro di Royale Sound: 7000 giorni. Ovvero, con una semplice divisione: diciannove anni virgola diciotto.

Diciannove anni e tre mesi scarsi durante i quali i Casino Royale si sono trasformati più e più volte rimanendo fedeli a nient’altro se non a loro stessi.

Dopo i dischi alchemici degli anni Novanta e l’abbuffata drum ‘n bass dello spin-off realizzato sotto la sigla RYLZ, Reale torna alla musica interamente suonata e delega ad Howie B il compito di rielaborare tutto in chiave elettronica per lo speculare Not in the Face, pubblicato sull’etichetta personale della formazione milanese un paio di anni dopo.

Reale è il disco della riscossa di Alioscia, rimasto unico capitano dopo l’ammutinamento di parte dell’equipaggio. Una orgogliosa, incrollabile fede nella scommessa Casino Royale ostentata nella Royale Sound citata in apertura e dentro la quale BB-Dai non si esime dal togliersi qualche sassolino dalla scarpa, con classe da poeta urbano e schiettezza da teppista hardcore. Un lavoro che non ha forse la statura “popolare” di Sempre più vicini. e CRX, dischi davvero in grado di parlare A TUTTI, animato da una consapevolezza nuova, più adulta, orgogliosa di usare un lessico (musicale e verbale) che può essere compreso da pochi pur avendo una capacità di confrontarsi con le migliori produzioni di settore europee, sfaccettato e labirintico, in grado di reggere ed affrontare le turbolenze che sono vuoti d’ossigeno di chi ancora riesce a volare, nonostante tutto.

 

Choo-chooooo.

Sfatando ancora una volta il mito dei treni che passano una volta sola, quello diretto a Babylon ripassa dalla stazione di Milano ancora una volta nel 2008, stavolta con gli stantuffi che marciano a tempo rocksteady. La tratta però è quella di ritorno: Royale Rockers infatti è il disco che riporta i Casino Royale nella stazione da dove erano partiti venti anni prima. E stavolta è evidente anche ai sordi come sottotraccia le pulsioni del reggae, dello ska, del dub, della musica reggae non siano mai scomparse ma solo scomposte, elaborate in mille sfumature differenti fino a renderle irriconoscibili, un po’ come era stato per i Massive Attack in Inghilterra. Ricordate lo specchio di CRX? Ecco, Royale Rockers elimina quel gioco di specchi costringendo la band a giocare senza trucchi, a carte scoperte, a riconoscersi nella memoria più che nella fisionomia alterata dagli anni, senza fingersi giovani, con le impronte digitali che identificano il marchio Casino Royale ma mostrano anche qualche callo, qualche bruciatura.

Le sovrastrutture sono ridotte al minimo e gli interventi elettronici non sono più quelli invasivi che avevano caratterizzato gli anni a cavallo del decennio ma si limitano a piccole iniezioni dub piazzate sul suono in bianco-nero degli Specials.

Il Pianeta Royale fa dunque un giro completo sul suo asse, tornando alle origini. Ma la spensieratezza di Soul of Ska, che era la spensieratezza dei vent’anni, quella non c’è. Ed è evaporato quell’immaginario carico di richiami allo spionaggio e al cinema degli anni Settanta di perle come Unemployed Investigator, Ten Golden Guns, Bonnie & Clyde, Casino Royale, Mr. Spock & Mr. Space.

E manca il sorriso.

Rimane inalterata la classe, l’aria da rude-boys, lo stile.

Ma se cercate un disco per far festa, non è questo qui.

 

Che i Casino Royale siano stati vittima loro malgrado di un’opera di rimozione inspiegabile credo non sia convinzione di unica mia pertinenza. Un golpe silenzioso li ha voluti far abdicare da un trono che gli spetta(va) di diritto, per essersi assunti dei rischi che in pochi avrebbero pensato mai di prendersi.

Ecco perché il titolo del nuovo album si presta per me a diversi livelli di lettura e di interpretazione. Ma sono perversioni personali che prescindono dal contenuto musicale di Io e la mia ombra che è, ancora una volta, un disco lucidissimo, che si porta addosso tutte le luci della metropoli e le ombre dei suoi abitanti, che fa i conti col tempo, col fiato sempre più corto degli anni che passano.

L’elettronica riappare prepotente e dopo il bagno inaspettato nell’ḥammām giamaicano di Royale Rockers, si riattualizza reinterpretando a suo modo un certo spirito electro/new-wave tornato di tendenza che in alcuni casi può risultare spiazzante (Il rumore della luce, Ora chi ha paura, Io vs te) e disattendendo un po’ il mood notturno della introduttiva Solitudine di massa: Io e la mia ombra, non sembri un paradosso, è un disco invece molto luminoso, quasi polarizzato in ottica radiofonica (pezzi come Ogni uomo una radio, Io e la mia ombra, Io vs te, Cade al posto giusto potrebbero ambire, se vivessimo nel “Pianeta Royale” a spaccare in due le onde radio, NdLYS), nel senso “subsonico” del termine.

Io e la mia ombra è un nuovo disco-scommessa.

Relegati nella periferia dell’Impero che hanno loro stessi ispirato, i Casino Royale guardano il mondo dai grattacieli di Milano.

Più che un disco di musica, un disco di respiri e di messaggi. Casino Royale raccoglie l’esigenza comunicativa distorta dall’isolamento forzato della stagione del lockdown dentro un disco che somiglia più ad una seduta medianica, ad un trasfert emotivo dove l’angoscia gira in loop e passa di mano in mano, di dolore in dolore, da paura in paura, fluttuando come un messaggio in bottiglia ormai incrostato di acqua salata fino ad esorcizzarsi in una vertigine derviscia di elevazione dal torpore emotivo. Dentro Quarantine Scenario si avvertono quel senso di claustrofobica incertezza e di ipocondriaca paura del confinamento ma anche quell’indefinibile ed impraticabile desiderio di mutazione alchemica, di trasversale mescolanza fra gli elementi che ci indichi una via di fuga. Il gioco pervasivo dell’immaginarsi altrove che però, e qui sta la forza concettuale del disco, non è mai impotenza ma desiderio attuativo.

In questa occasione, ma non è la prima volta, Casino Royale è un tag fra i tanti in un progetto che vede coinvolte decine di persone e centinaia di elementi di disturbo che si raccordano fino a creare una maglia di punti di sutura e che è una sorta di aggiornamento XX.20 del progetto rumorista In Hell dei Workdogs. 

Macchine e voci catapultate dentro il buco nero che ha inghiottito milioni di vite proiettando oltre l’imbuto un’umanità strozzata.

Trip-hop, turntublism, dub, elettronica avariata, proiezioni futuristiche e ancestrali al tempo stesso (Keitteikou), spettrali sinfonie per pianoforti e macchine da scrivere solitarie e infiniti spazi dove il silenzio ha più peso specifico delle mura del rumore issate per contenerlo (come nel surreale paesaggio da zombie urbani Covidland) e installazioni corporeo-musicali in stile Matmos.

Casino Royale pronti al peggio. Stavolta su questo pianeta.

Sorpassato dall’urgenza di realizzare un fermo immagine della pandemia con Quarantine Scenario, Polaris arriva finalmente alle stampe alla vigilia del deflusso della terza ondata COVID, dicendo quel che ha da dire in trenta minuti di musica metà della quale si limita, più che a dire, ad indicare. Muta. Proprio come una stella polare.

Il suono è quel meticciato urbano che è marchio di fabbrica dei Casino Royale ormai dai tempi lontanissimi di Dainamaita: pulsante e satura di cariche elettrostatiche Tra noi è un imbuto che si apre sulla crosta della terra, una torre di Babele alla rovescia il cui spaccato ricorda quello dell’inferno dantesco. Casino Royale ci inghiottono così, azionando le vecchie macchine che non ne vogliono sapere di arrugginire. Il suono del pezzo diventa nella dis-version che ne segue un dub pieno di schioppi di fucili, una rude-tune con l’abito di amianto che lascia il posto alle sinfonie di Contro me stesso e al mio fianco che sono i Casino Royale che non ti aspetti, ospiti a casa loro delle bellissime e morriconiane trame dell’Orchestra ad alta felicità. Ho combattuto è l’Alioscia gigante che tutti conosciamo, capace di muoversi come un aracnide lungo le pareti scoscese rese schiumose dalla pioggia elettronica e di sedersi in cima alla montagna come i vecchi eroi biblici, a guardare le ombre che riempiono ogni buca come inchiostro rappreso. Fermi alla velocità della luce è schermata da una linea di basso mentre la pioggia di prima si trasforma in un nubifragio a di lapilli e di rocce laviche. Scenario è il prologo del disco precedente e che qui si trasforma nello stasimo conclusivo prima dei quattro minuti di Fame d’aria che è tutta l’araldica della musica da club degli ultimi trenta anni chiusa dentro un guscio d’uovo bionico e sputata nello spazio.

Direzione nord.

Che se la stella polare non c’è più si troverà dell’altro verso cui puntare. 

O verso cui precipitare.  

Franco “Lys” Dimauro

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STATUTO – Canzonissime (Audiar)    

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Gli Statuto sono l’istituzione mod italiana per eccellenza. Una carriera che sta per sfiorare i 25 anni: roba che da noi non ha eguali, almeno con tale coerenza e stile.

Una certezza. Un po’ com’era per i Ramones, sai che ci sono e già ti basta.

Se poi ti venisse voglia, nonostante le recenti raccolte e live, di riascoltare qualche loro disco, ecco che arriva in aiuto questa ristampa di Canzonissime. Era l’album del ’96, quello che con genio paraculo battezzava i suoi otto pezzi con altrettanti titoli della leggera italiana. Un disco di covers fantasma: Solo tuPugni chiusiUna donna per amicoPensiero stupendoLa mia banda suona il rock (deliziosa nella versione rocksteady che fa sfoggio tra le 6 bonus aggiunte alla scaletta, rispetto alla fredda versione in studio, NdLYS) e così via.

Storie quotidiane raccontate da Oskar con la consueta arguzia e ironia sui canonici ritmi in levare della più solida ballotta mod d’Italia.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE WAILERS – The Best of The Wailers (Beverley’s)  

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Prima di unirsi a Peter Tosh e Bunny Wailer, Bob Marley aveva iniziato una promettente carriera solista. A scoprirne le doti di cantante era stato Jimmy Cliff, che lo aveva portato dritto fra le mani di Leslie Kong, uno dei tanti uomini-chiave della musica giamaicana (c’è lui dietro il successo di Toots & The Maytals e di molte produzioni Trojan). Dopo l’esperienza ska con Coxcone Dodd, i Wailers tornano alla corte di Kong per aiutarli nel passaggio necessario dai convulsi ritmi ska a quelli più attuali del rocksteady. Nel maggio del 1970, dentro i Dynamic Sound Studios i Wailers, con l’aiuto della Beverleys’ All-Stars al gran completo si apprestano a ridefinire dunque il proprio stile secondo le esigenze di mercato grazie al suono brillante di canzoni come Soul Shakedown Party, Soul Captives, Back Out o le bellissime Stop the Train e Soon Come di Peter Tosh che li impongono immediatamente come gli Impressions della Giamaica. Il successo locale è immediato ma Kong non potrà mai saperlo, morendo per arresto cardiaco pochissimi giorni dopo l’uscita del disco.     

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

CASINO ROYALE – Soul of Ska (Vox Pop)

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Non furono i primi. Il primato dello ska, in Italia, spetta agli Statuto di Torino.

Ma furono i migliori, anche dopo che le ombre lunghe degli Specials avrebbero disertato le loro anime e lasciato il posto ad altri spettri che ne avrebbero decretato lo status di band poliedrica e dalla caratura internazionale. Nella seconda metà degli anni Ottanta i Casino Royale sono una gang di dieci rude boys che raccoglie cocci da esperienze molteplici, implose in pochissimo tempo. C’è chi viene dal punk, chi dal garage-rock, chi dall’hardcore, chi dalla new-wave. Ci sono schegge di Shockin’ TV, Pression X, Rappresaglia.

Una miscela che trova nella musica in levare giamaicana il proprio punto di fusione.

E in quegli anni in cui molte scene musicali metropolitane stanno implodendo l’energia dello ska prende piede con rinnovato vigore. In fondo ci si accorge che, a parte i nomi grossi che ci suonano familiari, c’è tutto un mondo da scoprire e una giungla di piccole leggende giamaicane intricata come dei dreadlocks. Dal vivo i Casino Royale accendono le sale. Fiati e ritmi skankin’, aria di festa, atteggiamenti da rude boys gentili, occhialini neri e due MC che si spartiscono il ruolo di leader, finchè scopriranno che l’ego di uno mal sopporta quello altrettanto invasivo dell’altro.

Rimestano nel vecchio, i Casino Royale degli esordi. Ma suonano come una cosa nuova. L’approdo alla lingua italiana è ancora lontana, così come la voglia di meticciato e di musica globale che inghiottirà la band già con Jungle Jubilee e in via definitiva da Dainamaita in poi. Proprio per questo Soul of Ska fa un po’ storia a sé nella discografia della band milanese. Ci sono dentro un paio di cover dei giamaicani Blues Busters (I Won‘t Let You Go e Soon You‘ll Be Gone) e una deliziosa versione in levare di Under the Boardwalk dei Drifters. Il resto è farina del sacco di Aliosha Bisceglia, Giuliano Palma, Michelino Pauli e Ferdi ed è il grano migliore della raccolta, dalla divertente Stand Up, Terry! che fa il verso allo ska idiota dei Bad Manners alla memorabile Casino Royale che diventa il pezzo “inevitabile”, quello che chiude la scaletta dei concerti, quello che tutti cantano saltando come dei matti, quello che addirittura finisce come traccia nello spot dello shampoo antiforfora più famoso d’Italia (non so quante bottigliette ne abbiano potute vendere tra gli skinhead che affollano i loro concerti dell’epoca, NdLYS), dal trascinante non-sense di Mr. Spock & Mr. Space al morbido blue beat di Housebreaker al boogaloo anni sessanta di Bad Times alle arie western della strumentale Ten Golden Guns. I Casino Royale non fanno ancora tendenza e ti costringono ad agganciare le bretelle per aver salvi i pantaloni durante i loro concerti.

I loro gig all’epoca sono ancora il ritrovo per skin e punkabbestia che si ritrovano in quelle piccole storie ordinarie di sveglie che suonano sempre troppo presto e di giovani che sbarcano il lunario facendo i topi d’appartamento nei quartieri bene della città e sono disertati dai modaioli. Troppo difficile immaginarsi quello che i Casino diventeranno negli anni Novanta. Troppo difficile dimenticare quanto ci fecero sudare. 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

Soul