KING KHAN – The Invaders O.S.T. (Ernest Jenning Record Co.)

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Agosto del 2023 vede la pubblicazione integrale della colonna sonora del documentario sulla storia degli Invaders, il gruppo per i diritti civili di Memphis, uscito nel 2015 e di cui King Khan si occupò della scrittura dell’intera parte musicale, con echi di soul music, spruzzi hendrixiani e funky “nebbioso”.

Siamo insomma ancora dentro i confini musicali del Re, poi abbondantemente superati negli anni successivi in molteplici e non sempre concrete direzioni. The Invaders invece, nonostante l’ambizione del progetto e l’altissimo orizzonte di attesa che ne è derivato, ha superato brillantemente la prova acquisendo credibilità anche al di là del suo compito primario di musica per film anche se alcune tracce sono ovviamente quasi del tutto simbiotiche a quelle delle immagini e dunque qui sembrano sdrucciolare un po’ fuori dalla carreggiata. King Khan porta a casa un gran bel risultato, anche se di fatto The Invaders resta testimonianza tardiva di un King Khan che quelle strade sembra averle abbandonate già da un po’, sterzando verso percorsi sempre più difficili da seguire.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PIVIO & ALDO DE SCALZI – Diabolik (Carosello)

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Roberto Pischiutta e Aldo De Scalzi, ovvero quelli che anche i quotidiani della loro città chiamano clamorosamente fratelli ma che non sono nemmeno lontani parenti in teoria non avrebbero bisogno di presentazioni (teoria purtroppo barbaramente confutata dai fatti di cui accennavo sopra, NdLYS): decine e decine di colonne sonore per cinema, teatro e televisione (Il bagno turco, Distretto di Polizia, Moana, Il giudice Mastrangelo, Rex, L’ispettore Coliandro, Ustica, Razzabastarda, Non odiare tanto per esporre in bacheca qualche gioiello) li hanno resi persone di famiglia, senza manco conoscerne i volti. Eredi della grande tradizione italiana di compositori “donati” alla settima arte, i due musicisti liguri chiudono il 2021 con la bellissima colonna sonora per il Diabolik dei Manetti Bros il cui arrivo nelle sale è stato posticipato di un intero anno per i motivi che potete immaginare e che hanno costretto Pivio e De Scalzi ad adattare un disco orchestrale alle esigenze pandemiche spezzettando un’orchestra di duecento musicisti in micro-porzioni (soprattutto per quanto riguarda la sezione fiati) per poi lavorare per sovrapposizione solo in fase di post-produzione. Un’emergenza nell’emergenza, insomma, che però ha prodotto un disco bellissimo chiuso in una confezione ancora più bella con tanto di albo a fumetti allegato. Destinato, vien da sé, a diventare oggetto di culto.

Un doppio album zeppo zeppo di musica, come peraltro è anche la pellicola dove finalmente la musica viene sfruttata in tutto il suo potenziale e senza parsimonia, e che alterna l’easy listening di classe alla Herb Alpert ai climax dei poliziotteschi italiani, il tutto filtrato sempre da una grandissima attitudine noir e sporcato da piccole diavolerie elettroniche attraverso cui le sagome di Diabolik e di Eva Kant, criminali per scelta e senza indugio, sembrano prendere consistenza anche se staccate dalla celluloide.

Nella colonna sonora ci sono ovviamente anche i due inediti a firma Manuel Agnelli che aprono e chiudono il film ovvero il turbinio elettrico de La profondità degli abissi e il naufragio sulle onde dei violini di Pam Pum Pam che in realtà deturpano la bellezza evocativa e quasi totalmente muta del disco ma che hanno altrettanta dignità artistica e che, per i cultori del leader degli Afterhours, accrescono l’appetibilità di cui l’immaginifica musica di Pivio e De Scalzi potrebbe assolutamente fare a meno.         

                                      

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Music from the motion picture Judgment Night (Epic)  

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L’album fotografico dei matrimoni perfetti degli anni Novanta:

i Living Colour ammogliati con i Run DMC, gli Slayer con Ice-T come supereroi Marvel dritti ed erculei sopra lo scudo degli Exploited, i Mudhoney con Sir-Mix-a-Lot, i Biohazard con gli Onyx, i Dinosaur Jr con Del the Funky Homosapien, i Teenage Fanclub con i De La Soul, gli Helmet con gli House of Pain, i Therapy? con Fatal, i Faith No More con i Boo-Yaa T.R.I.B.E., i Pearl Jam e i Sonic Youth concubini con i Cypress Hill.

Case dentro cui il rumore delle macchine elettriche, di martelli e metalli battuti si fondono col sibilo dei gingilli elettronici sbriciolando le pareti l’intero condominio.

Rispetto a quello messo insieme da Stephen Hopkins per il film di cui è colonna sonora, quello radunato da Happy Walters (manager di House of Pain e Cypress Hill) e Karyn Racktman è un cast stellare ed in proporzioni analoghe la colonna sonora lo è rispetto al film stesso, portando a compimento le intuizioni di Walk This Way dei Run DMC, dei Beastie Boys di Fight for Your Right e No Sleep till Brooklyn e dei Public Enemy di Bring the Noise.

Le peculiarità stilistiche di ogni rock band restano distinguibilissime e allo stesso tempo si fondono, ispide, con quelle delle band hip-hop con cui fanno comunella. Fotografate le une e le altre, e qui sta la forza del progetto, nel momento in cui lanciano ancora al cielo dardi fiammanti. Prima che arrivasse il torrente nu-metal a trascinarle via in un mare di fango. Graffiti scolpiti con le lame d’acciaio come Just Another Victim, Disorder, Judgment Night, Come and Die ma anche i bellissimi fiori nel cemento di I Love You Mary Jane, Fallin’ e Missing Link restano a testimonianza viva delle metropoli senza pace della grande America.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Peaky Blinders OST (Universal)  

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Chi l’ha vista, lo sa.

Peaky Blinders, ambientata in una Birmingham appena uscita dalla prima guerra mondiale e ispirata a una organizzatissima famiglia criminale della città inglese, è una serie tv di grandissimo fascino e con una colonna sonora tra le più belle mai sentite, selezionata con grande gusto da Amelia Hartley, responsabile della Endemol Shine inglese. Una che quando alza la cornetta del telefono, muove soldi e persone.

Cinque stagioni che si avvitano sullo sfondo di un’Inghilterra grigia dove malavita, finanza e politica si intrecciano l’una sull’altra.      

“Organizzate” fondamentalmente attorno ai blues cavernosi di Nick Cave e sul suo alter-ego femminile PJ Harvey, le musiche che accompagnano la serie tv sono altrettanto cariche di tensione e di nebbia e odorano di tragedia imminente o appena consumata. Fascinose almeno quanto la storia che viene filmata.

Raccolte a mo’ di playlist individuali su Spotify, è adesso la Universal a raccoglierle (non tutte, badate bene) su supporto fisico su triplo vinile, inframmezzate da dialoghi del film e con corredo di foto e poster della “grande famiglia” Shelby, cominciando proprio dalla Red Right Hand di Cave che fa da sigla a molte puntate e che, nella spoglia versione per voce e pianoforte della Harvey, rappresenta l’unico inedito vero della raccolta assieme alla magistrale versione di All Along the Watchtower ad opera di Richard Hawley che la chiude.   

Dentro, ovviamente, ci trovate pure i “must” della serie, dai Radiohead ai Joy Division, da Anna Calvi agli IDLES, dalle Savages ai Queens of the Stone Age, dai White Stripes a Dan Auerbach, dagli Arctic Monkeys a David Bowie, dai Black Sabbath ai Last Shadow Puppet, dai Foals ai Black Rebel Motorcycle Club.

Un po’ una paraculata? Forse.

Un’abile strategia di marketing sicuro.

Ma il fascino di Peaky Blinders e delle sue musiche rimane, nonostante tutto.  

           

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

MARSHMALLOW OVERCOAT – songs from the motion picture All You Need Is Fuzz (Area Pirata)  

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Che la musica rock si sia stancata da qualche anno di prendere polvere sugli scaffali dei negozi di dischi e si sia spostata tra i ripiani delle librerie e sugli schermi di cinema e tv è un fatto ormai noto. Autobiografie, monografie, saggi, cortometraggi amatoriali e lungometraggi con produzioni da blockbuster hanno interessato (e, visto il trend, continueranno a farlo con frequenza sempre maggiore) trasversalmente TUTTO il settore musicale, da quello di nicchia a quello effimero venuto fuori dai talent sparsi per il mondo, dalle grandi stelle del pop alle più estreme rock ‘n’ roll band della storia. Dai Sonics ai Måneskin, dai Coldplay ai Radio Birdman, dagli Oasis ai Queen, da Lady Gaga ai Virgin Prunes, dai Byrds a Fabrizio De André, da Dylan a J.Ax non c’è una casa editoriale o cinematografica che non investa sul pupillo di turno o un artista che voglia diversificare l’offerta della sua autopromozione. Timothy Gassen è uno che si arrabatta da anni tra libri e documentari per cui non stupisce che anche lui abbia presentato, al 28imo Arizona Film Festival, un vero e proprio film di 90 minuti per raccontare l’universo delle garage-bands, in particolare della sua.

In giro, dice Tim Gassen, da 30 anni (di cui gli ultimi venti però in ibernazione e in ventilazione forzata solo grazie alla sua attività sui social, NdLYS) i Marshmallow Overcoat hanno percorso attivamente la storia del movimento neo-garage in realtà per un solo decennio anche se a Gassen piace far credere che il loro cadavere respiri ancora. Insomma, uno dei casi neanche troppo isolati in cui l’astuzia supera di gran lunga il talento.

Non avendo ancora vista la pellicola non so in che modo Gassen ci racconterà la faccenda.

Però adesso Area Pirata ne pubblica la versione “audio”: 25 canzoni che ne documentano l’intera carriera, a cominciare dal primissimo singolo su Dionysus. Il disco è infatti una sorta di “ristampa” (copertina compresa) del “Very Best of” pubblicato qualche anno fa su Garagenation, spurgato dalle cover versions e concentrato sul materiale autoctono con tre inediti assoluti. Di buon livello, soprattutto quando la band si avventura(va) nelle cose più sinistre come Psilocybil Mind, Santa Fuzz, 13 Ghosts o The Mummy. In attesa che magari gli Overcoat si decidano a registrare qualcosa di nuovo e non a campare di rendita con del materiale che ha più anni delle mie figlie.   

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

AA. VV. – Saturday Night Fever (RSO)  

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C’è sempre un momento nella storia della musica in cui i bianchi si impossessano del sound dei neri. Era già successo col blues, col soul e col rock ‘n’ roll. Nel 1977 questo accadde pure per la disco music. Lo fecero in maniera clamorosa, mettendo la bandierina sulla classifica degli album più venduti della storia fino all’arrivo di Thriller di Michael Jackson, imponendo al mondo un suo prodotto musicale e cinematografico che avrebbe influenzato l’immaginario collettivo per anni, decenni. Ancora oggi, per noi bianchi del vecchio continente che “subimmo” la disco music come un’invasione (pur avendone determinato il lancio grazie ai “nostri” emigrati del sud seduti al banco mixer delle discoteche newyorkesi), associare i Bee Gees al suono di quel periodo è più naturale ed istintivo che associarlo a chiunque altro, forse con la sola eccezione di Donna Summer che tuttavia era interprete di una disco già geneticamente modificata in qualcos’altro (l’Hi-NRG, NdLYS) e la silhouette di Tony Manero-John Travolta è la cosa che più di ogni altra ha scalfito il nostro archivio iconografico relativamente a quel periodo.  

È il 1977 e tre puttini bianchi vengono sostituiti alle puttane della musica dei club. La rivoluzione gay (quella di Stonewall) riadattata ad una più commerciabile condizione etero (quella del protagonista del film) o tutt’al più dirottata sui binari di un molle gusto effeminato (la voce da eunuco di Robin Gibb).      

I Bee Gees, che della colonna sonora sono protagonisti non unici ma sicuramente decisivi (Stayin’ Alive, How Deep Is Your Love, Night Fever, More Than a Woman, You Should Be Dancing, Jive Talkin’),  non sono in realtà angioletti immacolati, visto che sono in giro già da quasi un ventennio, ma dei loro successi canori dei ‘60 in Europa e in America nessuno si ricorda più anche perché la loro metamorfosi iniziata a metà degli anni Settanta è stata una delle più radicali della storia della musica pop. Il loro suono è adesso una funzionale lavatrice dove l’uomo della classe media può infilare i panni della disco music senza doverli mischiare con quelli dei latinos e dei neri che affollano le sale da ballo e tirarli fuori sgargianti ed immacolati come il completo di Manero.

Gli ingredienti della disco-music primordiale ci sono tutti, dalle percussioni di Soul Makossa ai fiati dirompenti, dalle chitarre funk alle distese di violini che diventano adesso stucchevoli tappeti indispensabili per permettere lo struscio a bordo sala e ancora piccoli ritocchi di synth e linee di basso marcate e gonfie come le patte prima di avventarsi sulla pista da ballo.

Tutto un po’ annacquato, un po’ sdolcinato, un po’ imbellettato, un po’ levigato perché possa piacere a tutti e diffondersi proprio come una febbre, d’accordo. Ma realizzato con un’astuzia commerciale senza pari.

Da quel momento la disco-music diventa la panacea in grado di curare tutti i mali, anche quelli di artisti ormai prossimi al tracollo (Rod Stewart, gli Stones oppure qui da noi Alan Sorrenti, solo per nominarne tre) che, spinti dalla fame di successo cavalcheranno un’onda che aveva già perso tutta la sua forza devastante.      

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

SEX PISTOLS – The Great R ‘n’ R Swindle (Virgin)

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La cometa putrescente dei Sex Pistols si inabissa nel mare spegnendo la sua coda in un finale dove tragedia e commedia si intrecciano come nell’abbraccio di Amore e Psiche.

Ormai svuotata la stiva del loro carico di lerciume punk assieme al corpo di Johnny Rotten, i Sex Pistols si mostrano al pubblico per quello che sono: una novelty band impegnata in una raccapricciante versione bubblegum del rock ‘n’ roll. La marionetta preferita di Malcolm McLaren è adesso Sid Vicious, l’imbecille della compagnia privo di alcun talento se non quello di cercare rogne ed eroina come un cane segugio. Qui lo si può sentire canticchiare nella trilogia più inoffensiva non solo dei Sex Pistols ma dell’intera storia del rock: C’mon EverybodySomething ElseMy Way, in un doppio infame album in cui, fra versioni orchestrali e disco dei successi dei Pistols, a brillare per davvero è sempre il Rotten attaccabrighe che vampirizza vecchie rinsecchite larve proto-punk degli anni Sessanta come Don’t Gimme No Lip ChildWatcha Gonna Do About It?Steppin’ Stone latrando come un agnello condotto al macello.

La linguaccia impertinente del punk diventa una smorfia innocua da asilo. Lo spettacolo mostra le sue quinte e il suo agnello sacrificale.

Per dirla con la maglietta di Johnny Rotten: sono sopravvissuto al tour dei Sex Pistols, ma la band no.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ENNIO MORRICONE – Le colonne sonore originali dei film di Sergio Leone (RCA)  

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La foto la vidi per la prima volta nell’osteria di Checco il Carrettiere, a poche centinaia di metri da Ponte Sisto, in quel cuore pulsante della romanità più fiera ed autentica che è Trastevere. Mostra una cinquantina di scolari disposti su quattro file, avvolti nei loro grembiuli neri. La scolaresca è quella dell’Istituto Mastai, fondato da Papa Pio IX nel “fabbricone” della raffineria di tabacchi da lui stesso (accanito fumatore come il Pio XIII protagonista inquieto di The Young Pope, NdLYS) costruita in quella che diventerà Piazza Mastai e inaugurata il 21 novembre del 1869. In quella foto che oggi trovate agevolmente in rete, separati da un compagnetto di nome Grisanti, Sergio Leone ed Ennio Morricone sono ritratti per la prima volta insieme.

Quando nel 1964, spinto dal produttore Giorgio Papi, Sergio Leone decide di incontrare un “musicista di Trastevere” che ha già musicato il primo western prodotto in Italia per affidargli la colonna sonora della sua prima sceneggiatura di quello che diventerà famoso come “spaghetti-western”, non riconosce dietro quelle lenti già troppo spesse il suo vecchio compagno di scuola. È proprio colui che nel frattempo si è diplomato al Conservatorio come compositore acquisendo lo strameritato titolo di Maestro, a ricordargli di quella foto. E a portarlo proprio nel locale del vecchio compagno di scuola Filippo Porcelli per mostrargli lo scatto che documenta quei ricordi infantili già vecchi di quasi trent’anni.

In quell’autunno trasteverino nasce il più grande e il più lungo sodalizio artistico italiano del XX Secolo, inaugurato ufficialmente nel novembre di quell’anno e spentosi solo con la morte del grande regista. Per i film dell’ex-compagno di classe il Maestro Morricone scriverà alcune delle partiture rimaste, parimenti alle riprese di Leone, nella memoria collettiva deformando indelebilmente quell’immaginario di cowboys esportatori e custodi della giustizia che era stato portato sul grande schermo da “eroi” come John Wayne e Kirk Douglas. Gli anti-eroi di Leone invece sono tutti eroi negativi. Tutti ugualmente infami portatori sani di odio e rancore. Luridi bastardi senza patria mossi solo dall’ingordigia. Per quelle sagome perennemente coperte da una bava di sudore Ennio Morricone cuce, a volte riadattando vecchi temi folk e oscure murder-ballads, un perfetto abito sonoro. Musiche talmente epiche ed evocative, talmente “ottiche” che riesci a rivedere quei film senza neppure aprire gli occhi. Schiocchi di fruste, campane, carillon, fischi solitari, scacciapensieri, fruscii di erbacce, nitriti, sibili di proiettili, sbuffi di locomotive, stridii sinistri di armoniche a bocca, organi a canne, trombe mariachi, pestar di zoccoli e soffi di vento. Una giungla sonora innestata dentro un’atmosfera da pericolo imminente evocata deturpando la classica tradizione twangy di maestri come Duane Eddy e Link Wray, magistralmente rielaborata dal chitarrista Bruno Battisti D’Amario cui viene chiesto di lasciare la chitarra leggermente fuori tono e di percuotere le corde con un accanimento che “deve far pensare a una lama pellirossa che scuoia uno scalpo bianco”. Ne escono capolavori assoluti come Per qualche dollaro in più, La resa dei conti, L’uomo dell’armonica, Il triello, Il buono, il brutto, il cattivo, Mesa Verde che sono il non-plus-ultra della musica per film mai partorita da mente umana.

Un universo sonoro da cui, dal rock all’hip-hop, dai cantautori ai piccoli mutanti della musica elettronica, avrebbero tutti pescato a piene mani (dai Wall of Voodoo ai Clash, dai Litfiba ai Dead Kennedys, dai Calexico ai Gallon Drunk, dai Santa Sangre ai Tarentel, dai Ronin ai Big Audio Dynamite, dal Wu-Tang Clan agli Orb, da Fabrizio De André ai Bad Seeds solo per citare qualche nome).

Da allora, tutto ciò che è “musicalmente cinematografico” è detto anche morriconiano.

Da allora, l’Italia ha infilzato la sua bandiera in terra americana.

Da allora, il Maestro è il Maestro. Gli altri, tutti suoi allievi.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

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GOBLIN – colonna sonora originale del film Profondo Rosso (Cinevox)

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Forse non ci credevano neppure loro. E di certo non ci credeva Dario Argento, che a loro era arrivato come ripiego dopo aver ricevuto le pernacchie di gente come Pink Floyd ed Emerson, Lake & Palmer in risposta alla sua educata richiesta di avere delle musiche per quello che sarebbe diventato il “suo” film. E che invece, oltre a diventare il suo, diventò pure quello dei Goblin. Per sempre.

La mezz’ora scarsa di musica che i Goblin impacchettarono dentro gli Ortophonic Recording Studio nel febbraio del 1975 riarrangiando in parte quanto già scritto dal primo affidatario Giorgio Gaslini e scrivendo di sana pianta una buona metà del materiale, tra cui l’epocale tema del film destinato a diventare l’imprimatur di tutto il lavoro contribuendo ad incollarlo alla memoria collettiva per tutto il secolo a venire, è uno dei più colossali, fantasmagorici lavori di tutta la stagione prog italiana.

Costretti a vivere artisticamente una vita di “serie B” (i fanatici del prog li tratteranno sempre come “semplici” autori di colonne sonore, cosa che peraltro continueranno a fare egregiamente per altri quindici anni, come degli Umiliani o Piccioni qualsiasi) e ad essere relegati ai margini di qualsiasi enciclopedia sul fenomeno prog-rock, i Goblin qualche bella soddisfazione artistica (i Van der Graaf Generator come gruppo spalla fecero mordere le mani dall’invidia a molti nomi altisonanti, in Italia e anche all’estero) ed economica se la presero, alimentando un culto che non accenna a spegnersi e che ancora oggi fa ombra su nomi all’epoca più rispettati. Profondo Rosso, con quell’inquietante giro di moog e quell’esplosione di organo a canne (il primo realizzato con un presettaggio del sintetizzatore, le seconde con l’ausilio di qualche buon amico borgataro, NdLYS) è diventato forse più ancora di quella Tubular Bells scelta per L’esorcista a cui si ispirava con ostentata fierezza il “classicone” da musica horror. Ma la spericolata fusion di Death Dies, le flatulenze Soft Machine di Wild Session e il crimsoniano intreccio jazz tenuto assieme dall’incredibile basso di Fabio Pignatelli di Deep Shadows sono esempi di un virtuosismo e una capacità evocativa che ha del prodigioso, risparmiandoci buffe e paradossali avventure in mondi fatati promossi dalle agenzie di viaggio del progressive e trascinandoci nell’incubo, fino a vederci annegare nelle nostre stesse angosce.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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HENRY MANCINI – The Music from Peter Gunn (complete edition) (American Jazz Classics)

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Gli emigranti italiani di prima generazione costruirono l’America.
I loro figli ne montarono l’immagine e ne crearono il suono, facendone la cartolina che di qua dall’Oceano tutti si aspettavano di ricevere.
Enrico Nicola Mancini non fu da meno. Senza di lui non potremmo fischiettare il tema della Pantera Rosa o simulare un’immersione nelle acque argentate del Moon River. E forse senza di lui il matrimonio tra jazz e cinema sarebbe rimasta una sghangherata storiella da due soldi. Chi lo sà.
Invece nel ’58 Blake Edwards gli affida le musiche per un suo nuovo personaggio su cui sta lavorando: si tratta di un investigatore privato di gran classe, che frequenta un club jazz chiamato Mother’s e che risponde al nome di Peter Gunn.
Gli serve un autore sofisticato, elegante e versatile, in grado di rendere in musica ciò che Edwards ha in mente di proiettare sullo schermo. Henry è perfetto: conosce Cole Porter come gli Ebrei la Bibbia ma ha suonato in centinaia di matrimoni per immigrati e fatto tesoro del loro repertorio: ha una musica pronta per ogni situazione. Mancini costruisce delle musiche “su misura”. Come un sarto. O un designer.
Peter Gunn diventa quello che lui suona e ascoltando di filato questo splendido doppio CD pare materializzarsi la sua ombra alle nostre spalle. È la magia di una musica che buca lo schermo prima in un senso, poi in quello opposto. La magia delle nostre memorie.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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