È il 1971 e mentre Doug Yule spalma merda sul nome dei Velvet pubblicando l’ignobile Squeeze, Reed si sposta a Londra.
Infila la sua New York nelle valigie e la porta via con se.
Nel bagaglio a mano ha qualche canzone che aveva scritto per i Velvet.
Sono i suoi primi trenta anni di vita che sorvolano l’oceano con lui.
E’ anche per questo che il suo primo album si chiude con Ocean, un pezzo scritto un paio di anni prima e che adesso è arrivato finalmente a riva.
In studio con lui ci sono gli Yes, per un disco che porta il suo nome e il suo cognome: una carta d’identità.
Di più, un attestato di vita.
Considerati gli eccessi con i VU, ha quasi il sapore di un miracolo.
Costruito con gli scarti dei Velvet Underground, Lou Reed è il debutto solista “forzato” di Reed, pubblicato dopo due anni durante i quali il musicista di New York tiene le sue dita impegnate su quelle di una macchina da scrivere lavorando come dattilografo per il padre, schifato dal mondo del rock, deluso e forse pentito di aver lasciato il timone dei Velvet nelle mani di Doug Yule e permettendogli di affondare tutta l’imbarcazione, ormai priva di equipaggio.
A ritirarlo nel mondo del rock ‘n’ roll è Richard Robinson, l’uomo che aveva già salvato i Flamin’ Groovies assicurando loro un contratto discografico per la Kama Sutra. E’ lui a convincerlo che c’è ancora un mondo che aspetta la “sua versione” della storia. E che lui può raccontarla cantando le sue canzoni. E che può dimostrare che si, in qualche modo la vita può essere salvata dal rock ‘n’ roll più di quanto possa essere salvata da una macchina da scrivere.
Il risultato è un disco prodotto dallo stesso Robinson con lo stesso piglio robusto di Loaded ottenuto radunando attorno a Reed dei session men di grande mestiere (Steve Howe e Rick Wakeman degli Yes come ho già detto, Caleb Quaye del giro di Elton John e Clem Cattini ovvero il batterista di fiducia di Joe Meek) con una serie di canzoni che mediano tra qualche riff stonesiano e le visioni metropolitane del Dylan di Blonde on Blonde. Wild Child, I Can’t Stand It, Walk It and Talk It e la decadente bellezza di Berlin dentro cui si muovono i germi di buona parte del punk che uscirà dalla Grande Mela cinque anni dopo (dai Voidoids ai Television) sono le prime piume della nidiata del Reed solista (qui raffigurato col pulcino di sterna fotografato sulla barriera corallina da Fritz Goro nel 1950) a spargersi sul suolo di New York.
Transformer arriva l’anno dopo, celebrando le nuove cattive amicizie di Lou: Ziggy Stardust e Mick the Spider from Mars. Con loro c’è pure Herbie Flowers, il bassista di Space Oddity e del tour di Diamond Dogs.
Sono loro a mettere mano su uno dei dischi che, anche per questo, diventa una delle icone del glam rock. Il rock che ama il make-up, le pailettes, i capelli cotonati e celebra l’androginia come il confine fra l’uomo comune e l’artista. La coda lunga della cometa Velvet non è ancora del tutto passata ed è a certi abbozzi di quel periodo che vengono fuori Satellite of Love, Andy’s Chest e Vicious. La prima si muove sul ritmo morbido di un pianoforte prima di prendere quota sollevata dai palloncini di un coro bubblegum ed esplodere in un tipico crescendo di lustrini come quelli che piacevano a Marc Bolan.
Le altre due sono ancora una volta ispirate dall’amico/maestro Andy Warhol.
La prima racconta del suo scampato omicidio per mano di Valerie Solanas, l’altra dei suoi appetiti omosessuali.
Ma i fantasmi di Drella e degli stravaganti personaggi che gli giravano intorno abitano tutto il disco. Walk On the Wild Side ne offre una carrellata. Ritmo sincopato, spazzole e un piccolo tappeto di velluto fatto di violini e sassofono. Sembra di passeggiare per i corridoi della Factory guardando i suoi abitanti come dentro teche di vetro. Un abito ruffiano che, malgrado le censure, riuscirà a portare la fellatio ai piani alti delle classifiche.
Le reginette del pop la useranno (la fellatio) per garantirsi lo stesso successo, da lì in avanti. Costrette a fare come Candy, ma sotto i tavoli delle case discografiche.
Per il mondo sarebbe diventato il tormentone di Lou Reed.
Per lui, il suo tormento.
Costretto a dimenticare i nomi dei protagonisti pur di farla scomparire dal proprio repertorio.
Gli altri capolavori del disco sono sempre sulla prima facciata dell’album: lo scattante rock ‘n’ roll di Hangin’ Round affonda i denti nel boogie elettrico di T. Rex e Flamin’ Groovies mentre Perfect Day è una ballata decadente. Una canzone su una giornata perfetta al parco, col sole che ti taglia in due e la sangria a rendere tutto più allegro. In compagnia della tua ragazza. Dovrebbe suonare come una canzoncina degli Herman‘s Hermits, con i campanellini e lo schiocco delle frecce sotto ogni ritornello. Invece affoga in uno struggente giro di pianoforte (lo stesso che Nick Cave sfrutterà per There Is a Kingdom venticinque anni dopo, NdLYS) e una bava di violini.
Forse perché la ragazza di cui parla Lou è ancora quella di qualche anno prima e si chiama eroina.
Il resto del disco non ha grossi picchi, nonostante il vestito di capolavoro assoluto che la critica mondiale gli ha cucito addosso, anno dopo anno.
Eccede nel cattivo gusto sin dalla tuba di Make Up fino al delirio broadwayano di Goodnight Ladies passando per la marcetta da cartoon di New York Telephone Conversation. Ma Transformer rimane il disco che consegna Lou Reed alla storia.
Dopo gli appuntamenti mancati con la felicità descritti su Transformer, Lou Reed sposta l’obiettivo su Berlino. Quasi a voler dire che si può essere infelici ovunque, basta volerlo. E Jim e Caroline, i due protagonisti di questo “concept” sul malessere domestico, sono due carogne perfette per bucare l’incontro anche fortuito con la felicità. Due protagonisti perfetti per raccontare il turbamento emotivo che sta divorando Reed in quegli anni. Berlin apre le ferit(oi)e su un disastro familiare e lo offre in anteprima alla sua novella moglie Bettye Kronstad.
La stampa avrebbe poi speculato come di consueto sull’episodio, dichiarando che Bettye avrebbe tentato il suicidio dopo essersi immedesimata nella vicenda dei protagonisti e aver realizzato che chi quella storia l’aveva scritta e musicata, era il compagno scelto per la sua nuova vita di coppia. In realtà a collassare, pochi mesi dopo, fu la loro breve e violenta storia d’amore. Un epilogo diverso rispetto a quello immaginato da Reed. Ma non di molto.
Ma Berlin suscitò inquietudine anche a chi da Lou Reed stava parecchio lontano. Per il disastro commerciale che si portava dentro e che in realtà fu tale solo nella sua patria, disorientata dalle luci stavolta davvero troppo basse che aumentavano il rischio di poter inciampare nei malumori dell’autore. E nei propri.
C’è molto buio, nella Berlino che Lou e, dopo di lui Iggy Pop, David Bowie, Wim Wenders, Nick Cave scelgono come nido della propria fenice personale e come centro catartico dove far brillare liberamente quel dolore tenuto a bada per troppo tempo da alcol e medicine. La città tedesca e il suo muro ben si adattano ad accogliere i protagonisti di questa annichilente tragedia sulla separazione e sulla disaffezione. Rispetto al suono secco e asciutto dei due album precedenti Berlin è avvolto in una asfissiante coperta di suoni torbidi e smozzicati, sofisticatamente decadenti o goffamente tronfi (la parata di fiati soul e il solo mirabolante di How Do You Think It Feels dentro cui Lou Reed intinge i suoi ricordi legati alle sedute di elettroshock con cui qualcuno cercava di voler “riparare” alle sue tendenze omosessuali, NdLYS) che tingono, senza ravvivarla, la tragedia personale e duale dei protagonisti.
Crudo e disperato, Berlin ciondola dal soffitto come un meraviglioso lampadario con le gemme tutte appassite. In autunno cadranno come foglie sfinite. E noi ne raccoglieremo le piume.
Immergersi in un disco di Lou Reed è, ancora una volta, come infilarsi sotto le coperte con metà degli abitanti di New York. Papponi, travestiti, taxi drivers, mignotte, barboni, pushers e sputafuoco. E ognuno ti racconta la propria storia, mentre ti svuotano il frigo e ti macchiano le lenzuola di sugo.
Ci sono i fiati. Come un disco/Disco.
Ma Sally non balla.
E ci sono capelli ossigenati, coriste scosciate e pavimenti a scacchiera che si illuminano più forte quando il basso spinge, meno quando a picchiettare è il piano, di nuovo più forte quando qualche schitarrata glam sembra venuta a spargere sangue sulla pista.
Ma Sally non balla.
Sally non può ballare.
Sally, chiusa nel bagagliaio di un’auto, non può più ballare.
Dentro quelle discoteche, quei club dove si va per affogare la noia di un sabato sera, ballano i suoi aguzzini. Lei, li attende in auto.
Tutte le contraddizioni di una città come New York stridono dentro Sally Can’t Dance. Tutte le contraddizioni di Lou Reed, pure.
Lui che ha sempre scelto il lato buio della strada e che, quando si accende qualche flash è costretto a ripararsi dietro degli occhiali scuri, è adesso nudo sotto una pioggia di bagliori colorati, protetto solo da un paio di Ray-Ban™.
Perduto dentro un disco impostogli dall’alto e di cui parlerà sempre di malavoglia e a monosillabi, guardando i suoi intervistatori con uno sguardo di sfida misto a noia.
Costretto a rendersi gradevole, pur di arrivare in cima alle classifiche cercando di aggiustare il mezzo disastro di un disco infetto come Berlin.
E che, pur di creare disgusto ed orrore, parla di omicidi e di elettroshock. Cercando il suo lato scuro anche in quel fascio di luci, in quell’impasto di sudori e puzza di urina e sesso.
Appeso alla fune della palla a specchi Lou Reed urla come una bertuccia dentro la bolgia del Bottom Line, aspettando che il mondo smetta di ballare e si ricordi di Sally, là fuori, nel parcheggio, chiusa dentro un’auto con le luci spente.
Chissà quanti lo hanno ascoltato per intero.
Forse nessuno, visto che anche Reed ha dichiarato di non averlo mai fatto.
Si sa per certo che dei pochi che si sono avventurati fra i suoi solchi, quasi tutti sono tornati indietro nel negozio di dischi dove era stato comprato, lamentandosi del fatto di aver avuto una copia difettosa, finendo per fare di Metal Machine Music se non un disco di successo, un disco da record.
Metal Machine Music è uno dei tanti dischi con cui Lou Reed decide di farsi odiare.
Lo aveva già fatto in passato e tornerà a farlo in futuro. Ma qui, dentro questi interminabili minuti di rumore assoluto (Metal Machine Music, pur se diviso in quattro psicodrammi praticamente uguali per durata e contenuto, non ha una vera conclusione, visto che il solco finale intrappola la puntina in una spirale senza fine), lo fa con una cattiveria senza eguali.
Lo fa con un disco doppio, perché duplice sia l’inganno.
Lo fa su un’etichetta come la RCA, perché sia un inganno pleateale.
Lo fa mettendo sul retro una posa da rocker, perché sia un inganno consapevole.
È un Lou Reed infinitamente solo, quello che sta sotto la coltre di suono di Metal Machine Music, che diventa davvero il suo primo, unico, disco solista.
Lou Reed lontano dai Velvet, lontano da New York, lontano da ogni altra cosa che non siano i suoi amplificatori, usati per far da specchio alla sua anima da grizzly metropolitano.
Metal Machine Music, nella sua radicale ed estrema apologia del rumore bianco fa tabula rasa del concetto di canzone, liberando la Bestia che si annidava nel corpo delle prime canzoni dei Velvet Underground, affrancando il rumore dal ricatto di poter essere domato da un qualsiasi costrutto armonico.
È il riscatto definitivo del feedback ed è anche la sublimazione pop del proprio lato più perverso e masochista. Chiunque, superato lo scoglio del primo ascolto, avverte la necessità di rifugiarsi nuovamente dentro queste spire ha ovviamente una chiara tendenza all’autodistruzione, un’accesissima necessità di straniamento, un bisogno disperato di trovare un’altra dimensione passando attraverso il naufragio in un oceano di perversione cacofonica.
Un bagno elettrico di risoluta, nazista, feroce violenza psicologica, più che sonora.
Quando adesso qualcuno gli chiede cosa ricordi dei trattamenti di elettroshock con cui i suoi genitori volevano ammansire la sua irrequietezza ed arginare i suoi comportamenti ambigui, Lou riesce a fargli sentire sulla pelle quel ronzio che sentiva percorrere i suoi nervi, in quattro sedute da sedici minuti e un secondo ciascuna. Poi, per un tempo infinito.
Dopo averla torturata, Lou Reed torna a corteggiare la musica con un album che, nonostante il bianco abbagliante della copertina, sembra prediligere la complicità discreta della penombra.
Uscito lindo e profumato dai liquami di Metal Machine Music, Reed si lascia trasportare da una zattera in un rigenerante bagno lungo la foce dell’Hudson, ad osservare l’isola dei conigli e portare a spasso le sue canzoni, camuffandole come dei trans per avvicinare clienti nuovi. Ecco dunque che Walk on the Wild Side e Sweet Jane diventano una Charley’s Girl percossa come una campana da bestiame, le scudisciate di Lady’s Godiva Operation si trasformano nei calci assassini di Kicks e She’s My Best Friend dei Velvet diventa candidamente She’s My Best Friend di Lou Reed.
Sistemato in un albergo dalla RCA, senza il becco di un quattrino, devastato nel fisico e nelle finanze, Lou Reed cede alla vulnerabilità dell’amore.
Coney Island Baby è un disco dove i cori sospirano e le pelli vengono accarezzate dalle spazzole. Dove tutto è amaro e dolce come sembra, in una New York dove i grattacieli toccano il cielo e le loro ombre segnano il tempo sui marciapiedi come lancette enormi di un orologio destinato a schiacciarci.
Mai ascoltare Coney Island Baby con più di due orecchie.
Ma se dovesse capitare, assicuratevi che le altre due siano in
perfetta simbiosi empatica con le vostre.
Per celebrare la prima uscita sotto l’egida dell’Arista, Lou Reed si tinge le mani e la faccia di blu, come Modugno nel suo sogno di vent’anni prima. Una sorta di rituale che ripeterà qualche anno dopo quando, con The Blue Mask, si troverà di nuovo fra le braccia della RCA. Rock and Roll Heart è un disco bugiardo. Un disco che non mantiene quanto promesso da quel cuore che Reed garantisce di voler mostrare e che si lancia subito in un ottimismo così sfacciato e in una dichiarazione di fedeltà alla “good-time music” così sgargiante da puzzare subito di truffa, conoscendo lo sguardo torvo e l’anima di orso di Reed. Per tenerlo buono i suoi comprimari costruiscono una giungla di liane fusion e di ombre jazz.
E Lou sembra compiacersene.
Forse accenna pure un sorriso, chi lo sa.
Forse dorme con la luce accesa, adesso.
Forse non dorme più da solo.
E se non vuole che le puttane caricate in qualche viale vadano via dopo il primo pompino, deve mettere sul piatto un disco che le convinca a restare.
Un disco che esibisca la forma di un cuore.
Non necessariamente il suo.
Lou tiene un solo accordo per undici minuti. Roba da crampi alla mano.
Alle sue spalle, una piccola orchestra da camera intona un’austera marcia funebre che accompagna il delirante racconto di sesso ed eroina raccontato da Lou Reed.
In studio, due microfoni vengono piazzati simmetricamente a raccogliere le gocce del melodramma che cola giù dalle casse, compresi i bisbigli di Bruce Springsteen che si sovrappongono a quelli di Lou.
Street Hassle, la suite spettrale che occupa quasi un’intera facciata dell’omonimo album, sgombra il terreno di gioco dal soul di cartapesta e dalla gioia posticcia di Rock and Roll Heart e torna in qualche modo a lambire i toni tragici di Berlin, mentre altrove Reed si fa beffe delle vecchie produzioni di Steve Katz (Dirt) e cerca di disfarsi in qualche modo del suo stesso fantasma (sputando letteralmente su Sweet Jane in apertura di disco e andando a pescare per l’ultima volta dal canzoniere dei Velvet Underground con una ripresa live di Real Good Time Together).
Un disco altamente inquieto, disomogeneo, scostante, greve, malsano.
Pienissimo di parole. Crude, sporche, incrostate. Tirate fuori con un rivolo di sangue, come dopo un buco.
Lou Reed si pulisce dai depositi di scialorrea ai bordi della bocca e non sorride.
Che disco strambo, The Bells.
Così audace e così banale allo stesso tempo.
Capace di trascinare un pesante fardello come la title-track per poi liberarsi del suo peso in una volgare pista da ballo con un Lou Reed quasi ammutolito da un groove alla Kool and The Gang, capace di mettere a nudo le delusioni e la sfiducia che hanno divorato i rapporti familiari e di cedere la penna, una volta tanto, a qualcuno che con la sua vita non ha poi un granchè da spartire, capace di costruire muri e muri di suono e di tentarne il salto come in una infinita corsa ad ostacoli. Capace di trasformare la voce di Lou Reed fino a profondità mai più toccate, proprio mentre parla di Charlie Chaplin, che era la New York dove la miseria diventava poesia.
Capace di vestirsi di jazz e spogliarsi dentro i camerini di una discoteca, davanti ad uno specchio dentro cui Reed non riesce neppure a guardare.
Infelice, irrequieto, instabile.
La notte lo chiama per un nome che lui fatica a riconoscere.
Non so se Lou Reed abbia mai fatto un solo giorno di palestra.
Se lo ha fatto, però, è stato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Quando, spurgato dalle droghe, mette mano a Growing Up In Public, il disco più muscoloso della sua discografia. Un album che mostra un vigore forse anche eccessivo. Con Reed impegnato a regalare una delle sue prestazioni vocali migliori e la sua band impegnata a costruire un suono polposo e svagatamente mainstream. I fiati prepotenti dei dischi precedenti lasciano lo spazio a tre chitarre e a delle tastiere imperiose. Il suono è più ammaestrato. E del resto quello è il periodo in cui in Reed comincia ad affiorare una ammirazione per lo stile asciutto di Eric Clapton pur senza sconfessare la sua aspirazione più grande, ovvero quella di essere un buon chitarristica ritmico. Liricamente Reed è bravissimo a “manipolare” gli eventi (Standing on a Ceremony, My Old Man, Smiles, How Do You Speak to an Angel) fino a dar loro una parvenza credibile di vissuto autobiografico che non ha però alcun riscontro nella sua cronaca familiare, offrendo un punto di vista decadente a quello che è invece uno dei periodi più sereni della vita segreta del cantautore newyorkese.
Però, come gli ha insegnato mamma, “non far vedere a nessuno che sei felice”.
The Blue Mask è il disco del riscatto. Un ponte lanciato verso il Lou Reed di Transformer lasciando agli altri l’onere di capire se quello era, è, il suo vero volto o solo la maschera indossata per inscenare le voglie capricciose del rock ‘n’ roll.
La presenza di Robert Quine al suo fianco fa sentire Lou nuovamente al sicuro, pronto per mettere nuovamente mano nelle pattumiere di inizio carriera. Incespicando anche con orgoglio, come nella nudità di The Heroine che su consiglio della moglie finisce sul disco spoglia e disadorna, anche se incerta.
Rispolverando quel tono annoiato e quel torpore che sono la sua coperta di Linus.
Un riparo pronto per quando si abbatterà la tempesta. Come quella che, dietro una maschera blu, devasta il cuore del disco.
Di contro, i placati eccessi con alcol e droghe fanno emergere nella poetica Reediana una qualche parvenza di coscienza politica e sociale offuscata dalle nuvole pesanti del ricordo e offrono una visione biografica meno devastante, meno compromessa coi propri demoni. A tratti, addirittura, un qualche bisogno di confessione, di autoaccusa, di tardiva necessità di redenzione.
Dietro una maschera blu si può osare sempre un po’ di più.
Dietro una maschera blu ogni uomo può raccontare la sua storia, senza paura di venire tradito da un brivido più profondo degli altri.
Come per The Blue Mask, sono ancora le avvolgenti linee di basso di Fernando Saunders a fare da collante tra le chitarre di Lou Reed e Robert Quine su Legendary Hearts, il disco che la maschera la sfoggia per davvero, seppure si tratti di un casco da motociclista che dimenticherà di indossare quando, qualche mese dopo, diventerà il triste testimonial degli scooter Honda. Il suono è più stemperato, finanche ammiccante grazie proprio a quelle curve sornione disegnate da Saunders che donano una rotondità quasi erotica a quello che per un bel po’ sarà l’ultimo mucchietto di belle canzoni di Reed, prima del naufragio artistico dei cinque anni successivi. Pow Wow, Martial Law, Legendary Hearts, The Last Shot, Bottoming Out sono piccole perle gettate ai porci che continuano ad aspettare un ruggito che il vecchio leone newyorkese non ha alcuna voglia di esibire. Chiuso nella sua gabbia dello Zoo di Manhattan, fa smorfie davanti lo specchio e sogna una savana senza sbarre di metallo. Poi indossa il casco. E sogna di poter cadere senza farsi del male.
La separazione artistica da Robert Quine non è indolore.
New Sensations ne soffre in maniera evidente.
Del resto, come tutti i suoi coetanei (Springsteen, Bowie, Pop, gli Stones) Reed è costretto a riaggiornare il suo stile ai gusti della nuova generazione.
Sono fondamentalmente questi i motivi per cui nel 1984, joystick rosso in mano, Lou Reed mette sul mercato uno dei dischi più deboli del suo catalogo, arrangiato secondo quei canoni da decennio orgogliosamente spensierato che si respirano nei dischi di quella stagione. Cori da spettacolo in prima serata, batteria di truciolato, ganci chitarristici e un basso che lavora ai fianchi, fino a cedere quasi in chiusura ai ritmi ammiccanti del reggae da chalet in riva al mare.
New Sensations è un album da scampato pericolo.
Un disco che odora di popcorn.
Disco di una pochezza assoluta, Mistrial è una imboscata tesa all’insaputa di Lou (così ci piace pensare) per farlo cadere inerme ai piedi degli anni Ottanta. Batterie elettroniche, chitarre inutilmente gonfie, come nei dischi dei Cars o dei Pretenders di quegli stessi anni e un tentativo abortito di giocare con gli scioglilingua del rap.
Reed si lancia col parapendio dal grattacielo più alto della sua città, sperando la gente comune si accorga di lui, che applauda al coraggio, che alzi le mani al cielo cercando di accogliere quello stage-diving da libro dei guinnes, che il loro applauso copra il tonfo sordo di quel corpo lanciato nel vuoto.
Nel 1989 Lou Reed si riappropria della sua città.
Lo fa con un album diretto ed intenso, segno di una ritrovata ispirazione e di un placato tormento personale ed artistico.
Un disco essenziale, inciso nella stessa sequenza con cui verrà pubblicato.
Lou ha perduto Warhol ma ha ritrovato il vecchio amico John Cale. Un abbraccio temporaneo che si concretizzerà proprio al termine delle registrazioni di New York con l’incisione di Songs for Drella.
Ma soprattutto, ha ritrovato se stesso. Nelle contraddizioni della sua amata metropoli e nello squallore dei suoi ghetti che marciscono all’ombra dei grattacieli.
La città infinita dove tutti sono comparse e nessuno è protagonista, neppure lui.
La città dove tutti sono liberi e tutti sono prigionieri.
Ascoltare New York è come fare un giro in auto assieme a Lou.
58 minuti dentro una scatolona di latta poggiata su quattro cerchi di gomma.
Il muso che spinge avanti nella giungla di semafori lampeggianti e le colonne di vapore e Lou che parla con la sua voce da orso mentre indica un marciapiede, un sottopassaggio, un cortile, una scala antincendio, un ponte, il letame del fiume Hudson, Manhattan, la Statua dell’Intolleranza, la chiesa si San Patrizio.
Sam, Romeo, Susie, Bogart, Sam Leslie, Jeff Rita, Reg, Ethel Bunny, Reg, Tom, Marlon, Carrie, Mo, Jill, Winny, Fran, Jet Boris, Bono, Lucy, Mr. Waldheim, Romeo Rodriguez, Bill, Mike Tyson e infine Andy.
Per l’ultima volta. Sbattuto e malconcio.
La sua ultima tentazione raffigurata dentro una cosa straordinaria come Dime Store Mistery.
Gli occhi di Lou sono carichi di amore, di rabbia e di disincanto.
New York descrive la città che esce dalle macerie del reaganesimo. E viene pubblicato, un po’ per caso e un po’ per una straordinaria congiuntura temporale, dieci giorni prima dalla caduta dell’impero di Ronald Reagan, ovvero la simbolica fine degli anni Ottanta.
Un disco che è una pioggia di parole, come si conviene ad un disco di Lou.
Ma è anche un acquazzone di chitarre urbane e un vortice possente di basso e batteria ossequiose al carisma del poeta benedetto della Grande Mela.
Quante altre parole dovremo ricordarci per dire al mondo che sei stato qui e che noi eravamo con te, Lou?
E se Allah ha buttato giù due torri, quante ne ha buttate giù il nostro Dio?
La striminzita discografia di Reed degli anni Novanta è intrisa di ricordi, malinconie e ultimi saluti. Una trilogia dedicata alla morte è tutto quello che Lou produce in dieci anni che devono aver pesato sull’anima come macigni. La scomparsa di Warhol, l’uomo che aveva amato e odiato Lou più che ogni altro, è l’occasione per ricongiungersi artisticamente con John Cale, rincontrato e riavvicinato in un vuoto d’aria del proprio orgoglio proprio durante la cerimonia funebre che aveva celebrato il commiato dell’artista newyorkese.
Songs for Drella è dunque il disco di un estremo saluto e, assieme, quello di un ricongiungimento che nessuno credeva più possibile. Ed è un disco bellissimo. Essenziale, spartano, straripante di parole e, nonostante il poco con cui è stato realizzato, anche di suoni. Gravido di quelle che forse sono le ultime canzoni-capolavoro del musicista americano (Starlight, le rarefazioni di Open House, Forever Changed, l’incubo Suicide di Images, Slip Away, Work), figlio anche lui come Warhol di Dracula e di Cenerentola.
Un drappo nero copre la skyline di Manhattan.
Dopo Songs for Drella, dove Reed si spartisce il peso della scomparsa dell’amico Andy Warhol con il vecchio compagno John Cale, il nuovo omaggio funebre dedicato alla memoria di Doc Pomus e Kenneth Rapp lo vede completamente da solo davanti allo sgomento della morte. Gli apporti di Mike Rathke, Rob Wasserman (con lui già sul disco precedente) e Michael Blair sono infatti del tutto marginali per grandissima parte di un disco meditabondo e ricurvo su se stesso come Magic and Loss. Un lavoro consigliabile a chi del cantautore americano apprezza il suo lato più confidenziale, divenuto nel frattempo un chitarrista sopraffino, in grado di simulare con le corde del suo strumento il borbottio contorto delle sue viscere o il tenero gesto di una carezza d’addio, che è la Carezza Universale e Definitiva. Quella offerta tra i vapori di Dreamin’, poggiata su un fiore di loto come Harry’s Circumcision o nel catartico e suggestivo finale di Magic and Loss. Gli altri troveranno rifugio tra le pieghe elettriche di Warrior King, Glassed and Stoned e nella seconda porzione di Power and Glory, tutte accatastate sulla parte conclusiva del disco, quasi ad esprimere il desiderio di coprire col rumore il vuoto di quel deserto che sta divorando i ricordi della sua giovinezza.
L’ennesima dichiarazione d’amore per la sua città Reed la pubblica per il San Valentino del 1996, dedicandola di riflesso alla sua nuova compagna Laurie Anderson ma anche alle compagne che si è lasciato alle spalle come Sterling Morrison e Sylvia Morales. Il suono diventa nuovamente più rotondo, restaurando i climi del Lou Reed più conciliante e adottando le soluzioni sonore tipiche del suo stile: ballate (Hang on to Your Emotions con la Anderson impegnata nel ruolo di corista), rock ‘n’ roll basici (la banale Hookywooky), croste di rumore denso (Egg Cream) e i classici mid-tempo dello stile reediano (Adventurer, NYC Man, The Proposition). Confermando il buon stato di salute dell’artista, Set the Twilight Reeling ci mostra però tutto sommato un Lou Reed fin troppo ordinario.
Non un artista emozionale, ma un brand.
Un po’ come quando portate a casa una bottiglia di Coca-Cola. Non avete soddisfatto il vostro bisogno di dissetarvi ma avete assecondato l’esigenza tranquillizzante di avere nel frigo qualcosa che vi dia un rasserenante senso di familiarità. Una benevolenza facile da comprare.
Oggi torno a casa con “un Lou Reed”.
La copertina di Ecstasy, con un Lou Reed in chiara posa orgasmica, l’ho sempre trovata molto buffa. Un po’ lontana dall’icona burbera che noi e lui abbiamo costruito sul personaggio Lou Reed. Un po’ fuori contesto. Forse anche un po’ volgare.
Ma è l’unica pecca che trovo in un disco meraviglioso.
Uno di quelli dove ti sembra di averlo di fronte, Lou. Sul tuo divano di casa. A raccontarti delle sue cose. Storie un po’ vere e un po’ inventate. E te che credi alle une e alle altre. Perché te le racconta lui. A volte con i toni confidenziali di una ballata. Altre volte infiammato da un’urgenza febbrile, come nella tirata Future Farmers of America. Finchè non decide di mandare in risonanza tutta la stanza per diciotto lunghi minuti. E tu ti senti pulviscolo. Cenere. Monnezza. Spazzatura.
“Music from and Insipred by”.
Quante volte lo avete trovato scritto su una qualche copertina di una colonna sonora et similia?
The Raven, ennesima fatica di un uomo stanco, è tratto ed ispirato da POEtry, la spettacolo su Allan Poe portato in scena con la complicità fattiva del registra Robert Wilson. Un disco lungo e complesso.
Un disco pieno di ospiti. Che Reed, nella vecchiaia, non vuole più stare da solo.
E ogni ospite porta qualcosa. Fosse anche un mazzo di rose nere su una delle vecchie poesie di Reed, come fa Antony nell’augurargli un giorno perfetto.
The Raven coniuga l’amore per la parola scritta e narrata tanto cara a Reed con la sua devozione per la musica, sempre più imprevedibile negli ultimi anni della sua vita. Free-jazz, arie da musical, intermezzi sepolcrali, assalti rock, ballate uggiose (Who Am I? è ancora capace di tenere testa alle sue cose migliori, ora che gli anni colorano tutto di una drammaticità più credibile, più pregnante, più nostalgica).
Non è un disco facilmente percorribile, per le tante cose che si porta dentro. E infatti verrà prontamente rieditato in versione singola anziché doppia spurgandolo dei tanti frammenti narrativi e denudandolo quindi in parte della sua anima. Assecondando la nostra propensione alla pigrizia.
E invece The Raven è un disco che richiede pazienza.
Non averne ne pregiudica l’assimilazione, così come la fretta vi rende il piede malfermo.
Per elogiare la virtù della pazienza, della rilassatezza che le è sorella e della meditazione che ne è figlia, Lou pubblica dopo qualche anno un inaspettato disco di musica ambient intitolato River Hudson Wind Meditations: quattro lunghissime, impalpabili tracce create per il raccoglimento propedeutico alla sua nuova passione: il Tai Chi.
Per una strana beffa del destino morirà proprio in una delle sue sedute marziali in solitario.
Lou che era sopravvissuto a se stesso ma non solo.
Passato indenne attraverso le sedute di elettroshock pagate dal padre.
Passato indenne dalle feste sulla 47ma strada di Manhattan.
Passato indenne dalle siringhe di felicità artificiale.
Passato indenne dal feedback di Metal Machine Music.
Passato indenne tra i cadaveri dei suoi più cari amici e dei suoi nemici migliori.
Pregando Dio che lo facesse diventare un buon chitarrista ritmico, e poco più.
Lou che ci lascia mentre contempla gli alberi, prendendosi gioco di noi, il 27 ottobre di un anno più amaro di tanti altri.
Il testamento artistico di Lou Reed è affidato ad uno degli album più spiazzanti della sua discografia. La scelta di affidare ai Metallica le sue canzoni lascia sconcertati sin dall’annuncio datone nell’inverno del 2011. Quando in autunno arriva nei negozi il frutto di quella strana collaborazione la curiosità, lo sconcerto e lo scetticismo hanno il mezzobusto mutilato di un manichino dal nome Lulu.
Un mostro. Come il disco che ne porta il nome.
Un disco incestuoso
Si tratta in effetti della stessa femme fatale interpretata magistralmente da Louise Brooks ne Il vaso di Pandora e riportata in veste funerea nella pièce surreale Lulu di Robert Wilson, per la quale queste canzoni sono in origine pensate.
E’ un matrimonio insolito quello fra Reed e Metallica. Non del tutto riuscito, come molti matrimoni. Uno di quei matrimoni in cui si litiga più del dovuto. Una famiglia in cui volano pentole e ceffoni e raramente svolazza qualche carezza. Una casa dove si urla e si fa chiasso. E spesso, non si capisce cosa si stia dicendo. Come se Lou e i Metallica si parlassero uno sull’altro. E anche se spesso provano a dire la stessa cosa, i due punti di vista sono tuttavia inconciliabili.
Lulu resta un disco confinato nell’incomunicabilità.
Almeno finchè non si staglia, sul finale, quella sorta di testamento che è Junior Dad, disgiunto dal resto del concept in cui, sospeso tra sogno e veglia, Lou evoca i ricordi del padre e delle delusioni che si sono scambiati fino a sostituirsi a lui, sentendo come l’età accorci le distanze e ci riavvicini, rendendoci simili a quello da cui volevamo allontanarci in gioventù.
Venti minuti che valgono l’intero doppio album. Con una coda strumentale in cui la voce di Reed si zittisce, tornando in posizione fetale.
Ardente il mio defunto padre
Ha il motore e sta guidando verso
Un’isola di anime perse.
Di’ ciao al papà minore
La delusione più grande
L’età lo ha avvizzito e trasformato
In un padre più piccolo.
Ciao papà. Ciao Lou.
Franco “Lys” Dimauro