PIRATE LOVE – Black Vodoun Space Blues (Voodoo Rhythm)

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Sixties-punk spiritato, deragliante, caustico e nero come il corvo. Un disco che parte “precipitando”, con una Shake It! che sembra essere stata spinta giù dal decimo piano quello dei Pirate Love, passeri solitari norvegesi che sono andati a svernare in Svizzera, sulla grondaia di Beat Zeller. Questa urgenza si stempera solo episodicamente, come nel bellissimo esercizio tipicamente neo-garage di You Don’t Break My Heart, nella tenebrosissima e super-gloomy Death Trip e nel rock and roll di Ain’t Nothing to Do (A Kiss Hello). Il resto è invece animato da una furia devastante, come se i Morlocks avessero deciso di diseppellirsi con le proprie unghie e poi si fossero avventati sugli strumenti con quelle stesse dita ancora sporche di fango e liquami. E quindi sul nostro collo.    

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE LORDS OF ALTAMONT – presents “The Altamont Sin” (Gearhead)

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L’ingresso in formazione di Michael Davis degli MC5 coincide con l’album più duro e “MotorCity-oriented” dei Lords of Altamont, anche se è più dalle parti della band di Iggy che da quelle dei Motor City Five che il gruppo va a bruciare le carni, pur infilzandole sempre nello spiedo del garage-punk anche se le temperature altissime sfigurano la No Love Lost dei Joy Division in un poltergeist space-rock e lo sterco di Livin Hell puzza come No Fun degli Stooges. Fra i momenti più belli del disco ci sono Make Out Doll, boscaglia diddleyana sferzata da folate di vento elettrico e bordate di armonica, la stessa che taglia come un rasoio la title-track lasciando una scia di sangue sull’asfalto, il garage canonico di Gods and Monsters col suo classico giro fuzz doppiato dal Farfisa e due magistrali reinterpretazioni di Don’t Slander Me del barbuto Erickson e di Gun Called Justice degli altri Lords. Tutto in un bruciante concentrato di musica per bikers e per avanzi di galera.

Altamont soffoca nel peccato come Sodoma e Gomorra, ancora una volta.

                                              

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE FLESHTONES – Stocking Stuffer (Yep Roc)  

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In genere mal sopporto i dischi natalizi. Mi scheggiano i denti peggio del torrone di mandorla. Però ai calzini stesi non so resistere. E così eccomi pronto ad aprire le porte a Stocking Stuffer dei Fleshtones.

Il pretestuoso “concept” natalizio dei Fleshtones non ci risparmia dalle campanelline pur offrendoci il consueto e, vista la ricorrenza, ancora più ottimistico rock and roll caro alla band di Zaremba, azzardando addirittura un riffone che sembra preso di peso da qualche vecchio album degli ACThunderbolt (slash).svgDC, come quello usato nella cover di Six White Boomers di Brown, un quasi-Ramones come Hurray for Santa Claus, un eccellente numero da Farfisa-band come Santa Claus with Bazooka Joe e il classico “american beat” di Super Rock Santa che ci fa sentire davvero aria di casa. Perché Natale è Natale per tutti. Quest’anno anche per i Fleshtones.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THEE EXCITERS – Spending Cash, Talking Trash (Dirty Water) 

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Come diceva Bo Diddley?

Ah, si! You Can’t Judge a Book by the Cover.

E meno male. Perché la copertina dell’album di debutto di questa band di Southampton di certo non invoglia a “spendere denaro” per portarselo a casa. E invece, superato l’imbarazzo, eccoci piroettati dentro uno dei migliori album di garage-punk mai prodotti in Inghilterra, un disco che puzza come il pelo dei Morlocks (sentite un po’ le depravazioni di Guts for Garters o Why Can’t You See) o come le urine stagnanti dei club dove sono appena passati i Gories.

Ogni pezzo, uno schiaffone.

Con classiconi come Ugly Face, Why Can’t You See, Out of My Hands, Bringing Me Down o Pretty, Elegant and Neat e soprattutto Things Ain’t Right che sembra essere caduta lì per strada dalle tasche di una qualsiasi delle grandi garage band degli anni Ottanta e che gli Exciters si sono chinati a raccogliere.

Voi attenti a chinarvi, che magari sono ancora in giro.   

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE BLACK KEYS – Attack & Release (Nonesuch)

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Nell’aprile del 2007 i Black Keys annunciano di essere al lavoro con Ike Turner e Danger Mouse per realizzare un nuovo album. La scomparsa del grande musicista nero lascia però incompiuto quel sogno. Non è dato sapere se il tono generalmente affranto del loro quinto album sia dunque legato a quella vicenda o se Attack & Release sia già stato pensato così al momento della sua ideazione fatto sta che il nuovo album si scosta da quanto prodotto dal duo di Akron fino a quel momento. Non tanto a livello di suono ma quanto sul piano del mood: il blues diventa filigranato ed opalescente ma anche più torbido e “dolorante”.

Il suono scolpito di Magic Potion si increspa, anche grazie al contributo di Marc Ribot e alle sue finesse chitarristiche, e si addobba come per una lieta festa adombrata però da una ferale notizia con clarinetti, armonica, moog, qualche fiocco di elettronica e qualche amica chiamata a condividere al microfono la sua gioia e il suo dolore.       

Le peculiarità del gruppo non vengono affatto ricusate ed emergono evidenti in pezzi come I Got Mine o Same Old Thing ma vengono, per così dire, riaggiornate e filtrate da un’attitudine più meditabonda derivata dal folk rurale oppure, episodicamente, sfibrate dentro una sorta di garage-rock (come nella bella Remember When che apre la seconda facciata oppure su Strange Times) alla lana di vetro.

Attack & Release diventa così la “Big Pink” dei Black Keys. Quando usciranno da lì (quasi) niente sarà più come prima.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LILITH AND THE SINNERSAINTS – The Black Lady and The Sinner Saints (Alpha South)  

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Non puoi disfarti dal peccato se non hai pentimento vero. Lilith, la “Signora Nera” dei Not Moving di Sinnermen torna dunque a circondarsi di peccatori, evoluti dallo stato larvale di uomini a quello di santi. Lilith non si è pentita. Infila la cannuccia nella sua coppa di fiele e assenzio e sugge a piccoli sorsi. Poi mette qualche ciuffo di muschio e tabacco nella pipa ed aspira a grandi boccate e si schiarisce la voce. Quindi si infila nello stagno, lei anatra nera, a tossire veleno in uno specchio d’acqua pieno di oche starnazzanti.

I Sinnersaints che la accompagnano sono un’accolita di gente che pratica il malaffare musicale, l’avanspettacolo decadente dei locali parigini e della Germania nazista, il fango blues che il Mississippi abbandona come pelle secca della muta del suo corpo di serpente quando le sue acque si ritirano, i ratti grigi che si muovevano tra i capannoni industriali di Detroit e le periferie di Londra, l’immorale jazz dai mille sospiri e dalle mille folate di fumo sparse come incenso nelle stanze da letto di mille amanti incestuosi, la musica delle borgate italiane e sudamericane che sono terre di conquista che nessuno vuole conquistare.  

Tutta gente dalle facce legnose che quando sorride lo fa malvolentieri, con l’alito pesante e il ghigno di chi conosce il gusto del peccato.

Tutta gente che conosce così bene il suo strumento da limitarsi a corteggiarlo perché lui tiri fuori la sua anima struggente.  

Si riuniscono come piccoli grumi di sangue attorno a Lilith per realizzare un disco borderline e viscerale come The Black Lady and The Sinner Saints. Pieno di nuvole nere. Di nera speranza. Di nera felicità.  

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE JIM JONES REVUE – The Jim Jones Revue (Punk Rock Blues)

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Jim Jones è un cane bastardo.

Uno che ha scopato con gli spiriti e respirato la condensa dentro i cellophane dei vinili di Stooges, Blue Cheer e Sonics. Con gli Hypnotics prima, con i Black Moses dopo. È ora la volta della sua band più rock ‘n’ roll.

Rock ‘n’ roll marcio per la precisione.

Ricordate i Sonics che a Tacoma polverizzavano gli standard di Little Richard o gli Stones che seppellivano il blues dentro le quattro facciate di Exile on Main St.? Ecco, siamo lì. Il feedback degli Hypnotics è definitivamente evaporato e ora Jim gioca con un boogie feroce e massacrante spalleggiato dal picchiettio honky tonk di Elliot Mortimer, un londinese che sfascia il suo piano e ripara quello degli altri, sulla St. Margarets Road di Twickenham.

Fish 2 Fry è l’incontro definitivo tra gli Stray Cats e i Count Five: teddy boys e ragazzini psicotici che abusano di uno standard hillbilly.

Who‘s Got Mine è Northwest-punk suonato dalla gang di Arancia Meccanica dopo uno stupro di branco.

Cement Mixer è uno stomp coperto dalle bave di Jon Spencer e dell’Iguana.

Iggy Pop è Dio. Lemmy è Dio. Jim Jones è Dio.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

THE TREMOLO BEER GUT – Nous sommes The Tremolo Beer Gut, qui le fuck ètes-vous? (Crunchy Frog)

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Cinque dischi tra singoli, album e raccolte. Tutti con la stessa foto di copertina, come fosse l’unica che i Beer Gut abbiano fatto. E chi lo sa, potrebbe anche darsi.

Anche il suono è sempre rimasto, negli anni, sempre uguale tanto da farne una piccola istituzione della surf-music autoctona su nella lontana Danimarca. Da noi vanno poco oltre lo status di cult-band, però i Tremolo Beer Gut sono bravi davvero, molto più di altri che professano analoga fede nel tremolo. Conoscono i trucchi del mestiere che però da soli non bastano a fare un buon artigiano, e così i quattro teppisti danesi farciscono il tutto con un po’ di sana e a volte macabra cattiveria, man mano che si avventurano nei consueti paesaggi ormai canonizzati del genere (le spiagge, il deserto, le pianure lunari, le giungle esotiche, le dune mediorientali, le case infestate, il ciottolato calpestato dai serial killer). E così ecco che pezzi come Delirium Tremolo9 Times the PainThe Motherfucking GJunkie ToolsDamn RightZoo BizarreOpium SvengaliNosy Parker centrano il bersaglio ripetutamente e ci imprigionano alla musica sci-fi/surf del quartetto, facendoci saltare come primati da una liana all’altra. Ingannando l’attesa per la prossima, identica foto.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DEL-VETTS – The Del-Vetts (Sundazed)

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Organizzati a forma di album vero, i cinque singoli dei Del-Vetts fanno un figurone.

Allora, a metà degli anni Sessanta, non ce ne fu tempo. O voglia. O entrambi.

La band di Chicago trovò però il tempo di cambiare nome in Pride & Joy per la parte conclusiva di carriera, quella che con We Got a Long Way to Go si avvicinava pericolosamente al chamber-pop e alla bubblegum che stava disorientando la scena di quegli anni. Gli inizi invece, quelli non documentati ne’ qui ne’ altrove, erano piantine cresciute all’ombra del grande platano di zio Chuck e smorfie strumentali come quelle degli eroi muti del surf, che avranno giustizia con la cover di Ramcharger dei Ventures finita sul loro singolo del 1965. Poi erano arrivati alle loro orecchie gli Yardbirds, i Count Five e i vicini di casa Shadows of Knight, e la band si era trasformata in una piccola legione di matricole con in mano un fuzz da lanciare verso il bersaglio.

Il bersaglio glielo porge l’amico Dennis Dahlquist. Loro devono solo sporcarlo.

E ci riescono benissimo.

Last Time Around è uno schizzo fuzz fra i più belli di tutta l’epopea Nuggets e, pur nella sua furiosa scorribanda alla Jeff Beck, riesce a fruttare al gruppo un tale successo che la STP si fa carico di finanziare la stampa del loro singolo successivo.

Qui viene giustamente messa in apertura, in modo che appena dischiudi la porta ti trovi i piedi infilati in un cespuglio di rovi. Che poi vengono via via districati sulle otto tracce successive e che provano a simulare una piantina d’arredamento su If You’re Ready, furba versione al miele della stessa struttura melodica. Ed è tutto davvero un piccolo giardino di meraviglie. Anche se quei rovi spinosi e rampicanti di Last Time Around restano una meraviglia punk così bella da volerci rimettere i piedi ancora una volta.

Un’ultima volta.

Fight it, help me fight it!  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CHRIS WILSON AND HIS SHAMELESS PICKUPS – Second Life (Flamin’ Groovy)

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Jah. Proprio lui. Il sostituto di Roy nei Groovies ed in parte il responsabile della svolta “pop” seguita a Teenage Head. Il suo nuovo disco solista dopo anni di silenzio suona però come il disco di un reduce con qualche banale storiella da raccontare agli amici del Circolo dei Veterani.

Solo, non gli riesce più di inventarne di nuove.

E anche se porta con se il suo compare Anthony Clark dietro garanzia di qualche discreta idea per riempire un nuovo taccuino e se i suoi vecchi compagni del Fronte hanno assicurato la presenza dei nipotini, di questa “seconda vita” manco l’ombra.

E del resto una dovrebbe essere già sufficiente per capire quando è il momento di tacere e di regalare la Rickenbacker al nipotino. Per Chris questo momento è arrivato e il suo nuovo album ne è la prova. Non una-canzone-una che esca dal mucchio e ostenti una sua personalità, un suo fascino, un suo carisma.

E i reduci prendono le seggioline e se ne tornano a casa.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro