THE FALL – Perverted by Language (Rough Trade)

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Perverted by Language si apre avanzando sui cigoli: Eat Y’Self Fitter è una marcia ieratica di quasi sette minuti che avanza come un carro armato, con Mark E. Smith in torretta, a sparare una continua randellata di parole. La ripetitività caratteristica dei Fall assume forme inaudite che verranno confermate lungo tutto l’album che segna il timido ingresso in formazione della neo-moglie di Mark Laura “Brix” Salenger, introducendo anche la novità (affatto ben gestita) della voce femminile protagonista di Hotel Blöedel.

Si tratta, nella maggior parte dei casi, di lunghe dissertazioni, alcune delle quali raggiungono il tempo limite di nove minuti. Enormi cespugli di rovi da cui è impossibile uscire privi di graffi, esenti da qualche prurito, da una prurigine, da una dermatite sia pure di natura allergica. La musica dei Fall, pur nella sua natura intimamente disgregante, ambisce ad una forma statuaria che qui raggiunge il suo apice su Tempo House, con un giro di basso usato come una Flintmobile su cui l’intero gruppo spinge coi piedi fino a schiantarsi da qualche parte, in una strada poco illuminata qualsiasi, nel nord dell’Inghilterra.

Chi verrà a recuperare il corpo dei Fall? Chi scolpirà di suo pugno un distico sotto la loro lapide, per spiegare che le bacche amare erano state alla fine raccolte e che non era stato Apollo a staccarle dai rami?

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JOE JACKSON – Mike’s Murder (the motion picture soundtrack) (A&M)

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Il Joe Jackson che torna a scrivere musica dopo il bagno terapeutico nel mondo dello swing è un Joe Jackson nuovo, archetipo di quello che la sua musica sarà da quel momento in poi, fatte salve alcune estemporanee escursioni in altri territori.

Il successo di Jumpin’ Jive gli apre il mercato americano, tanto che a pochi mesi da Night and Day (altro tributo alla musica americana, quella di Gershwin in particolare) gli viene commissionata la colonna sonora di Mike’s Murder, banco di prova per il nuovo repertorio, quello con gli angoli smussati dal jazz, in particolare quello elettrico di Booker T e quello pianistico di Henry Mancini, senza dimenticare la grande lezione degli Steely Dan che qui viene rielaborata nel lungo serpente tropicale di Zemeo.

Joe Jackson fa praticamente tutto da solo, con l’ausilio di una pregnante sezione ritmica che ha il compito di dare un gusto esotico (sud-americano nella fattispecie) all’insieme. Nonostante la “marginalità” del prodotto, relegato appunto nel novero delle colonne sonore, Mike’s Murder è un grandioso e già solido approdo al cantautorato raffinato del Joe Jackson dei dischi che verranno e che porterà il musicista ad elaborare un easy listening di grandissimo pregio.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JASON AND THE SCORCHERS – Still Standing (EMI America)

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Still Standing segna in maniera indelebile ed evidente il momento della gentrificazione del cow-punk americano: le chitarre assumono smorfie da sleaze rock, la ritmica si fa incalzante e muscolosa, la voce solista cerca di adattarsi ad un ruolo da primattore finendo, come nel caso degli Scorchers, per creare un ibrido fra il vocalismo rockabilly e quello da performer da arena. È dunque una musica “di compromesso” che cerca di abbeverare il roots-rock non più nei pantani e nelle paludi ma negli abbeveratoi a parete delle stalle a stabulazione fissa.

Macroscopico sintomo di questo approccio è la cover di 19th Nervous Breakdown degli Stones che arricchisce la scaletta del secondo album della band di Nashville, ruggente di chitarre alla Hanoi Rocks. Allo stesso tipo di “trattamento” è sottoposto anche il materiale autoctono (ascoltare per credere Ghost Town o Shotgun Blues, quasi degli inni da biker che poco trattengono dei liquami roots del primo album, NdLYS), dimostrando come anche l’ultima strada di Nashville, quella da cui il gruppo spedisce la sua cartolina in chiusura dell’opera, sia stata ormai asfaltata.  

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE WAILERS – Burnin’ (Island)  

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Il primo standard dei Wailers apre il sesto album del gruppo. Si intitola Get Up, Stand Up e, a formazione ormai disintegrata, verrà reincisa in proprio sia da Peter Tosh che da Bunny Wailer nei loro dischi solisti del ’77. È un pezzo dall’andamento svagato e ondeggiante con una linea di basso decisa e rotonda molto simile alla Slippin’ into Darkness registrata dai War due anni prima e che invita alla rivendicazione dei propri diritti sociali, tanto da venire adottata da Amnesty International come proprio inno e slogan ufficiale. Rispetto alla precedente produzione dei Wailers, Burnin’ ha un tono barricadero che serve da testa d’ariete per penetrare il mercato bianco, grazie a canzoni come quella d’apertura ma anche I Shot the Sheriff e Burnin’ and Lootin’ ma è anche il disco in cui la fede religiosa e la spiritualità sono chiamate a giocare un ruolo fondamentale (Pass It On, Hallelujah Time, Put It On, Rastaman Chant) nella crescita personale e collettiva, un valore da cui non si può prescindere. Quella di mitigare le istanze rivoluzionarie con una forte dose di mistica benevolenza è una scelta voluta, tanto che il gruppo va a recuperare canzoni vecchissime (Pass It On era stata addirittura scritta da Wailer prima della nascita ufficiale del gruppo, NdLYS) o canti tradizionali giamaicani. Una scelta consapevole e felice che legittima i Wailers e Marley come i portavoce delle istanze sociali della loro terra, custodi delle proprie radici e credibili ambasciatori del re Selassiè.         

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE MONOCHROME SET – The Lost Weekend (Blanco Y Negro)

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Dopo aver firmato il loro capolavoro i Monochrome Set sembrano adagiarsi sugli allori e, con la complicità di John Porter, cercare di “istituzionalizzare” il loro suono, di renderlo in qualche modo classico, sciupando nei fatti quella discrasia preziosa dei loro primi dischi.

Benvestiti (TROPPO benvestiti, come su Letter from Viola e Don’t Touch), Bid e compagni perdono molto del loro fascino. E anche vestiti con gli abiti del Presley di Viva Las Vegas (Jacob’s Ladder) in realtà sembrano confondersi fra i tanti concorrenti all’ennesimo Elvis-raduno, seppure non siano fra i peggiori. The Lost Weekend segna dunque una retrocessione, secondo la scala Becker, da artisti naif a professionisti integrati, senza peraltro godere del successo sperato e tradendo dunque l’orizzonte di aspettative che ne provocherà la scissione.

Anche il tentativo di affiancare la vettura degli Smiths e di tentare lo speronamento (la bella The Twitch, che avrebbe meritato miglior fortuna, e il melodramma esistenziale di Wallflower, per tacere della Starry Nowhere che è già tutto il Morrissey solista che verrà, NdLYS) non darà frutti in termini di popolarità e bisognerà attendere l’irruzione nella stanza dei diamanti di Edwyn Collins perché il presupposto di questo ricercato mélange pop trovi compimento e successo.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SWANS – The Beggar (Young God)

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Specimen assoluti del gotico, gli Swans proseguono la loro marcia ipnagogica che ci conduce a quella fase onirica che innesca la valvola dell’incubo e ci introietta in una labirintica e affannosa corsa verso una qualche via d’uscita che troveremo solo dopo due ore.

Due ore e un minuto, con esattezza.

Tanto dura infatti The Beggar, l’impegnativo album del 2023 che è una città di ghiaccio su cui Michael Gira impera da monarca assoluto, nonostante si tratti in realtà di una versione ampliata (nell’organico e nei pezzi) di quanto realizzato in solitudine durante la pandemia col titolo di Is There Really a Mind?, realizzato con il contributo economico dei fans. L’”aggiunta” riguarda sostanzialmente la lunghissima The Beggar Lover, quarantaquattro minuti di trance ipnotica in cui le note tirate all’inverosimile, le voci stregate e i cori cherubini creano un inquietante stato di OBE, di fuga dal corpo, una Rundetårn attraverso cui puoi ascendere verso il cielo o scivolare in una spirale discendente verso gli inferi.

Gli Swans sono l’unica band al mondo capace di denudarsi di fronte alle fiamme della trascendenza. Di lanciarsi nel fuoco e di bruciare all’infinito.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SLAUGHTER AND THE DOGS – Do It Dog Style (Decca)

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Mick Ronson era l’eroe di Mick Rossi. L’uomo dalle forti braccia che lo aveva ispirato in tutto, anche nella scelta del nome della sua band. E alla fine, quando era giunto il momento di mettere mano ad un intero album sponsorizzato addirittura dalla Decca, Mick era riuscito a trascinare il suo eroe in studio per dargli qualche dritta durante le registrazioni e, quando le ditte non bastavano, ad imbracciare la sua chitarra per dare ai pezzi la giusta inclinazione.  

Autori di uno dei più grandi anthem punk dell’anno precedente (e, aggiungo, di tutta la storia del punk britannico, NdLYS), Slaughter and The Dogs sono in realtà già a corto di idee e Do It Dog Style vive in realtà di luce riflessa, come se lo specchio magico di Cranked Up Really High si fosse frantumato e la band adesso cercasse di mettere insieme i cocci in un grande mosaico di vetro riflettente. Il risultato non è un potenziamento di quella prima, folgorante esplosione di luce ma il rielaborato di una sua porzione di riverbero luminoso riprodotto una dozzina di volte. Il risultato tuttavia è più che dignitoso, con la sua carica hooligan vicina a quella dei Pistols e i suoi richiami al passato manifesti (Who Are the Mystery Girls, Quick Joey Small, I’m Waiting for the Man) o sottesi (il glam alla Spiders from Mars di Keep on Trying, la forza centripeta alla MC5 di You’re a Bore) e una nuova serie di maniacali e sguaiate smorfie come Boston Babies, Victims of the Vampire, I’m Mad, We Don’t Care.

Slaughter and The Dogs costruiscono il ponte fra il glam-rock e il punk. Poi, una volta passatici sopra, lo bruciano.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE JACK CADES – Something New (Beluga)

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L’apertura del nuovo album dei Jack Cades è leggermente fuorviante, lasciando tracimare la volontà di lambire i territori del surf strumentale che era finora un territorio vergine per la band inglese. Ma già la successiva Free Advice raddrizza il tiro e si torna a sparare sui medesimi bersagli del disco precedente, con ancora più convinzione e una più marcata inclinazione garage-folk (Chasing You, Electric Messiah) seppur senza mai affondare decisamente i denti e cercando una sorta di docile e ancora una volta riuscito raccordo fra il suono di San Francisco e quello dell’indie britannico degli anni Ottanta. Il risultato è un suono bucolico ma effervescente. Nulla di nuovo, a dispetto del titolo, ma un’ottima conferma dello stato di salute dei Jack Cades.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

EPIC SOUNDTRACKS – ‘Sleeping Star’ (Troubadour)

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In effetti è proprio una stella dormiente, quella che Epic Soundtracks esibisce sul secondo album, prediligendo il canovaccio un po’ abusato della ballata, soprattutto quella un po’ melliflua fatta di pianoforti e, tanto per esagerare con la glassa, esposta a qualche acquazzone di violini o alle luci della ribalta, come si trattasse di una big band da esporre allo scroscio degli applausi.  

‘Sleeping Star’ è un disco a passo di lumaca, come se Kevin Paul Godfrey avesse davanti tutto il tempo del mondo. E invece…

Un lavoro malinconico, che le versioni aggiuntive di questa ristampa accentuano con delle “riprese” del musicista in piena solitudine. L’unica audacia che il musicista inglese si concede è quella di qualche coda luminosa come quella delle comete, che solcando il cielo ci ricordano com’erano belle quando stavano in cielo, mentre invece stanno andando a morire. O, come dice Epic, a dormire.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SMASHING PUMPKINS – ATUM – A Rock Opera in Three Acts: Act Three (Martha’s Music/Thirty Tiger)

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Atto conclusivo (stavo per scrivere terminale, ma alla fine il cadavere si è inaspettatamente mosso, NdLYS) della trilogia ATUM e, come accennavo fra l’abbraccio della punteggiatura, la salma degli Smashing Pumpkins sembra ancora respirare. Come se il triceratopo avesse trovato alla fine un bacino d’acqua dove rigenerarsi e quel sollievo fosse anche un po’ il nostro. Non è un disco sgombro dagli eccessi che l’hanno a lungo preceduto ma fra i tre è quello che funziona meglio sia a livello episodico che a livello d’insieme. Riemergono i vecchi Pumpkins e fra il gioco d’ombre ecco anche apparire le sagome dei Cure e dei Cult in certi arpeggi cari sia a Porl Thompson che a Billy Duffy. E ovviamente emerge anche l’inquietudine stilistica, la schizofrenia che da un po’ di anni ha caratterizzato la band anche se stavolta in maniera più misurata e limitata ad alcuni episodi, quasi tutti assembrati nella seconda facciata (quando ci sarà una facciata) dell’album. Un po’ come se guardassero la Terra con nostalgia, dall’astro in cui sono finiti a far compagnia ai Rockets.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro