GEORGE THOROGOOD AND THE DESTROYERS – George Thorogood and The Destroyers (Rounder)

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Preso dal diavolo del blues a cavallo della sua Epiphone. George Thorogood irrompe nelle scene nel 1977 assieme ai suoi Destroyers ricollocando il blues nella tassonomia del rock proprio nell’anno in cui ovunque esplode la scena che, nella lettura distorta che se ne fece (e che se ne continua a fare) voleva rompere i ponti col passato. L’operazione ricorda, per attitudine e in parte anche per i risultati, quella avviata nel medesimo periodo (ovvero alla metà degli anni Settanta, anche se il primo materiale registrato dal chitarrista del Deleware vedrà la luce solo anni dopo) in Inghilterra dai Dr. Feelgood: un suono turgido e vigoroso, in cui anche la destrezza è messa al servizio di un sound senza fronzoli e le “lungaggini” (come quella della torrenziale cover di One Bourbon, One Scotch, One Beer) sono funzionali alla fermentazione del climax sonoro.

I suoi (pochi) esercizi di scrittura si inscrivono perfettamente nell’immaginario evocato dalle cover disseminate su disco che vanno dal blues alle ballate da folk-singer senza tralasciare il jungle-beat di Sua Maestà Bo Diddley, con una cavalcata magistrale come Deleware Slide che è già dal titolo una eloquente tag autoreferenziale e dentro il cui macinino vengono tritati decenni di chicchi blues neri come la pece.      

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ULTRAVOX! – Ultravox! (Island)

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Non ho idea di chi abbia sfilato l’armonica dalle labbra di John Foxx. Fatto sta che passò così velocemente che quasi nessuno se ne ricorda più, eppure fu proprio in virtù di quello strumento che il loro album di debutto ingannò per un paio di minuti gli ascoltatori riesumando lo spirito dei Dr. Feelgood prima di mostrarsi per quel che era: un art-rock decadente che prendeva dai Roxy Music e cercava di adattarlo alla nuova epoca, scavalcando il cespuglio punk senza inciampare nei suoi rovi.

Erano, per farla breve, gli Ultravox! col punto esclamativo.

Il vecchio che avanzava vestito di nuovo.

Quelli con dentro un pezzo come I Want to Be a Machine che, a dispetto del titolo che presagiva chissà quali pirotecniche sintassi elettroniche, era un residuato bellico della prima metà degli anni Settanta con tanto di violino, già vetusto quando i Pink Floyd lo avevano provato a tirare fuori dalle acque del Tamigi il mese prima, proprio davanti alle bocche assetate della Battersea Power Station.

Quelli del reggae scomposto di Dangerous Rhythm e di The Wild, the Beautiful & the Damned che invece è quasi un prequel della big music raccontata anni dopo dai Waterboys e devastata da uno dei peggiori solo di chitarra che mano d’uomo abbia mai suonato.

Quelli della desolata My Sex degna del Bowie più funereo e della Wide Boys che invece prendeva in prestito quello glam di Rebel Rebel per costruirne la gemella.

Quelli che forse era meglio non togliere l’armonica. E che avevano progettato il futuro con i residuati dei tanker abbattuti dalla guerriglia punk.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE VIBRATORS – Pure Mania (Epic)

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L’immensa influenza che il pub-rock aveva avuto sul punk inglese è percepibile nel debutto dei grandi Vibrators, capaci di coniugare quello spirito (e quello altrettanto basilare ed essenziale del beat e del power-pop) con la nuova immagine teppista del punk. Ne esce fuori un documento come Pure Mania, coi margini ripiegati su sé stesso. I Vibrators si tengono a distanza dal punk politicizzato così come dalla furia anarcoide dei Pistols e lavorano su strutture in realtà già abbastanza “praticate” nel periodo proto-punk che li fanno apparire quasi obsoleti e retrò, soprattutto quando adottano le dinamiche del corteggiamento un po’ “oldies” nella, peraltro bellissima, Baby Baby che è tutta agghindata come ad un primo appuntamento romantico. Il resto porta l’effige della rozzezza che era propria del punk ma pure, come dicevo, del pub-rock.

Pure Mania si muove in quella intercapedine, prestandosi al ruolo di giovani punk ma portando avanti l’antica narrativa dei cuori spezzati e delle pratiche del rimorchio vecchia quanto il mondo. Non solo quello del rock and roll.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DICTATORS – Manifest Destiny (Asylum)

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Handsome “Dick” Manitoba si impossessa del microfono a tempo pieno per il secondo album dei Dittatori newyorkesi relegando Andy Shernoff al ruolo di terzo vocalist (in ordine gerarchico è il nuovo batterista Richie Teeter ad assumere il ruolo di seconda voce solista, in almeno un paio di episodi, NdLYS) e, visto l’ingresso in formazione di Mark Mendoza al basso, di tastierista.

Un riassetto di line-up che coincide anche con una morfologia stilistica leggermente variata rispetto al disco d’esordio, col tentativo di approcciare anche certi toni da melodramma glam alla Queen (la parte centrale del disco costituita dal trittico Disease, Hey Boys, Steppin’ Out) e di saltare, mettendo il piede in falla, dalla marea pervasiva della fanciullezza alle pozzanghere obsolescenti dell’età adulta, salvo riscattarsi nella fase conclusiva del disco ripiombando in una vertigine proto-punk coronata dalla cover version di Search & Destroy.

La sfacciata esuberanza del disco di debutto viene dunque mutilata in favore di un arrischiato approdo in zona arena-rock che mal si addice alla tuta da wrestler di Manitoba e anche alla mia tuta da argonauta del teenage-rock dando l’impressione che i Dictators vogliano crescere in fretta, lasciandosi dietro il marcio del Bronx per un posto su qualche tipo di podio, qualunque esso sia.   

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

CHROME – Alien Soundtracks (Siren)

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Rifletteteci….

Quante foto dei Chrome avete visto in vita vostra?

Una? Forse due?

Magari siete stati davvero avidi e tenaci e ne avete viste tre o quattro.

Ma davvero non di più.

Fate mente locale e fate i vostri calcoli.

I Chrome non avevano un’immagine pubblica ma un immaginario.

Un immaginario fortissimo di identificazione con l’alieno che fa paura, l’ignoto mutante che viaggia di galassia in galassia, il truce viaggiatore del cyberspazio, il dirottatore delle sonde interplanetarie.

Vascelli pirata.

Pattumiere interstellari dove giacciono le scorie di satelliti che non avranno mai nessun porto d’attracco.

L’Universo Parallelo.

Svegliati Neo. Matrix ha te. Segui il coniglio bianco.

Alien Soundtracks, il dissestato album che dopo i tribalismi marocchini di cui è disseminato il disco di debutto apre il varco all’ingresso di Helios Creed sulla nave spaziale di Damon Edge: è la torre di Babele del Sistema Solare.

Suoni sovrapposti, frequenze dissonanti, fruscii, feedback futuribili, lerciume elettrico, fusibili che fondono, sibili di cherosene, lamiere soffocate dal ghiaccio.

The Monitors suona come se l’astronave degli Stooges di Fun House fosse andata ad impattare con quella degli Hawkwind di In Search of Space mentre la filastrocca demenziale di ST37 sembra rimettere in sesto le “macchine” di Lothar and The Hand People, Slip into the Android è una sinfonia dislessica, un tritacarne dove vengono maciullati i corpi del prog-rock e del free-jazz, Chromosome Damage sono i Germs chiusi nella cabina di pilotaggio mentre Darby Crash sputa sul finestrino, All Data Lost è il rumore del vostro hard disk che fonde e va in loop mentre ascoltate Are You Experienced?.

Un groviglio parossistico di psichedelia, progressive, krautrock, motor city sound, space rock, di Grateful Dead e Brian Eno, di Frank Zappa ed MC5, di Faust e Jimi Hendrix, di Destroy All Monsters e Gong.

Un concept album svitato e zappiano sulle avventure di Pharoah Chromium, un alieno abitante del pianeta Grux.

Del resto Helios Creed, hawaiano di nascita e californiano di adozione, è uno che vanta almeno due o tre “incontri ravvicinati” con marziani e venusiani.

Molto più probabilmente li ha solo sognati, e ora brama di dipingerli in musica.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

RINO GAETANO – Aida (It) 

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Aida è nome di donna ed è nome di patria. Figlie entrambe, pur senza volerlo, dell’epoca fascista. Aida è il titolo dell’opera di Verdi che ha come teatro il Corno d’Africa che saranno predate dai sogni espansionistici mussoliniani e Aida è il titolo e la protagonista del terzo album di Rino Gaetano, seduta di spalle accanto alla bandiera italiana e a quelle dei suoi vecchi e nuovi alleati, a guardare un mare che, come il cielo, è “sempre più blu”, un disco pubblicato nel giugno del ’77, esattamente a ridosso di quella famosa stretta di mano fra Berlinguer e Aldo Moro che avrebbe sottoscritto formalmente il “compromesso storico” tra “Cristo e Stalin” cui Rino Gaetano, nell’ennesimo, inquietante, inspiegabile presagio del futuro di cui amava infarcire le sue canzoni accenna fra le righe del testo del pezzo che, proprio citando la marcia trionfale dell’opera di Verdi, ci introduce al suo terzo album in una serie di istantanee e di doppi sensi allegorici che riassumono la storia italiana dal ventennio fascista fino allo scandalo Lockheed dell’”antilope” Andreotti. La storia dell’Aida del cantautore calabrese è la storia di un’Italia che va in frantumi mentre cammina sui cocci della sua storia passata, la storia di un grande circo dove i cantautori (Guccì(ni), Vendì(tti), Vecchiò(ni), Dallà) sono chiamati a tenere alto il valore morale di una penisola schiacciata dalle malefatte dei nuovi pirati in doppiopetto o in abito corale Juan Lyon (Giovanni Leone), July Andreotten (Giulio Andreotti), Halde Moore (Aldo Moro), Emyle Coulombe (Emilio Colombo), Maryanne Roumorh (Mariano Rumor), Donaccatten (Carlo Donat-Cattin), Fanfonfanfan (Amintore Fanfani), Papammontin (Paolo IV), la storia di un paese che cerca di galleggiare sul suo fallimento affogando nel mare del consumismo più sfrenato o affidandosi alla Dea bendata, la storia di un paese in cui dagli errori passati si finisce per non imparare mai ma vengono anzi tramandati come regole di vita da padre in figlio, perpetuando quel rosario di stereotipi e di luoghi comuni snocciolati ad esempio su Ok papà e che, molto più dei libri di scuola, formano le nuove generazioni sul qualunquismo delle generazioni precedenti formando quella società borghese che ne costituisce la fetta sociale più numerosa e più influente. La storia, per ultimo, di un paese dove gli indizi sono sempre troppo pochi per poter costituire una prova chiara di colpevolezza, restando nell’ambito del sospetto, del chiacchiericcio giornalistico, delle sentenze mai passate in giudicato, delle arringhe basate su “Rare tracce” di qualsiasi cosa.

Musicalmente Aida è un disco sicuramente più avventuroso ed elaborato dei precedenti, con autentici grovigli strumentali come Rare tracce e Spendi spandi effendi, l’aria svagatamente medievale di Sei ottavi, le divagazioni un po’ leziose di La festa di Maria e Fontana chiara. Perché Rino è uno che vuole fare le cose per bene, nonostante voglia salvaguardare il suo linguaggio semplice ma ricco di allusioni e di riferimenti all’attualità che saranno l’archetipo taciuto ed inconscio su cui si fonderà gran parte del linguaggio dei rapper che nel ’77 non erano ancora nati e che avranno proprio in Gaetano uno dei pochi padri spirituali di pelle chiara.      

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ULTRAVOX! – -ha!-ha!-ha! (Island)

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Il dubbio di aver sprecato un’opportunità venne a tutti: alla band, all’etichetta, allo stesso Brian Eno che aveva tentato di fare degli Ultravox! i nuovi Roxy Music. E la corsa ai ripari fu veloce: il secondo album degli Ultravox! uscì appena otto mesi dopo, cercando di acciuffare quel 1977 che stava già finendo e che loro avevano inaugurato con un disco di vecchio pattume riciclato.

-ha!-ha!-ha! suona dunque, paradossalmente, più punk del debutto. E al medesimo tempo più innovativo, che è quel che la band si era prefissata come scopo e che invece aveva poi buttato alle ortiche.

Young Savage, ROckWrock, The Frozen Ones, Fear in the Western World sono quel colpo di coda punk che mancava sull’esordio e che in The Man Who Dies Everyday e While I’m Still Alive diventava più sofisticato e anche più convincente. E se Artificial Life rappresentava dove erano stati poco prima (ovvero i Roxy Music), Hiroshima Mon Amour anticipava dove volevano andare subito dopo, e dove sarebbero presto andati: verso un synth-pop un po’ aristocratico e sempre più glaciale, completamente svincolato dalle vecchie “macchine” rock.

Il punto esclamativo, dopo essersi replicato in una risata amara, stava per essere abbattuto definitivamente.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DAMNED – Music for Pleasure (Stiff)

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Spinti dalla provocazione ideologica dei Sex Pistols e dalla famosa T-shirt sudicia di Johnny Rotten con su scritto I Hate Pink Floyd, i Damned si mettono alla caccia dei Pink Floyd stessi per farsi produrre il loro secondo album, pubblicandolo in tempi ravvicinatissimi al primo, cercando di sfruttare un momento che sta già per esaurire il suo impatto. Trovano disponibilità in Nick Mason, con cui si chiudono in studio nell’agosto del ’77, finendo probabilmente di registrare mentre il batterista dei Pink Floyd sta ancora cercando di dare qualche indicazione alla band al di là del vetro.

Stavolta non hanno nemmeno bisogno di sovraincisioni, perché la band ha aggiunto un secondo chitarrista e anche un sassofonista, per chiudere il disco alla maniera degli Stooges di Fun House. La ricerca di una nuova complessità strutturale, sebbene non compositiva, si avverte anche in altri momenti del disco, come nelle svisate elementari ma insistenti di Alone o nella lunga coda di Idiot Box in cui il gruppo arranca su una scala a pioli cadendo tuttavia a picco nel baratro dell’ovvietà rock.

Appare chiaro che la loro dimensione migliore è ancora quella dell’anthem punk da due minuti (Problem ChildStretcher CasePoliticsYou Take My MoneyCreeps) da cui cercheranno di evolversi a fatica trovando solo nella messinscena gotica le modalità per uscirne vivi, seppur con le facce da vampiri.          

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro  

MX-80 SOUND – Hard Attack (Island)

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Nel 1977, quando in America la peste del punk era stata già rimpiazzata dalla pandemia della disco-music, scambiare il disco di debutto degli MX-80 Sound per un album ad uso e consumo delle piste da ballo credo fosse errore comune. Del resto anche successivamente, quando la band dell’Indiana si era ormai trasferita in pianta stabile nella Silicon Valley, credo che l’ambiguo nome scelto dai cinque abbia finito per restringere il numero dei potenziali ammiratori della loro musica. Anche io li scoprì tardi e per puro caso, dopo averli snobbati per anni credendoli una sorta di versione americana delle temibili compilation messe su dalla Baby Records e che mi procuravano l’orticaria (qualcuno le ricorderà ancora, le cosiddette Mixage).

E invece la musica degli MX-80 Sound era un avamposto di tanta new-wave che sarebbe venuta dopo, un ingegnoso art-rock che scardinava, disassemblava e rimontava a suo piacimento i rottami del punk, anche quelli arrugginiti dei Velvet Underground, e costruiva una piccola Babele circondata dal filo spinato che sarebbe diventata un sito archeologico per tanto alternative rock degli anni Novanta di casa Quarterstick/Amphetamine Reptile/Touch and Go (quante molecole di Girls Vs. Boys ci sono dentro quel capolavoro che è Man on the Move? Provate a contarle, NdLYS), scrivendo anche, anzitempo, le più belle ballate mai scritte dai Sonic Youth, senza mai dirlo a nessuno (Summer ’77, You’re Not Alone). Piene di squame metalliche, le canzoni degli MX-80 Sound sono tra i più spettacolari paesaggi in cui possiate avventurarmi se volete intraprendere un viaggio nel dopo-punk americano pur restando, nei suoni, vicini alla skyline disegnata dal punk poco prima (Kid Stuff, Crushed Ice, Facts Facts), ridisegnandola in chiave avanguardista.  

Altrimenti, se vi pare troppo, continuate pure a comprare i dischi dei Ramones all’infinito.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE TWILIGHTS – The Way They Played (EMI)  

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I Beatles non suonarono mai dal vivo il loro Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

Ma i Twilights, nella lontana Adelaide, lo fecero. E lo fecero ancor prima che quell’album seminale venisse stampato in Australia, studiandolo nei dettagli grazie ad una copia d’importazione ricevuta via aerea da Londra.

Un anno dopo avrebbero ripetuto la magia con l’intero Odgens’ Nut Gone Flake degli Small Faces, anche quello un album così macchinoso che Steve Marriott e Ronnie Lane non avrebbero mai portato su un palco.

Se non bastasse questo per illuminarvi sulle capacità tecniche dei Twilights e se non vi piacciono le cose troppo complesse ma preferite il rock ‘n’ roll più diretto e sfrontato e meno compromesso con i dischi concettuali, ecco venirvi in soccorso questa bella raccolta che indaga sull’intera storia della band australiana attraverso i singoli fondamentali e gli estratti dai loro due album. Una storia che si evolve al pari di quella delle band inglesi di cui sono innamorati, Beatles, Yardbirds, Kinks e Small Faces in primis. Rantoli e smorfie r ‘n’ r e beat che diventano via via un vocabolario sempre più ricco e forbito, fino a che le lingue non si impigliano e si trasformano in un nodo scorsoio che suicida la band, ché non sempre essere dotati serve a salvarci la vita.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro