THE HELLACOPTERS – Grande Rock (White Jazz)

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Al terzo album gli Hellacopters sono ormai un’istituzione dell’hard-rock europeo. Grande Rock resta fondamentalmente attaccato agli stessi modelli, pur spostando gradualmente lo sguardo verso un suono più stereotipato che tuttavia non riesce ad esplodere con la straripante virulenza nugentiana che pare voglia esprimere “in potenza” (la versione “riveduta e corretta” pubblicata venticinque anni dopo sarà, a confronto, davvero incendiaria, NdLYS) e che resta in qualche modo “imprigionata” fra i solchi. Il tiro del gruppo svedese rimane comunque formidabile, una doccia fredda di chitarre che si ricompatta creando un sostegno tenace, ruvido a linee vocali limitate spesso a poche strofe e sempre pensate per i grandi bagni di folla e l’adrenalina collettiva. Pezzi come The Electric Index Eel, Action de Grâce, The Devil Stole the Beat from the Lord, Move Right Out of Here, 5 Vs. 7 sono classici al primo ascolto, punture d’imenottero che arrossano la pelle, rock che non conosce le redini.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PAT TODD & THE RANKOUTSIDERS – Keepin’ Chaos at Bay (Hound Gawd!)

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Tredici nuove canzoni firmate Pat Todd. Che, per chi non lo sapesse, è una delle “griffe” migliori ancora in circolazione quando si parla di rock and roll nella sua accezione più sanguigna, tanto da far dichiarare a Blaine Cartwright dei Nashville Pussy che al suo confronto tutti gli altri, lui compreso, sono solo delle copie. Tredici, più una firmata Leonard Cohen, che comunque stenterete a riconoscere come sua, in questa sua nuova armatura cow-punk.  

Il contenuto di Keepin’ Chaos at Bay ne conferma l’attitudine inflessibile dimostrata in quarant’anni di carriera. Quaranta anni a questo punto equamente divisi fra i Lazy Cowgirls e i Rankoutsiders che ne hanno preservato lo spirito.

Il nuovo album arriva dopo un tour che ha visto Pat portare in giro le sue canzoni da solo, spogliandole dal fragore che invece torna qui impetuoso, sull’onda di un rock tutto sommato “classico” laddove per classico possiamo intendere tanto gli Stones quanto Townes Van Zandt, Dylan, Thorogood, Jeff Dahl, Johnny Thunders e i New York Dolls fino ai Flaming Sideburns. Sono canzoni stradaiole, quelle dei Rankoutsiders. Che della strada si portano addosso l’odore di gas e spazzatura e le luci, ora accecanti ora torbidamente soffuse. Pat Todd è la talpa metropolitana della baia di Los Angeles.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

KILLER KIN – Killer Kin (Dead Beat)

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Sudore vero da carne vera, quello che cola dal disco di debutto dei Killer Kin, ultimi arrivati in quella lunga striscia di depravazione rock ‘n’ roll che dal tappeto unto di vomito e piscio degli Stooges è giunta fin dentro i camerini dei Turbonegro passando per quelli non meno fetidi di New York Dolls, Dead Boys, Nashville Pussy, Dodge Main, MC5, Destroy All Monsters, KIϟϟ, Brother Brick, Dark Carnival. I nomi che immaginate, insomma, quando si parla di r ‘n’ r sbavato e bavoso.

Riff incrostatissimi e un approccio selvaggio alla materia prima, che rimane grezza quanto basta per suscitare i facili entusiasmi che, giustamente, la band ha acceso placando quella fame di letame rock che sempre più raramente riusciamo a saziare se non mettendoci in casa, per l’ennesima volta, raccolte ristampe e riedizioni dei testi sacri che il gruppo del Connecticut dimostra di aver sfogliato almeno quanto noi. La propensione per la velocità, mutuata soprattutto dal rock scandinavo, è sempre efficace per coprire qualche approssimazione e colmare quelle voragini che invece gli Stooges, e qui stava la loro grandezza, riuscivano a saturare di esalazioni al veleno. Ma quando riusciranno a far confluire anche le acque stagnanti nel loro acquedotto maleodorante, i Killer Kin avranno raggiunto l’eccellenza.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE LORDS OF ALTAMONT – Hunter, my tomb

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All’inferno, se vuoi divertirti, devi portarti gli amici giusti.

E i Lords of Altamont si offrono di accompagnarti.

Jake Cavaliere ha messo su la combriccola dopo dieci anni di onorevole militanza in altre congreghe di teddy boys come Fuzztones, Untamed Youth, Bomboras, Dead Friends, Jaymen, Finks, Witchdoctors, Gallows, Eastern Green, Fiberglass Junkie, Go Nuts. Tiene una mano sull’organo e una sulla cinta, vicino all’altro organo. E canta, sguaiato, il suo tossico garage punk.

Nel giro losco della città degli angeli lo conoscono come The Preacher e canta i sermoni tratti dai testi sacri e dagli apocrifi del garage rock, sputandoci sopra come un punk.  

Le due sole cover del disco appartengono al repertorio dei misconosciuti californiani Humane Society e quello di un altro Cavaliere, Felix, che con l’analoga occupazione di Jake girava l’America degli anni Sessanta sognando di essere Steve Winwood, il resto lo scrive di suo pugno rielaborando tutto quello che ha appreso nei dieci anni precedenti, ricoprendo tutto con un suono sporcato dalla distorsione naturale dovuta alla saturazione del gain. Quando non basta, aggiungendo del fuzz come succede in Twisted Love.

To Hell vi mette con le spalle al muro e vi gonfia di schiaffoni finché non dichiarate di amare il garage punk sopra ogni cosa.

 

Peccato che l’auspicata collaborazione con Mrs. Poison Ivy per Action, uno dei brani migliori della raccolta col suo ronzio crampsiano, non si sia alla fine concretizzata ma, al di là di questo, un garage-punk torbido e sfacciato esplode da Lords Have Mercy con le chitarre di Dave James e Shawn Medina e l’organo di Jake Cavaliere a contendersi il primato di chi fa occupa più banda audio.

Il suono dei Lords of Altamont è carico di perversione stradaiola, odora di carburante e di olio motore, di alcol sversato sul ciglio del marciapiedi, di urina e gomma bruciata, puzza dei corpi dei Sonics incendiati in una discarica.  

Ecco dunque che pezzi come She Cried di Jay & The Americans o Project Blue dei Banshees ne escono fuori completamente ustionati dal loro approccio, che a dispetto del titolo, non mostra alcuna pietà.

Siate spietati, come loro.

L’ingresso in formazione di Michael Davis degli MC5 coincide con “The Altamont Sin” l’album più duro e “MotorCity-oriented” dei Lords of Altamont, anche se è più dalle parti della band di Iggy che da quelle dei Motor City Five che il gruppo va a bruciare le carni, pur infilzandole sempre nello spiedo del garage-punk anche se le temperature altissime sfigurano la No Love Lost dei Joy Division in un poltergeist space-rock e lo sterco di Livin Hell puzza come No Fun degli Stooges. Fra i momenti più belli del disco ci sono Make Out Doll, boscaglia diddleyana sferzata da folate di vento elettrico e bordate di armonica, la stessa che taglia come un rasoio la title-track lasciando una scia di sangue sull’asfalto, il garage canonico di Gods and Monsters col suo classico giro fuzz doppiato dal Farfisa e due magistrali reinterpretazioni di Don’t Slander Me del barbuto Erickson e di Gun Called Justice degli altri Lords. Tutto in un bruciante concentrato di musica per bikers e per avanzi di galera.

Altamont soffoca nel peccato come Sodoma e Gomorra, ancora una volta.

                                              

Il titolo, Midnight to 666, è un palese omaggio ad una delle band preferite di Jake Cavaliere, però parafrasato secondo la logica ambiguamente cattiva della sua band, che da sempre ha scelto di giocare col lato malvagio del rock ‘n’ roll, sin dalla scelta del nome.

Jake è una piccola icona del garage americano, sin dai tempi dei Witch Doctors e poi tra i suoni vintage di Fuzztones e Bomboras. Bene, i LoA hanno preso quello stesso spirito e l’hanno fuso con quello del rock detroitiano dei primi anni ‘70 facendo concerti dove l’eccesso è la regola, registrando dischi quasi sempre sopra la media e finendo per venire osannati da gente come Michael Davis e Lux Interior.

Questo quarto, il primo realizzato con la nuova line-up a quattro, è a mio avviso il migliore di tutti. Il tiro è esplosivo e, nonostante anche stavolta si sfiori spesso il plagio (Gettin’ High è ricalcata su Loose degli Stooges così come Bury Me Alive è una fotocopia degli ultimi Morlocks, NdLYS), la presa di brani come Get in the Car, I‘m Alive o Synanon Kids è epidemica.

 

Nati esattamente trent’anni dopo l’infausto raduno di Altamont che ne ispirò moniker e attitudine, i Lords of Altamont festeggiano i quindici anni di attività con The Lords Take Altamont, un album altamente celebrativo che vede la band di Los Angeles alle prese con quattordici brani estrapolati dalla scaletta di quel famoso concerto, quello in cui venne infranto per sempre l’imene che custodiva la presunta verginità del rock ‘n’ roll.

Il disco è dunque un incredibile excursus nella biosfera del rock ‘n’ roll più sanguigno, nella più classica e virile tradizione dei Lords, riuscendo a farmi piacere anche i Jefferson Airplane una volta averli trascinati nella scura cantina degli Spiders di Alice Cooper per seviziarne il corpo.

Se le rendition di Stray Cat Blues e Gimme Shelter rimangono perfettamente fedeli alle stesure originali, il resto della scaletta (compreso il country da fattoria dei Flying Burrito Bros e la Piña Colada acida dei Santana) viene piegata, con la cattiveria dovuta, al classico suono della band, in grado di fondere o alternare il garage punk più sinistro con il Motor City Sound che sgorgava da Detroit proprio in contemporanea con il sangue versato ad Altamont, in agguato sul mondo.

Gli Dei adesso si riprendono Altamont.

Dopo averla lasciata in mano al Diavolo per quarantacinque anni.

 

Da quasi un ventennio, ovvero da quando l’amore sconfinato di Jake Cavaliere per i Pretty Things e i Chambers Brothers è stato affiancato, senza venirne sopraffatto, da nuove cocenti passioni per il suono metallico della Detroit di Stooges, Alice Cooper ed MC5 o di band proto-hard come Steppenwolf, James Gang o Grand Funk Railroad, i Lords of Altamont sono diventati uno di quei gruppi irrinunciabili per quanti hanno a cuore le sorti del rock ‘n’ roll con i piedi ben saldi negli anni Sessanta. Musica che è ancora suoni elettrici, amplificatori valvolari e tanta ma tanta attitudine e sudore.

In questo ambito la band californiana (costruita di volta in volta di sana pianta attorno alla figura di Cavaliere) è un’autentica garanzia, con cinque album pubblicati a distanza costante (tre anni) e con costante contenuto di ottani. Cinque dischi straripanti di energia cui adesso si aggiunge questo lapalissiano The Wild Sounds. Undici canzoni che vengono a bussarti fino all’uscio di casa per darti una cazzottata sul muso non appena apri la porta. Been Broken, Can’t Lose, Going Downtown, la cover di Evil (Is Goin’ On) o la (Ain’t No) Revolution frizionata nella stessa tinozza d’acqua sporca degli Hypnotics sono assolutamente perfette nella loro semplicità, nel loro assembramento di luoghi comuni e paesaggi familiari del rock ‘n’ roll che abbiamo imparato ad amare ascoltando gli stessi dischi ascoltati da Jake Cavaliere. O, chi lo sa, forse ascoltando proprio i suoi.

Bentornati, Lords e cavalieri.    

Quanti buoni dischi di rock and roll vi siete messi a casa quest’anno?

Io non tantissimi.

Un po’ perché mi sono stufato di cercarli, un po’ perché mi sono stufato di spendere, un po’ perché in realtà ce ne sono meno di quello che vi vogliono far credere ogniqualvolta aprite le pagine di qualche rivista.

Sui Lords of Altamont però si va sul sicuro, soprattutto se siete come me abbastanza pigri per tirare fuori dagli scaffali dischi che avete già e preferite che siano altri a scegliere per voi, conoscendo i vostri gusti. Un po’ come succede per gli algoritmi di Spotify Tune In, Turn On, Electrify vi toglie dall’impiccio con tre quarti d’ora di robaccia che ricorda ora i Grand Funk, ora gli Stewed, ora gli Hypnotics, ora i Morlocks, coniugando garage-punk e proto-hard e cercando il punto di fusione esatto in cui lo Spencer Davis Group può liquefarsi come una bustina di eroina sopra un cucchiaio stoogesiano e trovandolo in almeno un paio di occasioni. Detto che ai Lords of Altamont non interessa altro che perpetuare il vecchio rituale del r ‘n’ r e che pezzi come Movin’-Goat’s Revenge, Blast for Kicksville-This World Alive, Million Watts Electrify, Living with the Squares o I Just Want bruciano come una fiamma eterna nel braciere di questo cerimoniale pagano, il nuovo album della band californiana si candida a diventare uno dei migliori investimenti per quanti vogliono ancora investire qualche soldo nell’arte effimera del rock and roll che spesso equivale a quella dell’illusionista che tira fuori il coniglio dal cilindro. E che pure ogni volta restiamo incantati ad ammirare.

To Hell with Tomorrow va avanti e indietro lungo tutta la storia dei Lords of Altamont, saltando inevitabilmente qualche passaggio (evitando ad esempio di usarlo per “mappare” il più recente disco in studio, ancora fresco all’epoca di queste registrazioni, NdLYS) per mantenere alta la ferocia di un gig dal vivo ma allo stesso tempo rasentando l’album perfetto per la formazione californiana in virtù non solo e non esclusivamente di un repertorio che è l’equivalente di un candelotto di dinamite infilato nel deretano, ma della scelta di reincidere tutto in studio ma senza l’ausilio di “correzioni”.

E del resto cosa cazzo vuoi correggere quando hai davanti una delle migliori band ancora in circolazione sulla Terra? Forse l’unica assieme ai Morlocks a poter permettersi di tirare ancora fuori le zanne senza dare l’impressione di essere un tupilak fatta di denti di narvalo ma lasciando ancora ferite profonde sulla carne e farci scoprire che, nonostante tutto, riusciamo ancora a sanguinare.

Oggi più che mai, The Lords Are NOW!

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE LORDS OF ALTAMONT – To Hell with Tomorrow the Lords Are Now! (Heavy Psych Sounds)

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Avanti e indietro lungo tutta la storia dei Lords of Altamont, saltando inevitabilmente qualche passaggio (evitando ad esempio di usarlo per “mappare” il più recente disco in studio, ancora fresco all’epoca di queste registrazioni, NdLYS) per mantenere alta la ferocia di un gig dal vivo ma allo stesso tempo rasentando l’album perfetto per la formazione californiana in virtù non solo e non esclusivamente di un repertorio che è l’equivalente di un candelotto di dinamite infilato nel deretano, ma della scelta di reincidere tutto in studio ma senza l’ausilio di “correzioni”.

E del resto cosa cazzo vuoi correggere quando hai davanti una delle migliori band ancora in circolazione sulla Terra? Forse l’unica assieme ai Morlocks a poter permettersi di tirare ancora fuori le zanne senza dare l’impressione di essere un tupilak fatta di denti di narvalo ma lasciando ancora ferite profonde sulla carne e farci scoprire che, nonostante tutto, riusciamo ancora a sanguinare.

Oggi più che mai, The Lords Are NOW!

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE TOXICS – A Place Called Razors Edge (Chaputa!)

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Secondo album per i finnici Toxics, eredi in qualche modo dei Flaming Sideburns, col loro blend di garage rock, tossine stonesiane, power-pop, rawk ‘n roll cui il quintetto aggiunge una spolverata di melodie strappate per i capelli a certo strafottente e protervo teen-rock britannico secondo quella linea che dai Supergrass arriva ai Libertines e che rappresentano in ultima analisi la carta vincente, in termini di appeal, del loro A Place Called Razors Edge e di pezzi come Mythomaniac e Different Lies (o della Sunday Dress su cui si replica a soggetto sul canovaccio degli Strokes, NdLYS) più che le sottese acquiescenze ai paradigmi stilistici del beat esacerbato in cui affondano i piedi nelle bellissime Gaffer Tape e Down Down e nelle quali in qualche modo replicano quanto hanno fatto all’epoca del loro debutto gli Strypes.

Non salveranno il mondo, nessuno lo potrà fare, ma di certo i Toxics ci accompagnano in maniera disimpegnata verso la sua fine.

 

                                                                                         Franco “Lys” Dimauro

STRENGSBREW – Too Far North! (Chaputa!)

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Mantenendo tutte le promesse e solo parzialmente le premesse, giunge finalmente a maturazione il progetto Strengsbrew, il mostro a quattro teste che vede in azione Keith Streng, Måns Månsson, Robert Eriksson e Jim Heneghan e che con Too Far North! ci regala un buon disco di rock and roll, seppur non privo di difetti.

Quando la band svedese guida attivando la funzione smart (Full Bitch, Sweet Stone Rock) quella che abbiamo di fronte è una versione potenziata dei Fleshtones, se volete. Con addosso ancora le toghe alla Animal House, lacerate però da qualche unghiata alla Cream (Catnip, le chitarre che invadono tutto l’invaso di Pol-i-ticks) e da qualche zampata che ricorda i Deep Purple del ‘68 (Hold On, Way Over) che costringe la vettura a qualche consapevole azzardo.

Manovre cui la band non si sottrae e che anzi sembra assecondare con diletto, anche a scapito dell’immediatezza pur non pregiudicando il risultato finale che rimane quello di un buon disco ma che le premesse ci facevano sperare devastante.

E invece, la devastazione non c’è.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NASHVILLE PUSSY – Let Them Eat Pussy (Amphetamine Reptile)

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La foto di copertina è una esplicita trasposizione fotografica non solo degli show dei Nashville Pussy ma dell’intera loro formula fatta di sesso e rock and roll. L’intuizione di Blaine Cartwright di aggiungere del piccante sul piatto di chilli dei suoi Nine Pound Hammer è vincente e fa della band di Atlanta una delle più grandi attrazioni nei rodei del rock ‘n’ roll a stelle e strisce.

D’altronde si sa chi da anni vince la sfida tra un pelo di fica e una mandria di buoi.

 

E i Nashville Pussy sono entrambe le cose.

Il loro suono tamarro imbevuto nell’alcol motorhediano e sudore da camionista del sud, combinato col degradante sesso da motel sono una formula cui non è facile sottrarsi, se sei posseduto dal demone del r ‘n’ r.

I Nashville eiaculano e squirtano dodici volte mentre mangiano pollo fritto e bevono caffè americano. E poi vanno via lasciando una lunga striscia di umori e di polvere.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HYDROMATICS – Parts Unknown (White Jazz)

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Scott Morgan, Tony Slug, Nicke Andersson, Theo Brouwer con in mano le macchinine a frizione della Sonic’s Rendezvous Band e degli MC5. Che sgommano e fanno fumo davvero, come nei film d’azione. E anche quando non sono automobiline prestate (come in quel capolavoro alla Dark Carnival che è Calling LWA), potete immaginare la polvere che sollevano, quando non addirittura le pietre.

Parts Unknown è un disco di rawk ‘n roll furioso e compatto, dentro cui le energie di ognuno non vengono lesinate e ogni singolo accordo, ogni singolo colpo di tamburo concorre a creare un assordante e corroborante rumore di pattume r ‘n’ r.

A cinquant’anni suonati, Scott Morgan ve le suona davvero e vi sputa in faccia dall’inferno.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SONS OF CYRUS – Rock&Rollercoaster (Big Brothel)

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I Sons of Cyrus rappresentavano in qualche modo la perfetta quadratura del cerchio del quel suono svedese fondato negli anni Ottanta dai Nomads e poi “degenerato” nelle fumanti esplosioni rawk ‘n roll di Sewergrooves, Chronics ed Hellacopters: un suono ammanettato col passato, con generi solo apparentemente in fin di vita come il garage rock, l’hard-rock e pure certo glam che sconfinava nel cock-rock, eppure vivo come pochi altri. Il quartetto di Stoccolma riassumeva e rigenerava l’attitudine di quelle band, fondendo o alternando lungo i suoi dischi le invettive portate avanti da quelle band.

Rock&Rollercoaster allinea altre dodici tracce spericolate e fottutamente belle come Monkey Business, Wish I Was Blind, Switzerland, Growing Old, Never Gonna Let You Go, Running Too Slow, Come On and Do It. Dodici canzoni che avrebbero dovuto lasciare il segno e che di cui invece ci occorre celebrare il ricordo. Dodici canzoni sfumate nel disinteresse più totale un po’ ovunque, Italia compresa. Ché uno ancora si chiede cosa cazzo stesse guardando il mondo mentre i Sons of Cyrus guardavano il rock e ci si masturbavano sopra.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro