REDSKINS – These Furious Flames! Redskins Live! [1985/86] (London)

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Il terzo punto esclamativo lo metto io:

Venticinque brani e nessun inedito!

Prima che mettiate mano al portafogli, per una cifra neppure irrisoria, è giusto che lo sappiate: tutto quello che la London ha messo dentro questo doppio disco è già stato ampiamente “sfruttato” per la ricca riedizione di Neither Washington Nor Moscow… di un paio di anni fa o è reperibile nel live pubblicato dalla Dojo nel già lontano 1994.

Non che io voglia negarvi il piacere/dovere di ascoltare i Redskins (e come potrei, se non sono mai scesi veramente dal mio giradischi? sin dal lontano 1986? NdLYS) ma mi pare corretto circoscrivere il “clamore” attorno all’ulteriore operazione discografica sul risicato repertorio dello storico terzetto inglese in cui l’unica cosa di veramente nuova sono le memorie del bassista Martin Hewes “farcite” con estratti delle recensioni dei concerti dell’epoca e dalle citazioni di Chris Dean, Billy Bragg, Attila the Stockbroker, Pat Foley, Gary Crowley che prese singolarmente poco aggiungono alla loro breve ed ineguagliabile storia ma che valutate globalmente riaccendono nuovamente le “fiamme furibonde” salvandoci per l’ennesima volta da una reunion che sarebbe ancora più triste di quella appena celebrata in Italia con altrettanti punti esclamativi per i filo-sovietici loro coevi.  

Al netto di queste considerazioni, le interpretazioni di Keep On Keepin’ On!, Kick Over the Statues! o Skinhead Moonstomp dal Kick Over Apartheid Tour o di Let’s Make It Work!, 99 and a Half (Won’t Do) o The Crack dal concerto al Town & Country Club dell’aprile 1986 sono ancora fra le cose più vicine al soul che mano bianca abbia mai toccato e sulle quali possiate mai inciampare.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DIRTBOMBS vs. KING KHAN & HIS SHRINES – Billiards at Nine Thirty (Sounds of Subterrania)  

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Potenzialmente, il disco dell’anno.

Lo “scontro” è infatti quello tra due delle formazioni più cazzute del momento e tra due personaggi tutto sommato non molto dissimili nell’approccio verso il rock ‘n’ roll e inclini alle collaborazioni e ai progetti paralleli. Categorie cui questo Billiards at Nine Thirty tuttavia non appartiene, in quanto le band stanno chiuse nel loro recinto e mostrano ognuno dal loro lato del tavolo verde, i loro attributi metaforicamente rappresentati in copertina dalle stecche e dalle palle del biliardo.

Sei tiri per uno attorno al tavolo verde.

Ogni tiro, una buca.

Con i Dirtbombs che giocano spesso di sponda, affinando la tecnica dei tiri ad effetto (I Had to Chew My Own Leg Off, The House as a Giant Bong) sperimentata sul recente Dangerous Magical Noise ma che non rinunciano a mirare direttamente in buca, come nella strepitosa The Size of Ottawa. Che se ti attardi un attimo per bere un sorso di birra ti perdi il colpo.

Ma è un quarto d’ora dopo le 9:30, quando il gioco passa a King Khan e ai suoi Shrines che nel locale scatta l’afterhour alcolico. Agli inizi di Sweet Tooth si sente già il tintinnio dei bicchieri. Poi il gioco al biliardo si fa puro spettacolo alticcio e acrobatico, come se James Brown in persona fosse salito sul tavolo a bucare il tappeto strisciando e battendo il suo tacco cubano come ai tempi dell’Apollo.

Burnin Inside è un tripudio, un baccanale funky/soul che trascina giù anche le colonne del locale. 40 uccelli cercano scampo, prima di finire travolti anche loro dalle macerie. Take a Trip è il boogaloo tarantiniano ballato dai superstiti sulle rovine di questo tempio pagano.

Sono a malapena scattate le dieci.   

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

REDSKINS – Neither Washington Nor Moscow… (London)

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Quattro cd, a fronte di una striminzita stampa in vinile singolo, per la ristampa di uno dei più grandi album di sempre. Quattro cd per dire in quattro ore quello che i Redskins avevano detto in meno di una. E che era stato detto in modo chiaro, persuasivo e coerente. In modo talmente intenso che nessuno aveva più osato replicare o riuscito a pareggiare quel risultato, pur scendendo a giocare sul medesimo campo di gioco. Un disco che era un’unica, enorme impronta di sauro sul pianeta. E che a confronto della quale quella di qualsiasi altro gigante sembrava poco più che quella di un mammifero ordinario.    

Nient’altro che soul music, in fin dei conti. Ma col ghigno del punk, sebbene non ci sia un solo accordo punk nel loro sound, sostituito da uno strumming figlio del funky e del rockabilly della Sun (come quello di Hold On! o della fulminante The Crack, talmente rapida e furtiva da non venire neppure indicata nella track list originale e di essere scavalcata a pié pari nella prima edizione in cd, NdLYS).

La versione “espansa” dell’unico album della formazione inglese indugia fra sessions radiofoniche, versioni alternative di classicissimi come The Power Is Yours…, Lean on Me!, Unionize, Keep On Keeping On!, (Burn It Up) Bring It Down! (This Insane Thing), It Can Be Done!, registrazioni live (alcune trascurabili), indietro fino ai demo dei No Svastikas già noti e mette a supporto un succoso “riassunto” su booklet con memorie disgiunte ma vivide di Paul Hookam, Martin Hewes, Billy Bragg e Paul Morley del NME.

Assente, come sempre, Chris Dean che, come me, continua a pensare che la missione dei Redskins sia stata completata 35 anni fa e che il resto sia solo feticcio nostalgico e rappresentazione marmorea di un’idea che era invece motivata proprio dall’abbattimento delle statue e dei totem ideologici. Che era equidistante da Washington e da Mosca e che non conosceva il freddo di quella guerra fra le due potenze che proprio di quel disequilibrio termico prendeva il nome. Che era fuoco e passione cocente, braciere divampante. Il resto, anche questo, è marketing e nostalgia.

E però che belle, queste lacrime rosse.      

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DELTA 72 – The R&B of Membership (Touch and Go)

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Nel passaggio dalla Kill Rock Stars alla Touch and Go hanno perso l’apostrofo ma giusto quello i washingtoniani Delta 72. Per il resto la miscela di umori garage/soul e virulenza noise-punk rimane quel che era nel singolo di debutto: sensuale ed esplosiva. I richiami sono quelli al drumming sincopato del primo James Brown, ai colli di bottiglia della tradizione blues, al pittoresco groove dell’R&B acido dei tardi anni Sessanta, agli sbuffi dell’autoharp degli Yardbirds ma alle traiettorie lineari i quattro ragazzi di Washington preferiscono quelle più impervie del noise degli anni Novanta, di cui sono peculiare sintesi soprattutto On the Lam, Rich Girls Like to Steal e Trick Baby. Lo sferragliare di pezzi come Get Down, 7&7, Satellite e On the Rocks ricordano invece lo sguaiato blues a propulsione dei Boss Hog e un Alexis Korner con i rollerblade ai piedi.

Con i Delta 72 e i Make-Up Washington diventa la capitale bianca della musica nera.     

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

BARRENCE WHITFIELD AND THE SAVAGES – Savage Kings (Munster)

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È la spagnola Munster Records a tenere a battesimo il ritorno ufficiale di Barrence Whitfield con i Savages. Ed è un ritorno di quelli che ci riappacificano col rock ‘n’ roll più viscerale. Quello di Little Richard, Screaming Jay Hawkins, Esquerita e dei Sonics. Accanto al gigante nero ci sono i vecchi amici dei Lyres Phil Lenker e Peter Greenberg mentre è Tom Quartulli a prendere il posto del sex-ofono che fu di David Sholl e Steve LaGrega. Se qualcuno avesse qualche, peraltro motivato, dubbio sul fatto che si possa suonare e cantare del rock ‘n’ roll varcata la soglia della terza età, Savage Kings è il disco che può fugarli.

Quello dei Savages è il ritorno in scena che riesce a fare lo scalpo ai Sonics, tornati in scena col debolissimo 8. Il materiale si concentra soprattutto sulle cover, il più delle volte oscurissime pepite rock ‘n’ roll e soul come Just Moved In, Who’s Gonna Rock My Baby o Bad Girl ma anche due versioni al cardiopalma di Ramblin’ Rose e Shot Down ma ci regala anche una perla come Willie Meehan che è davvero il precipitato tossico di tutto il northwest-punk più trucido e volgare.

Pochissimi, davvero pochissimi, riescono a fare un disco così anche con quarant’anni in meno sul groppone e tanta più fica intorno.

Barrence Whitfield a 56 anni si riprende il suo trono.

Con onore.    

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE ROYAL BEAT CONSPIRACY – Dig It! (Bad Afro)  

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Il tiro soul ricorda per certi versi quello di band come Make-Up e Delta 72, ma i Royal Beat Conspiracy vengono dalle fredde terre emerse del mare del Nord, proprio come quegli altri cospirazionisti dell’(International) Noise. Questo secondo album perfeziona ulteriormente il loro stile, tanto che potrebbe finire per piacere a quanti hanno salutato con favore la svolta “southern” dei Primal Scream (un’elegante ballata come By Your Side sarebbe stata benissimo sul loro Give Out but Don’t Give Up) così come a quelli che ammirano incondizionatamente il “super-rock” dei Fleshtones (Soulshake, Super Sweet, I Can’t Take It Anymore).

L’utilizzo versatile delle tastiere riesce a conferire carattere alla band, ora simulando alla perfezione un organetto Farfisa, ora ricordando certi piani elettrici tipici del jazz elettrico, altrove simulando certe atmosfere space-age o creando un’effettistica che da piccoli schizzi sci-fi o evocazioni flautistiche finiscono per simulare un’intera sezione fiati da orchestra soul.   

Dig It! conferma la vitalità della scena r ‘n’ r nordica, capace di scaldare l’intero continente europeo.  

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

KING KHAN – Il Re è (semi)nudo

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Canada, metà anni Novanta.

Quello che sarebbe diventato King Khan si fa ancora chiamare Blacksnake e colui che diventerà Mark Sultan invece suona col viso completamente coperto, sotto il nomignolo di Creepy. Suonano un punk innestato su vaghe influenze sixties e con devozione assoluta per gente come Bo Diddley, Chuck Berry, Joey Ramone e Johnny Thunders. Un classico blend che non può sfuggire alla Sympathy for the Record Industry che su quelle polveri ha costruito la sua santabarbara.  

Il debutto della band canadese esce infatti per l’etichetta di Long Beach. Titolo e grafica di copertina sono rubate al famoso tour invernale di Big Bopper, Ritchie Valens e Buddy Holly durante il quale i tre eroi del rock ‘n’ roll persero le loro vite e noi la loro musica. È tuttavia un’eredità che si consuma solo nella scelta iconografica, perché Winter Dance Party è per il resto una sequenza interminabili di riff a manetta.

15 colpi tutti a segno, guardando il bersaglio per non più di due minuti alla volta. Spesso per molto meno.

Nessuno sparo a salve.   

Nessun tentennamento.  

I canadesi hanno mira buona.

 

Se il disco di esordio era tutto sommato un classico album punk-rock, Misbehavin’ volge lo sguardo degli Spaceshits verso gli anni Sessanta e Cinquanta in maniera più netta e decisa, utilizzando alcuni cliché tipici del periodo, seppur tutto venga sempre suonato ad alta velocità. Come dentro una decapottabile che dal Canada corre veloce verso la California.

Un disco deragliante dove ancora una volta la band di Mark Sultan e King Khan non sbagliano un solo pezzo, nonostante la mira volutamente imprecisa e i bersagli scelti in maniera arbitraria. Tra cui sicuramente quelli di Bo Diddley, dei Generation X, dei Ramones, dei Gruesomes. Canzoni funamboliche come She’s a Bad Luck Charm, Tell Me Your Name, We Know Where the Girls Are, Won’t Bring You Back, Turn Off Your Radio meriterebbero sorte migliore di quella cui sembrano destinate a schiantarsi contro.

Porn Losers.   

 

Sul fare del nuovo secolo, il punkettone dalla pelle ambrata si converte al soul. Così, per tutti coloro che si trovano a lagnarsi per aver sprecato i soldi comprando l’ultimo Jon Spancer, è d’obbligo asciugarsi le lacrime rubando Three Hairs and You‘re Mine di Mr. King Khan and His Shrines. Lo sporco meticcio di Re Khan tira fuori un party-album capace di mangiarsi ogni disco di Spencer da 5 anni a questa parte e di provocare movimenti al basso ventre degni di un live-set di James Brown. Merda, questa è soul music col pepe al culo (Kukamonga Boogaloo, Don’t Walk Around Mad, Live Fast Die Young, The Mashed Potato Itch, Tell Me….provate a resistergli e, se così fosse, fatevi controllare dal vostro urologo, NdLYS) capace di quelle classiche pause pomicione (Fool Like Me, Shivers Down My Spine) che ti fanno rallentare il culo per tentare l’operazione-rimorchio classica di ogni festa.

Il debutto degli Shrines diventa il mio disco del mese.

Di tutti e dodici.

 

Allo scoccare dei due anni, riecco il Papa Nero del moderno boogaloo, lo scimmione nato dall’incesto tra Screamin’ Jay Hawkins e Joe Bataan, il figlio svitato di Andre Williams e Mick Collins che ci concede un’altra ora di delirio soul. Appena un po’ meno debosciato rispetto al Three Hairs and You’re Mine di tre anni fa che godeva dell’Imprimatur di Liam Watson, Mr. Supernatural è comunque il campionario di stomps affogati nell’orgia ritmica di fiati e tastiere che era lecito attendersi. Il miglior party-album che possa capitarvi sotto le unghie, una valvola metrale che vi pompa sangue alle natiche e che può incrementare la produzione di ormoni riproduttivi nelle vostre feste, farcito di opportune pause pomicione per tentare l’operazione-rimorchio. Pezzi come la title track, Destroyer, Pickin’ Up, Lovetruck o Burnin’ Inside sono in grado di regalarti gli stessi sussulti al basso ventre del James Brown all’Apollo. E ditemi voi se è poco.

Ma l’anno non si è ancora concluso, che ecco un altro candidato a diventare disco dell’anno. 

Lo “scontro” è infatti quello tra due delle formazioni più cazzute del momento e tra due personaggi tutto sommato non molto dissimili nell’approccio verso il rock ‘n’ roll e inclini alle collaborazioni e ai progetti paralleli. Categorie cui questo Billiards at Nine Thirty tuttavia non appartiene, in quanto le band stanno chiuse nel loro recinto e mostrano ognuno dal loro lato del tavolo verde, i loro attributi metaforicamente rappresentati in copertina dalle stecche e dalle palle del biliardo.

Sei tiri per uno attorno al tavolo verde.

Ogni tiro, una buca.

Con i Dirtbombs che giocano spesso di sponda, affinando la tecnica dei tiri ad effetto (I Had to Chew My Own Leg Off, The House as a Giant Bong) sperimentata sul recente Dangerous Magical Noise ma che non rinunciano a mirare direttamente in buca, come nella strepitosa The Size of Ottawa. Che se ti attardi un attimo per bere un sorso di birra ti perdi il colpo.

Ma è un quarto d’ora dopo le 9:30, quando il gioco passa a King Khan e ai suoi Shrines che nel locale scatta l’afterhour alcolico. Agli inizi di Sweet Tooth si sente già il tintinnio dei bicchieri. Poi il gioco al biliardo si fa puro spettacolo alticcio e acrobatico, come se James Brown in persona fosse salito sul tavolo a bucare il tappeto strisciando e battendo il suo tacco cubano come ai tempi dell’Apollo.

Burnin Inside è un tripudio, un baccanale funky/soul che trascina giù anche le colonne del locale. 40 uccelli cercano scampo, prima di finire travolti anche loro dalle macerie. Take a Trip è il boogaloo tarantiniano ballato dai superstiti sulle rovine di questo tempio pagano.

Sono a malapena scattate le dieci.   

 

Un re e un sultano. Diventati sovrani dopo un’adolescenza da balordi in quel di Montréal e ora ritrovati quasi per caso ad Amburgo.

E così l’ex serpente nero e l’ex ago degli Spaceshits, che sono avvezzi agli espedienti, pensano di mettere insieme per strada il loro spettacolo di lo-fi rock.

Sull’insegna di cartone campeggiano i loro nuovi nomi: The King Khan & BBQ Show.

Due chitarre, un paio di tamburi e un microfono davanti al quale il Re indiano e il sultano italiano, canadesi di nascita e ora tedeschi di adozione si alternano cantando canzoni sguaiate come Love You So, Get Down, Got It Made, Pig Pig Pig, Shake Real Low, Am I the One, Outta My Mind che sono in percentuali variabili figlie di Buddy Holly, degli Stooges, dei Gruesomes, di Gene Vincent. La festa è meno ricca, meno colorata, meno prorompente di quelle organizzate da Khan con gli Shrines ma è giusto sia così. Questa è roba da buskers alticci, punti sul sedere dal forcone del diavolo per intonare qualche canzone sulle donne e sui vizi a cui non viene concesso di replicarne alcuna ma di usare il trucco diabolico di camuffarle sotto decine di maschere diverse, per poterle suonare infinite volte a noi pubblico sbalordito.  

 

Dopo il primo pasto del 2005 la cena viene servita l’anno successivo. Per l’occasione King Khan si è vestito da drag-queen e BBQ, ovviamente, da sultano. Sono gli avanzi del pranzo, che era già un pasto di avanzi. Panni soul sciolti nella varichina, stracci rock & roll logori e consunti. Qualche lentaccio da struscio (ricordate i Creeps di Darlin’? Ecco, quel genere di cose lì) e tanto rock and roll sornione e beffardo che cerca di sconfinare nel punk da garage in almeno un paio di occasioni. Nel country da galera in almeno un altro paio.

L’unica regola di What’s for Dinner? è non avere regole. O perlomeno attenersi a quelle sommarie dettate dall’amore per le frattaglie del rock, gli avanzi dei pasti ricchi con cui le rockstar sono diventate obese o cocainomani.

Uno spettacolo di viscere e liquidi corporali. Ecco cosa c’è per cena.   

 

Three Hairs and You’re Mine fu uno dei miei dischi dell’anno nelle playlists del 2002. Non serve ve ne ricordiate, ma è invece importante che serbiate memoria di quel disco. Un autentico R&B della giungla capace di ribaltare ogni festa e trasformarla in un vaso voodoo traboccante di sudore e liquidi vaginali.

Il tiro di quel disco si è via via smorzato, e non poteva forse essere diversamente. Ma King Khan continua a fare dischi che spaccano il culo e a tirar fuori le zanne, quando è necessario. Qui succede ad esempio mentre i primati ballano lo ye-ye su Land of the Freak. Ma What Is?! apre il mondo del Re ad altre influenze, molto più inquietanti: la trance angosciosa dei Velvet (vi dice qualcosa un titolo come The Ballad of Lady Godiva?) e certo free-jazz che da Sun Ra (Cosmic Serenade) arriva fino agli Stooges malati di L.A. Blues (Fear & Love è un bug che può perforarvi la mente, ai volumi opportuni, NdLYS). Meno ballabile, certo. Ma cazzo, anche stavolta lascerete la festa con la pelle solcata da lividi viola.

 

Una bestia nera. Un cuore indiano trapiantato a Montreal. Altro che banghra-pop e brimfuls of Asha. King Khan è la soul music del nostro tempo: sporca, corrotta e peccaminosa. Una creampie lattiginosa che schiuma dalla carne rosa di Tina Turner e delle Ikettes le cui gocce più dense vengono raccolte su una coppiera pubblicata dalla Vice col titolo di The Supreme Genius. Si va dal primissimo singolo del 2000 fino all’ultimo, eccellente What Is?!, tutto senza un momento di stanca. Convulso e psicotico voodoo-funky annegato nei fiati, deformato da una eccitazione sessuale nevrastenica, tesa e malata (come nel baccanale di Sweet Tooth) o rotondo e bavoso come le natiche di una chica (Live Fast, Die Strong dal primo inarrivabile album), figlio bastardo di James Brown (Tell Me), Sun Ra, Question Mark (Land of the Freak), Screamin’ Jay Hawkins (Shivers Down My Spine) e Ike Turner (Welfare Bread).

Pochi degni di rubarle il trono, Re Khan. Il regno è Suo!

 

Continua il viaggio antropologico-musicale di King Khan e Mark Sultan attraverso le condotte fognarie che li/ci riportano al frat-rock, al boogaloo e al doo-wop degli anni ’50 e ’60. Nel loro viaggio incontrano creature e mostri immaginifici.

Perché quello di Invisible Girl è pure l’ennesimo tuffo nel mondo della science fiction, dei mondo-movies, delle buffe gag dei Three Stooges. Un mondo che è parallelo a quello ordinario e grigio del quotidiano. Un mondo invisibile al pari della protagonista dell’album e dei mostri che lo abitano, che tuttavia possono liberarci dai nostri, almeno per mezz’ora. Canzoni come Tastebuds, Anala, Crystal Ball, Do the Chop, I’ll Be Loving You, Truth or Dare hanno esattamente questo potere.  

Molto meglio di quello che i vostri supereroi riescano a fare.  

 

Il termine “supergruppo” mal si adatta, per definizione, al rock ‘n’ roll di basso profilo. Non ci sono virtuosismi da esibire o innesti miracolosi. Il più delle volte sono collaborazioni “chiassose”, omaggi collettivi o condivisi alla musica amata, flirt consumati sotto l’ombrello del r&r spesso senza alcuna volontà o necessità di svelare al mondo con chi si è stati sotto le coperte.

Silky di Andre Williams era un disco così. The Get-Down Imperative del King Sound Quartet era un disco così. Tasty dei Demolition Doll Rods era parimenti un disco così. Gli album degli Heavy Trash erano dei dischi così.  

Esce ora questo The Almighty Defenders che è, come quelli, un album dove si consuma un atto d’amore collettivo, sotto le stelle cadenti del rock and roll. I protagonisti di questa ennesima copula sono interessanti tanto quanto gli antefatti: i Black Lips si trovano in tour in India quando pensano bene, durante uno show a Chennai, di lasciarsi andare sul palco a qualche bacio gay e a una parziale seppur palese denudazione pubblica.

Il pubblico va in delirio. Ma non tutto. Qualcuno, a spettacolo concluso, avvicina la band nei camerini e suggerisce loro di lasciare il Paese il prima possibile, perché l’oltraggio al pudore in India è un reato punito con la galera. E loro rischiano grosso. I Black Lips non aspettano neppure di smaltire l’adrenalina che hanno ancora in circolo: saltano sull’auto che hanno noleggiato e in aeroporto prendono il primo volo disponibile. Che è un volo che parte dalle terre delle vacche sacre e atterra in Germania. I Black Lips salgono con i pantaloni ancora slacciati: in Germania hanno un paio di amici pronti ad andarli a prendere in aeroporto e ospitarli per tutto il tempo che serve.

I due amici si chiamano Mark Sultan e King Khan, stranieri in terra straniera come loro. Musicisti, come loro.

Ecco, l’estemporaneo progetto Almighty Defenders parte da qui. Come uno spy-movie che si incastra con una scheggia di vetro dello specchio infranto del sogno rock and roll. Ed è già bello così.

Una “superstoria” prima che un “supergruppo”. Il disco che documenta quell’incontro, consumato tra casse di birra e la voglia di un souvenir che celebri quella storia.

Potrebbero scegliere di farsi un tatuaggio.

Invece scelgono di fare un disco.  

Un disco “di fortuna”, un disco di scalcinato rock ‘n’ roll, di soul sbiancato, un disco dove convivono a qualche solco di distanza vaghi echi gospel e tremebonde atmosfere sinistre da scary-movie, canzoni d’amore e canzoni sui fantasmi. Canzoni che vanno bene per chi ama i Black Lips e per chi ama King Khan & BBQ Show.

E a chi crede che il rock ‘n’ roll val bene un oltraggio.

E una fuga nottetempo.  

E un disco.

  

Circolato solo in versione promo qualche anno prima, documentando alcune vecchie sedute di registrazione effettuate tra Berlino (dove vive tuttora) e Bordeaux durante i soggiorni europei del Re Nero del Canada, Turkey Ride esce ufficialmente a nome King Khan Experience nel 2011.

Gli Spaceshits si sono sciolti da pochissimo e King Khan si reinventa totalmente come cerimoniere di un’orgia soul-funk trascinante, folle e colorata. Siamo agli albori di quella che sarà la musica degli Shrines ma l’energia dirompente di quel gruppo è già tutta qui: ascoltate I Got Love, Knock Me Off My Feet o Hey Rudi e ditemi se riuscite a restare fermi. Folate di organo che ti spettinano come un soffio di bora, lampi psichedelici di chitarre wah-wah, pattern di batteria che sembrano scivolati via da un disco di James Brown e un groove funkedelico da branco animale. Il boogaloo di King Khan, quello che produrrà capolavori come Three Hairs and You’re Mine, Mr. Supernatural e Idle No More è già tutto qui.

L’estate pure.    

 

Dio Khan!

L’estate è finita e il disco dell’estate arriva adesso che le donne cominciano di nuovo a coprirsi.

Idle No More, ispirato dal movimento per i diritti civili nato in Canada lo scorso dicembre, Mr. King Khan (che Canadese è di nascita) rimette in piedi in fretta e furia i suoi Shrines lasciati a marcire per un intero lustro e assembla un nuovo, straordinario disco.

Un album che più di ogni precedente profuma di aromi sixties, nel consueto narghilè dal sapore boogaloo. Meno tossico rispetto a certi fumi che uscivano fuori dalle feritoie di What Is?! che lasciavano immaginare gli Shrines come una moderna versione della band di Sun Ra.

Qui sembra di stare con un piede ficcato nei dischi dei Love e il sedere infilato dentro il juke box che passa Nino Ferrer.

Un disco festoso, finchè non arriva il buco in gola di Darkness. Un atto di dolore che inaugura lo spazio dedicato al ricordo di Bobby Ubangi (Bad Boy), Jay Reatard e Jay Montour (So Wild). Due ultime pacche sulle spalle degli amici andati a far baldoria altrove.

Of Madness I Dream, inizialmente pensata per intitolare l’intero disco, è la ballata scivolata giù da un disco degli Stones (Beggars Banquet? Sticky Fingers? Let It Bleed?) che ci sorprende quarantenni bisognosi di un sogno per cui poter ancora sanguinare.

Un giorno farò una festa e inviterò tutti gli amici che mi sono rimasti.

Mi basteranno due metri quadrati e un disco di King Khan.

Non ci sono più gli Shrines a coprire le nudità del Re Khan su Murderburgers.

A porgergli il mantello e dividere con lui gli hamburger sono Greg Ashley e Oscar Michel, ovvero due/quarti di quelli che furono i Gris Gris. E il risultato, ahimè, si sente. L’energia positiva e travolgente dei dischi con gli Shrines è quasi del tutto dissipata, soffocata da una rilassatezza che non concede al ritmo che pochissimi Joule di energia (il tiro garage scriteriato di Teeth Are Shite, il suono dei Saints replicato quasi alla perfezione su Born in 77).

Murderburgers non ha insomma la stessa spettacolarità dei dischi con gli Shrines, preferendo adagiarsi su un folk rock che tenta addirittura l’assalto alle fortezze di Dylan (It’s Just Begun) e di Beck (Too Hard Too Fast), scivolando in realtà molto prima di aver raggiunto la salda certezza di una balaustra. Anche la carica esplosiva di Born to Die soccombe alla psichedelia sgraziata di Greg Ashley.

Un diversivo che concediamo con piacere a King Khan, per tutto quello che ci ha regalato in quindici anni di dischi.

Ma adesso ridateci gli Shrines, per favore.

E qualcuno dica al Re che è nudo.

 

Ci mettono più del solito, King Khan e Mark Sultan, a far confluire i loro impegni e mettere su un nuovo disco. Ben sei anni separano infatti Bad News Boys dal precedente Invisible Girl. Nel frattempo anche King Khan, seguendo l’esempio dell’amico fraterno, ha messo in piedi un’etichetta personale anche se per la vecchia sigla comune hanno scelto ancora una volta le garanzie della In the Red.

Di veramente nuovo ci sono i costumi di scena disegnati dalla moglie di Khan, due tute nere come la notte forate sui capezzoli e due mascheroni a coprire metà del viso con cui i due hanno dato il via al Nipples ‘n Bits tour e posato per le foto promozionali di rito. Per il resto, le canzoni scollacciate del duo non conoscono margini di miglioramento, e se per qualcuno questo può voler dire una “cattiva notizia” per altri, me compreso, non lo è. Nonostante continui a preferire le canzoni meglio rifinite degli Shrines, lo spettacolo che i due riescono ad allestire grattugiando solo due chitarre ha del prodigioso, riuscendo ancora una volta a riempire il foglio di schizzi rock ‘n’ roll, doo-wop e frat-rock (e anche qualche numero di punk schizoide come Zen Machines e D.F.O.) senza stare attenti ai margini. Anzi, imbrattando più quelli che le rigorose e composte righe a centro pagina. Avercene, di ultimi della classe così.   

 

L’acronimo relativamente anonimo nasconde in realtà King Khan e Fredovitch dei mai dimenticati Shrines più Looch Vibrato e Aggy Sonora dei francesi Magnetix, il che vi dà già la misura di un disco come “Stop und Fick Dich!”.  

Larry Hardy della In the Red, dal canto suo, garantisce e mette la firma sul registro dei testimoni in quest’ennesimo matrimonio artistico del Re Khan, il cui vizio di mescolare il proprio sperma a quello altrui supera di gran lunga le perversioni di qualsiasi caserma militare e di qualsiasi college universitario e pareggia le zozzerie di Mick Collins.

Nonostante qui (a casa mia, intendo. E nella mia auto, dove un loro album qualunque non manca mai, NdLYS) la nostalgia per i dischi degli Shrines rimanga a livelli altissimi, questo ritorno alle radici fracassone dei suoi venti anni quando, sotto il nome di Blacksnake, suonava il basso negli Spaceshits. Se però quel gruppo lì guardava verso il garage rock degli anni Sessanta, pur se attraverso l’oblò del punk, i Louder Than Death quell’oblò lo lasciano ben chiuso e, opportunamente coperto di vapore, ci scrivono sopra con le dita proprio la parola punk, scrivendo canzoni in classicissimo ’77-style come la bellissima ABC’s in Old Berlin, che è anche l’unico vero motivo per portarsi a casa questo disco. Non perché sia brutto, affatto, ma solo perché in realtà l’intero repertorio è prelevato in toto dai dischi dei Black Jaspers, in versione ancora più deragliante. Però se non avete quello e in ultima analisi anche se ce l’avete ma non lo ascoltate da dieci anni, potete tranquillamente sentirvi ancora teppisti ascoltando la musica del Dio Khan e dei suoi compari.

Messo in piedi in piena pandemia, il Global Solidarity Forever è un collettivo artistico fondato da King Khan assieme al leader delle Pantere Nere Malik Rahim con l’obiettivo di “sfruttare” i proventi artistici delle varie discipline artistiche degli affiliati per sostenere diverse iniziative che vanno dal sostegno dei lavoratori immigrati alla riforestazione delle zone colpite dagli uragani, dalla messa al bando della carta igienica e altri derivati del legno alla creazione di una “banca dell’insulina” per la comunità di New Orleans.

Soul Eruption è il primo album vero e proprio pubblicato sotto l’egida della GSF e il primo lavoro che King Khan si intesta a suo nome, continuando la sua circumnavigazione di tutte le musiche possibili e atterrando stavolta in territori hip-hop ispirati al funky primigenio di James Brown e George Clinton e alle gesta degli Invaders di Memphis raccontate nell’omonimo lungometraggio di Prichard Smith del quale Khan ha curato la colonna sonora assieme a Jack Oblivian. Il risultato non è da buttare ma a dispetto dei nomi detti prima, è un po’ arido di sudore e di groove. Esercizi riusciti neppure malaccio (See You in Hell, Get Up Off Yo’ Thang, The Plague of Putin) ma che sembrano costruiti un po’ a tavolino (sul desk forse suona più fico e rende meglio l’idea di quel che voglio dire) dando l’impressione che Khan si stia lentamente trasformando dal Dio della caciara nel Dio del cacio.

Dopo Barrence Whitfield anche King Khan cede all’infatuazione per lo space-jazz di Sun Ra e Pharoah Sanders pubblicando un disco di arcano, sfilacciato, schizoide e disarticolato jazz suonato da una tribù aliena nascosta dietro delle identità terrene che rispondono ai nomi di John Convertino, Brontez Purnell, Knoel Scott, Maureen Buscareno, Marshall Allen, Davide Zolli, Florent Mannant, Gillian Rivers, Allesandro Piretti, Daniel Allen, Max Weissenfeldt, Ben Ra e Martin Wenk oltre che l’onnipotente Dio Khan. The Infinite Ones è una deriva tortoisiana di ottoni, bastoni della pioggia, languidi fraseggi di chitarre e organi che alterna brani burrascosi, stemperate pause di jazz liquido e un paio di episodi che non avrebbero sfigurato su qualche disco dei Tuxedomoon come Xango Rising o Follow the Mantis. Non quello che vi immaginereste da King Khan, nonostante neppure lui sappia più cosa aspettarsi da sé stesso. “L’artista conosciuto come Blacksnake” è diventato una viscida tenia che vi abita nell’intestino. Pensateci, ogni volta che vi prude il culo.

Shrines per due/quarti e Magnetix per i restanti due, la King Khan Unlimited saluta il 2021 con un album che riporta il Re Khan dentro i territori del rock ‘n’ roll dopo la sbandata free jazz di The Infinite Ones.

Opiate Them Asses putroppo non va molto oltre il simpatico gioco di parole del titolo. Pur non essendo affatto un brutto disco, è uno di quei dischi di cui io e molti altri hanno già gli scaffali pieni e dunque faticherà a trovare spazio. E di certo non aiuteranno i video low-budget che ne hanno distillato il contenuto su YouTube, francamente brutti. Certo, non mancano canzonacce da canticchiare come Modern Frankenstein, Narcissist, Crime Don’t Pay o Al Capone’s Syphallytic Fever Dream però i bei tempi degli Shrines sembrano davvero definitivamente andati e la battaglia intrapresa da King Khan contro Ty Segall su chi riesce a pubblicare più dischi in un anno, finisce per dare la meglio all’uomo dalla pelle perlacea.

Il regno traballa.

Ci sono nuovamente John Convertino e Davide Zolli fra i musicisti coinvolti nel nuovo progetto di King Khan legato al jazz e alla musica etnica inaugurato con The Infinite Ones e ispirato stavolta all’omonimo programma di divulgazione scientifica canadese condotto da David Suzuki e che è il corrispettivo del nostro Quark. 

I nove pezzi di The Nature of Things non sono affatto malvagi (con una splendida e free Snarlin’ Lil Malcolm piazzata proprio in mezzo) ma la questione a questo punto è comprendere quale sia il pubblico che King Khan cerca o pretende di abbracciare avendo abiurato in parte o forse in maniera definitiva dal suo potentissimo R&B scegliendo uno stato di musicista apolide che tocca infinite terre senza mai approdare ad una. 

Agosto del 2023 vede la pubblicazione integrale della colonna sonora del documentario sulla storia degli Invaders, il gruppo per i diritti civili di Memphis, uscito nel 2015 e di cui King Khan si occupò della scrittura dell’intera parte musicale, con echi di soul music, spruzzi hendrixiani e funky “nebbioso”.

Siamo insomma ancora dentro i confini musicali del Re, poi abbondantemente superati negli anni successivi in molteplici e non sempre concrete direzioni. The Invaders invece, nonostante l’ambizione del progetto e l’altissimo orizzonte di attesa che ne è derivato, ha superato brillantemente la prova acquisendo credibilità anche al di là del suo compito primario di musica per film anche se alcune tracce sono ovviamente quasi del tutto simbiotiche a quelle delle immagini e dunque qui sembrano sdrucciolare un po’ fuori dalla carreggiata. King Khan porta a casa un gran bel risultato, anche se di fatto The Invaders resta testimonianza tardiva di un King Khan che quelle strade sembra averle abbandonate già da un po’, sterzando verso percorsi sempre più difficili da seguire.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro              

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BARRENCE WHITFIELD – Il Papa nero

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Mandato a quel paese Jeff Conolly prima di potergli augurare un buon 1983, Peter Greenberg, Phil Lenker e Howie Ferguson mollano i Lyres per tirare su una band con cui mettere mano a vecchi reperti che Peter custodisce nella sua collezione privata (Frankie Lee Sims, Charlie Rich, Fats Domino, Don Covay, Andre Williams, Esquerita, Ike Turner, Little Richard, Smiley Lewis i suoi amori di sempre) e suonare qualche originale in stile.

Roba tirata fuori dal buco del culo di New Orleans.

Non hanno ancora un cantante e il ruolo di “voce solista” è affidata al sax di Steve LaGrega. Peter Greenberg si diverte ma non è soddisfatto: sono dei selvaggi con un barrito d’elefante. E lui invece vuole il ruggito di un leone.

Gira per la città, fiuta l’aria, chiede.

Finchè chiede alla persona giusta: si chiama Des McDonnell.

Vuole uno che canti come i vecchi shouter neri di trent’anni prima.

Des gli dice che lo conosce uno così: lavora da Nuggets, uno dei negozi di dischi più ricercati della città. È un afro-americano tarchiato che si chiama come un eroe della disco-music, mette su vecchi dischi di Northern Soul, doo-wop e R ‘n B e ci urla sopra, facendo scappare i clienti.

Barry White, il nigga di cui sopra, non lo sa ancora, ma è già diventato il cantante dei Savages. Peter lo mette alla prova con uno dei suoi pezzi preferiti: Walkin’ with Frankie di Lee Sims. Barry sembra un facchino del porto di Boston morso da un qualche cazzo di aracnide tropicale. È lui l’uomo che stanno cercando.

Barry si ribattezza Barrence Whitfield in onore di Norman Whitfield e diventa l’urlatore più famoso di Boston, lasciando a bocca aperta tutti, musicisti compresi.

Quando i Del Fuegos decideranno di dare una mano di “nero” alla loro musica con Stand Up è all’energia di Barrence Whitfield che pensano, anche se non lo dicono.

L’album omonimo viene registrato a Boston nell’estate di quello stesso anno, con l’aiuto di Bill Mooney-McCoy all’Hammond e viene pubblicato l’anno successivo per la piccola Mamou Records.

Lo comprano in pochi.

Qualcuno se lo registra in cassetta, giusto per fare quattro salti quando ne ha le palle piene di fare l’air guitar sui pezzi di Bon Jovi o dei Van Halen o di guardare i video degli Eurythmics e dei Real Life su Videomusic.

Il 1984 è anni luce lontano dal rock ‘n’ roll.

I Savages degli inutili nostalgici che non sanno dove sta andando il mondo.

Quei dieci che se l’erano comprato l’aspettavano però da venticinque anni questa ristampa in digitale che arriva adesso con l’aggiunta di qualche demo e altrettanti pezzi dal vivo a salutare la recente reunion della band.

Bentornati a casa, Selvaggi.

Oh Boston…you‘re my home.

 

Impregnata di soul e rock ‘n’ roll della peggior fattura, la musica dei Savages approda alla Rounder nella metà degli anni Ottanta per devastare il suo catalogo di musica roots con Dig Yourself, numero di catalogo 9007. La band ha alle spalle un disco di debutto rovente come un dardo che però, a causa di una produzione casalinga e di una distribuzione carbonara, non ha varcato i patri confini. Stavolta, grazie all’apporto della Rounder, va molto meglio, tanto che la loro musica finisce per varcare non solo i confini del Massachusetts ma quelli dell’intero continente, portando per la prima volta i Savages in Europa, a pisciare tra uno spostamento e l’altro sotto l’ombra dei platani.

In Inghilterra, dove l’eco del revival rockabilly non si è ancora spenta, il fuoco rock ‘n’ roll dei Savages viene accolto meglio che in patria. Il disco è snello (25 minuti in totale) ed energico. È nero fin dentro le viscere ed allinea oscurissime cover che nessuno riesce a distinguere dai quattro originali scritti da gruppo. Piano honky-tonk, sassofono sguaiato, una voce in falsetto come quella di Little Richard e chitarre che brucano tra i pascoli di Memphis e quelli di Tacoma: roba buona per tirarci su una festa stile Animal House.

Il rientro a Boston disperde però la band, e per il secondo lavoro su Rounder Whitfield si vede costretto a ricorrere a personale del tutto nuovo. Il risultato delle registrazioni con la nuova line-up è un mini-LP intitolato Call of the Wild, poi allungato di qualche traccia e ripubblicato con il titolo di Ow! Ow! Ow!.

Il suono si è parecchio ma parecchio ammansito, tanto che quando passa Livin’ Proof sembra quasi di intravedere le sagome di Huey Lewis and the News e tutto il disco sembra avvicinarsi più al revival dei Blues Brothers che all’urticante soul dei due dischi precedenti. Che però è una formula vincente, in America, tanto da portare i Savages ad un successo mai raggiunto prima quando, l’anno successivo, la loro Stop Twistin’ My Arm viene scelta accanto alle canzoni di Eurythmics e Graham Parker per accompagnare le scene di True Love.

Ma per essere felici bisogna farsi bastare quel che ci è stato concesso. Almeno per lo spazio di un disco.

 

Negli anni Novanta la francese New Rose si accaparra molto del migliore rock ‘n’ roll mondiale, soprattutto “d’autore”: dai Gories ai Panther Burns di Tav Falco, da Paul Roland a Calvin Russell, da Elliott Murphy ai Gun Club, da Johnny Thunders ad Alex Chilton, da Robert Gordon agli Unknowns, dai Saints ai Dim Stars, da Arthur Lee ai Purple Helmets. Nel catalogo della label di Patrick Mathé e Louis Thévenon finiscono pure Barrence Whitfield e i Savages.

Sotto l’egida della New Rose (per la quale uscirà anche la bellissima raccolta di demo e session inedite Savage Tracks con una Ramblin’ Rose da spazzolarvi i capelli, NdLYS) esce Let’s Lose It, disco esplosivo del quale neppure una produzione discutibile riesce a soffocarne i fumi, come si può appurare infilando il naso tra le nubi tossiche dell’incendio che divampa nei tre minuti scarsi della title-track oppure nel curioso jive di Dust on My Needle in cui Barrence si prende gioco dei suoi ascoltatori obbligandoli ad alzare il culo dalla sedia per verificare che la testina non si sia inceppata o ancora nella scolastica (ma poi mica tanto) My Mumblin’ Baby o anche nelle più educate (ma anche queste mica tanto) Under My Nose, I Smell a Rat, Callin’ All Beasts. L’R&B conquista la Francia, piazzando dei petardi sotto il Louvre.

 

Durante una pausa dai Savages Barrence Whitfield stringe una temporanea ma fruttuosa alleanza artistica con Tom Russell prestando la sua voce per un progetto in linea con il rinnovato interesse per la tipica musica americana dei primi anni Novanta. Ecco allora subito allestita una scaletta che, insieme a quattro originali “in stile” (tra cui la bella Jack Johnson), propone un repertorio rubato a Bob Dylan, Lucinda Williams, Lightnin’ Hopkins, Jimmie Driftwood, Louis Jordan. Hillbilly Voodoo è la prima parte di un progetto replicato nel giro di pochi mesi che divaga tra folk, country & western, hillbilly, blues e in realtà privo di una identità decisa.

Un disco che girovaga per l’America, come tanti dischi prima e dopo di lui.

Mentre noi guardiamo dal finestrino un po’ annoiati.

 

A stretto giro da Hillbilly Voodoo ecco uscire per la medesima etichetta il secondo atto del matrimonio interraziale fra Barrence Whitfield e Tom Russell, il folksinger californiano di cui si ignora l’anno di nascita.

Il ricettario di Cowboy Mambo è il medesimo, anche se stavolta si registra uno sguardo un po’ più ampio che cattura anche certe musiche di confine come mambo e zydeco, in particolare nelle tracce scritte da Tom Russell e Peter Case che si aggiungono ad un repertorio che include cover di Richard Thompson, Gram Parsons, Steve Earle, Jimmie Rodgers, Pops Staples, Ukulele Ike, The Band.

Ad eccezione del geniale arrangiamento di Insufficient Sweetie che suona come fosse solcato da un chiodo arrugginito e dal sound alla Los Lobos di A Little Wind, tutto un po’ troppo levigato per i miei gusti.

Aspetterò si rovini il vinile.

 

Chiusa la parentesi con Russell Barrence Whitfield costringe la nuova line-up dei Savages (Milton Reder, Dean Cassell, David Sholl, Ducky Carlisle, Karen Durkott) a realizzare Ritual of the Savages a metà degli anni Novanta, un discaccio pubblicato dall’inglese Demon Music e disseminato di petardi soul in parte scritti assieme a Ben Vaughn come Shoot Me Through the Heart, Jump Jive and Harmonize, Wiggy Waggy Woo, Stupidity, Caveman, House of Love cui difetta solo una produzione pensata per le radio più che per le bettole. Ma magari ce ne fosse di roba così che salta fuori quotidianamente dalle casse della nostra autoradio, tutta scivolosa di bave e di liquami che con l’”anima” hanno ben poco a che vedere ma hanno invece molto a che vedere col corpo. E con la sua dannazione. E col suo piacere.

Il rituale dei selvaggi.

 

Messi in standby i Savages, Barrence Whitfield cerca di capitalizzare quanto registrato con l’amico Tom Russell concentrandosi su una attività live che gli rende più di qualsiasi disco con la band. Assieme al chitarrista dei Radio Kings Michael Dinallo mette dunque in piedi gli Hillbilly Voodoo, con un set di canzoni di stampo country con cui gira per l’America prima e per l’Europa dopo.

Per anni.

Durante una data in Norvegia si imbattono in Vidar Busk, piccolo eroe rockabilly locale che pian pianino riaccende in loro la passione per il suono vigoroso di una rock ‘n’ roll band. Nascono così i Mercy Brothers che hanno il compito di dare nervo alle canzoni scritte da Dinallo, scritte pensando a vecchi eroi come Doc Watson, Buddy Guy, Woody Guthrie, Mississippi John Hurt, Leadbelly e alle quali Busk dona un tocco alla Eddie Cochran/Duane Eddy (Mr. Johnson, Stay Away from My Door) che quadra il cerchio.

Strange Adventure contiene tanta America che sembra vederla gocciolare sul pavimento. Barrence Whitfield si toglie il suo fez e la raccoglie come in un catino. E asperge i presenti.

 

Intestato autonomamente e realizzato con l’apporto di Steve Aquino dei Lyres, Scott Cormier, Brian Woraby, Howie Ferguson e lo storico compagno Milton Reder, Raw, Raw, Rough! riporta in pista lo screamer bostoniano dopo quindici anni di silenzio.

Fez maculato calato in testa, occhiali neri sul naso e una commovente dedica alla madre passata a miglior vita tre anni prima il disco del rientro in scena non poteva essere migliore. Come un leone che è stato troppo tempo in gabbia, Barrence torna a ruggire come ai vecchi tempi su canzonacce sporche come Kissing Tree, Long Green, Strychnine, Scratchin’, Baby, Geronimo Stomp, I Want Love and Affection Not the House of Detection, Wear Your Red Dress miscelando James Brown ed Esquerita con i Sonics, urlando sotto il trono di Dio, affinché scenda a visitare i bassifondi.

 

Per conquistare la Spagna Barrence Whitfield si fa dare una mano dal generale Petti e dai partigiani Bloodyhotsak che lo affiancano per un disco collettivo (Barrence Whitfield eta Petti & The Bloodyhotsak) che non riscuote grossa visibilità ne’ grande successo oltre i patri confini. Eppure, si tratta di un disco di roots music che soprattutto nella parte centrale, quando il suono si stempera verso un melanconico blues-rock alla Ry Cooder/John Hiatt, riesce davvero a solcarci la carne. Canzoni come The Lonesome Cowboy, Solasaldia o le cover di Veterans Day di Tom Russell e No Reason dei bostoniani Treat Her Right colorano il tramonto iberico di grandi ombre rosse come quelle dei film western.

Anche fuori dai suoi confini abituali, artistici e geografici, Barrence continua a sorprendere.

 

È la spagnola Munster Records a tenere a battesimo il ritorno ufficiale di Barrence Whitfield con i Savages. Ed è un ritorno di quelli che ci riappacificano col rock ‘n’ roll più viscerale. Quello di Little Richard, Screaming Jay Hawkins, Esquerita e dei Sonics. Accanto al gigante nero ci sono i vecchi amici dei Lyres Phil Lenker e Peter Greenberg mentre è Tom Quartulli a prendere il posto del sex-ofono che fu di David Sholl e Steve LaGrega. Se qualcuno avesse qualche, peraltro motivato, dubbio sul fatto che si possa suonare e cantare del rock ‘n’ roll varcata la soglia della terza età, Savage Kings è il disco che può fugarli.

Quello dei Savages è il ritorno in scena che riesce a fare lo scalpo ai Sonics, tornati in scena col debolissimo 8. Il materiale si concentra soprattutto sulle cover, il più delle volte oscurissime pepite rock ‘n’ roll e soul come Just Moved In, Who’s Gonna Rock My Baby o Bad Girl ma anche due versioni al cardiopalma di Ramblin’ Rose e Shot Down ma ci regala anche una perla come Willie Meehan che è davvero il precipitato tossico di tutto il northwest-punk più trucido e volgare.

Pochissimi, davvero pochissimi, riescono a fare un disco così anche con quarant’anni in meno sul groppone e tanta più fica intorno.

Barrence Whitfield a 56 anni si riprende il suo trono.

Con onore.

 

Barrence Whitfield trova di nuovo dimora stabile.

Dig thy Savage Soul è infatti il primo dei quattro album previsti dal contratto con la nuova etichetta Bloodshot. E quello che l’omone di Jacksonville consegna nelle mani dell’etichetta di Chicago è un cazzo di disco che la Bloodshot non può rifiutare.

Roba che può rimandare nelle tane Detroit Cobras, BellRays e metà delle scuderie Fat Possum e Norton. Stavolta Barrence ha fatto e pensato in grande, arricchendo ulteriormente la sezione fiati, chiamando come seconda voce Beth Harris e affidando ai suoi Savages la scrittura di almeno metà del materiale.

C’è come al solito molto soul (I’m Sad About It è roba in grado di spettinare i capelli laccati di James Brown, NdLYS), molto Little Richard, molto Don Covay e moltissima attitudine garage-punk ma, stavolta, anche una marcata influenza del rock ‘n’ roll della Sun, evidentissima in episodi come Hey Little Girl e, ancor più, Daddy’s Gone to Bed in cui Barrence aggiunge la sua firma a quelle dei soliti Greenberg e Lenker.

Sudicio, sempre più sudicio Mr. Whit(fi)e(ld).

Uno che quando va in bagno ad urinare non alza la tavoletta del WC e probabilmente quando esce non si lava le mani. E che nessuno è in grado di redarguire per questo.

Ventuno agosto 2015.

Rientro a casa dalle vacanze.

Rientro a casa che c’è Barrence Whitfield ad attendermi.

E non è poco, per nulla.

È come se ad aspettarmi ci fossero i Sonics, Wilson Pickett ed Esquerita. E volessero fare festa, dopo un’estate che di feste ne ha viste veramente poche. E dopo aver disertato quelle poche che avevo in calendario.

Un po’ come Barrence, che da sempre diserta le pagine delle riviste patinate, non essendo stato invitato. Si spaventano gliele sporchi, schizzandole di sperma punk come fa con la musica soul. Da trenta anni.

Un po’ quello che facevano i Sonics col rock ‘n’ roll del piccolo Riccardo. Questo almeno dovreste saperlo, se avete messo un disco sul piatto negli ultimi cinquant’anni. Accanto a lui c’è sempre Peter Greenberg, che suonava la lira accanto a Jeff Conolly quando anche lui cantava Skinny Minnie, ma in Massachusetts. L’energia che sprigiona da questo nuovo Under the Savage Sky è identica a quella. Quindi sapete già se può fare al caso vostro o se per voi basta già un disco di Lenny Kravitz o Bruno Mars per essere felici. Se preferite i posti affollati a quelli sudati, insomma. Gli addominali sagomati con l’Arancinotto o la pingue che se ne frega del buon gusto e di MTV.

Ventuno agosto.

Felice di tornare a casa.

Felice che sia venuto ad accogliermi con un abbraccio, Barrence.

Pochi l’avrebbero fatto.

Te lo restituisco, mentre fuori Dio comincia ad orinare.

 

Nei primi mesi del 2018 un petardo bello grosso ci viene recapitato da Boston. Anzi, stavolta da Cincinnati. A lanciarlo è ancora una volta Mr. Barrence Whitfield.

Uno che alla soglia dei settant’anni canta ancora come il Mike Chandler a vent’anni.

Soul Flowers of Titan è un disco di quelli belli luridi.

È soul, è garage, è blues, è rockabilly. Una belva con la testa di Andre Williams e il corpo dei Sonics che ti prende il culo a morsi.

Non vi spiazzi il nuovo vezzo di Barrence di agghindarsi come Sun Ra: il suono dei Savages è un omaggio al sound da latrina soul di etichette come King, DeLuxe e Federal, le stesse dove grondava il sudore nero di gente come Hank Ballard, Otis Williams e James Brown.

È il mondo che si è fermato al 1965 e non vuole saperne di andare avanti, perché non gliene fotte un cazzo di tutto quello che è venuto dopo. Si è bloccato nello stesso magico istante in cui i Sonics incidono Psycho, Wilson Pickett In the Midnight Hour, i Pharaohs Wooly Bully e Otis Redding Mr. Pitiful.

Si è fermato ancora cucciolo, ancora col sorriso sulle labbra e gli ormoni in circolo.

Soul Flowers of Titan ci riporta a quel sorriso e a quel dosaggio ormonale.

Potreste scoprire di averne bisogno, almeno quanto me.

 

Giusto il tempo di poggiare il pork pie e sostituirlo con un copricapo da Faraone ed ecco Mr. Whitfield tornare nelle vesti di Sun Ra, con un incredibile disco di funk dadaista. Pur diverse per provenienza temporale, le tracce di Songs from the Sun Ra Cosmos si integrano come i pezzi di un Tetris a comporre una scaletta fenomenale dove soul music, jazz, exotica, funk esplodono come migliaia di biglie colorate una volta pestate dal piede del gigante Barrence.

Un disco incredibilmente fisico, nonostante vada a pescare in mezzo ad un repertorio fra i più alieni della storia della musica contemporanea. Ecco dunque uno stomp alla New-Orleans come Muck Muck, il profluvio di chitarre distorte di Black Man, il muscoloso e sincopato ritmo di I’m Gonna Unmask the Batman, il P-funk di Everything Is Space e il jazz esotico e liquido di Love in Outer Space riempire quella porzione di spazio che ci è concessa e mostrarci dei Savages in forma smagliante a far dispetto alle rughe.

Trovate un piatto su cui far atterrare questa astronave, terrestri!

Glory arriva nel 2023 a celebrare i quarant’anni di carriera del Papa nero e dei suoi Savages.

Il disco vede la comparsata (anzi, la presenza, visto che spesso è proprio il suo sassofono a dare carattere alla maggior parte dei pezzi) di Spencer degli MFC Chicken e la produzione di Mike Mariconda, il cui contributo in termini di sagacia sonora è evidente in pezzi “sanguigni” come I’m Ready I’m Ready!, Cape May Diamond, Killing Time e Rumble Strip, tutti ottimi numeri da avanspettacolo frat-rock che mettono nuova legna ad un fuoco che arde ormai da decenni, e che riesce a raggrumare i suoni anche quando le strutture sonore non deviano più di tanto da un canonico R&B (I Do My Best to Survive, Play Pen o I’m Young, per esempio) che sembrerebbe procedere verso un solido e rassicurante ponte sonoro che collega gli Animals ai Blues Brothers. Quello che rischia di essere un “ordinario” album di musica soul/R ‘n B diventa così un altro vessillo in grado di tenere alta la credibilità di Mr. Whitfield alla soglia dei suoi settant’anni.

 Franco “Lys” Dimauro

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THE KING KHAN EXPERIENCE – Turkey Ride (Ernest Jenning Record Co.)  

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Un disco che era circolato solo in versione promo qualche anno fa e che documentava alcune vecchie sedute di registrazione effettuate tra Berlino (dove vive tuttora) e Bordeaux durante i soggiorni europei del Re Nero del Canada.

Gli Spaceshits si sono sciolti da pochissimo e King Khan si reinventa totalmente come cerimoniere di un’orgia soul-funk trascinante, folle e colorata. Siamo agli albori di quella che sarà la musica degli Shrines ma l’energia dirompente di quel gruppo è già tutta qui: ascoltate I Got Love, Knock Me Off My Feet o Hey Rudi e ditemi se riuscite a restare fermi. Folate di organo che ti spettinano come un soffio di bora, lampi psichedelici di chitarre wah-wah, pattern di batteria che sembrano scivolati via da un disco di James Brown e un groove funkedelico da branco animale. Il boogaloo di King Khan, quello che produrrà capolavori come Three Hairs and You’re Mine, Mr. Supernatural e Idle No More è già tutto qui.

L’estate pure.    

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

BARRENCE WHITFIELD & THE SAVAGES – Dig Everything! (Ace)

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Praticamente in concomitanza col suo nuovo eccezionale (ripeto, eccezionale) album, arriva dalle presse della Ace Records la ristampa dei primi due dischi di Barrence Whitfield pubblicati per la Rounder, stipati in CD per la prima volta, in modo che voi possiate prendere la sua ostia consacrata non una, ma due volte. Impregnata di soul e rock ‘n’ roll della peggior fattura, la musica dei Savages approda alla Rounder nella metà degli anni Ottanta per devastare il suo catalogo di musica roots con Dig Yourself, numero di catalogo 9007. La band ha alle spalle un disco di debutto rovente come un dardo che però, a causa di una produzione casalinga e di una distribuzione carbonara, non ha varcato i patri confini. Stavolta, grazie all’apporto della Rounder, va molto meglio, tanto che la loro musica finisce per varcare non solo i confini del Massachusetts ma quelli dell’intero continente, portando per la prima volta i Savages in Europa, a pisciare tra uno spostamento e l’altro sotto l’ombra dei platani.

In Inghilterra, dove l’eco del revival rockabilly non si è ancora spenta, il fuoco rock ‘n’ roll dei Savages viene accolto meglio che in patria. Il disco è snello (25 minuti in totale) ed energico. È nero fin dentro le viscere ed allinea oscurissime cover che nessuno riesce a distinguere dai quattro originali scritti da gruppo. Piano honky-tonk, sassofono sguaiato, una voce in falsetto come quella di Little Richard e chitarre che brucano tra i pascoli di Memphis e quelli di Tacoma: roba buona per tirarci su una festa stile Animal House.  

Il rientro a Boston disperde però la band, e per il secondo lavoro su Rounder Whitfield si vede costretto a ricorrere a personale del tutto nuovo. Il risultato delle registrazioni con la nuova line-up è un mini-LP intitolato Call of the Wild. Il suono si è parecchio ma parecchio ammansito, tanto che quando passa Livin’ Proof sembra quasi di intravedere le sagome di Huey Lewis and the News e tutto il disco sembra avvicinarsi più al revival dei Blues Brothers che all’urticante soul dei due dischi precedenti. Che però è una formula vincente, in America, tanto da portare i Savages ad un successo mai raggiunto prima quando, l’anno successivo, la loro Stop Twistin’ My Arm viene scelta accanto alle canzoni di Eurythmics e Graham Parker per accompagnare le scene di True Love.

Ma sono storie che forse la Ace racconterà prossimamente, per adesso fatevi bastare quel che ci è stato concesso. E siate felici, come me. Almeno per lo spazio di un disco.       

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro