BASSHOLES – When My Blue Moon Turns Red Again (In the Red)

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Mamma mia, cosa sono diventati i Bassholes!

Invertendo il processo di scarnificazione del blues avviato ad inizio carriera e procedendo adesso per aggiunta (organo, blues-harp, sassofono e tantissima elettricità), When My Blue Moon Turns Red Again sfiora anzi raggiunge il capolavoro. Determinante, in questo senso, è l’arrivo di Jon Wahl dei Claw Hammer ma anche del nuovo batterista Lamont Dozier che ha sostituito dietro le pelli la ritmica essenziale di Rich Lillash dando una carica dinamitarda al sound della band dell’Ohio (Florida Bus o Letter sono sintomatiche del suo incredibile apporto, NdLYS).

Insomma, una piccola rivoluzione, come se attorno al caratteristico “osso” che era la struttura unica e portante del loro garage-blues scheletrico ed impenitente si fossero formati muscoli e nervi. Una dinamicità sorprendente che stavolta coinvolge direttamente i Joy Division, altra formazione che in diverso contesto rivendicava una sua forma ossuta e minimale, facendo della loro Interzone, una delle tre cover di questo doppio album, un incredibile fuoco d’artificio blues-punk. Ventuno canzoni da cui riparte la storia artistica di Don Howland. Sbrigatevi ad allacciarvi le scarpe, se volete corrergli dietro.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MOTORCYCLE★BOY – Popsicle (Triple X)

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I Motorcycle★Boy furono una delle più sottovalutate band rock and roll che affollarono il lungomare californiano a cavallo fra gli anni ’80 e il nuovo decennio. Rapidamente assimilato alla filiazione di gruppi hair-metal e glam nati dopo il successo dei Guns N’ Roses, il quartetto di Los Angeles era invece animata da un sano spirito r ‘n’ r che trovava in Johnny Thunders il suo vate ma che esibiva pure fortissime influenze psychobilly, garage e punk.

Nessuna ostentazione, nessun irritante falsetto, nessuna posa da rockstar sfatta ma solo una grandissima affabulazione e un sincero amore per tutto ciò che è marcio, dagli Stooges ai Cramps fino al boogaloo rock dei Raunch Hands e dei Savages di Barrence Whitfield.

Sylvain Sylvain si occupa della produzione e lo fa in maniera eccellente, senza mai cedere alla tentazione di fare dei Motorcycle★Boy l’ennesima band di epigoni dei New York Dolls e rendendo giustizia alla bellissima voce di Francois Haroldson, uno dei migliori cantanti sulla piazza e non solo nella città degli angeli.

Non ci sarà dato ascoltare altro di questa band fenomenale cui d’altra parte non interessava farci ascoltare altro se non questo concentrato di rock and roll in cui pochi infilarono la cannuccia, preferendo dissetarsi con bibite gassate e piene di zuccheri. Chissà dove piace infilarla a voi.   

 

                                                                           Franco “Lys” Dimauro

EROTIK TWIST – The Street, the Night, the Rebel (autoproduzione)

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Il rock and roll passa attraverso gli strumenti degli Erotik Twist come dentro ad un budello contratto uscendone asfissiato dai suoi stessi gas. Un suono estremamente riverberato e urbanamente tribale tanto da riscoprire un pezzo-chiave del genere come Ratamahatta dei Sepultura, ovviamente piegandolo totalmente al loro stile che è un garage rock scomposto, smontato e rimontato su una fitta trama di rumore che pur esibendo qualche caratteristica tipica del genere (vedi l’uso distintivo dell’organo, molto simile a quello de Le Muffe) in realtà cerca in tutti i modi di sfuggire ad ogni regola ferrea, in modo da non venirne imprigionati. Uno stile dunque evocato, più che ricalcato, affogato in una sorta di soffocante clima noir in cui anche le varie reminiscenze surf sembrano affiorare da un mare color piombo invece che dal solito oceano blu profondo. L’exotica virata color canna di fucile.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DEVILS – Let the World Burn Down (Go Down)

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L’anno nuovo inizia sotto una buona stella: dieci nuovi brani da quegli zozzi dei napoletani Devils, ormai definitivamente “restituitici” dalla svizzera Voodoo Rhythm che li aveva tenuti a battesimo, manco fossero stati vittime una spoliazione napoleonica. Il suono del duo ha nel frattempo preso consistenza e mutato parte del suo budello squamoso spostandosi dal trash ‘n roll degli esordi verso un heavy-blues ultracompresso che paga il suo giusto tributo a band come Black Keys e QotSA e che nella sua foga pressa ed inghiotte qui pure la Big City Lights di Cleo Randle sotto un torchio di watt.  

Nessun segno di cedimento lungo la massicciata che recinta questo nuovo bacino inquinato.

E Dio non voglia si creasse una feritoia. Una crepa qualsiasi basterebbe a venire travolti come da un getto prorompente di acqua e zolfo.  

L’aria viziata permane anche nei pezzi che, fra la calca, cercano di aprirsi un varco verso un suono più marcatamente vintage come il rockabilly di Teddy Girl Boogie e la ballata soul di Til Life Do Us Part.

Nella terra dei fuochi, i Devils riaccendono le loro macchine, indicandoci la bocca dell’Inferno.      

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WEIRD OMEN – Weird Omen (Beast/La Cèpe/Get Hip)

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Dal vivo come in studio, che tanto per i Weird Omen è sempre la stessa cosa: un nodo scorsoio di garage-punk che è tutto quello che gli Hives provano a fare da anni, riuscendoci solo in qualche sparuta occasione.

Per il terzetto francese che vede “flirtare” membri di band come Anomalys, Ray and The Dead Drums, Escobar e gli Shrines di King Khan sembra invece la cosa più naturale del mondo tanto che le undici tracce registrate dentro il Centro Culturale John Lennon di Limoges sembrano un unico sputo di sangue. Pezzi come Problem in Ur Brain, Leave Me Alone, When I Get Bored, 1250, No Brainer, Heartache sono fra la roba migliore scritta dal gruppo, lontana da ogni fronzolo e da ogni digressione lessicale che non sia quella del più bavoso rock and roll.

Registrato nel 2020 e poi a lungo rinviato il quarto disco dei Weird Omen vede ora la luce grazie allo sforzo condiviso di tre fra le migliori etichette in circolazione per essere venduto durante la serie di concerti programmati dal gruppo per il 2023 e poi messo in vendita come residuale per chi a quei concerti non c’è potuto andare, finendo per perdersi una delle migliori garage-band che ancora sedimentano sulla crosta di questa palla di merda che gira assieme alle altre palle dell’universo. Grazie al Dio che le sorregge.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE MOJOMATICS – Songs for Faraway Lovers (Alien Snatch!)  

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Sembrano in quattro e invece sono la metà.

I Mojomatics affinano la ricetta del disco di debutto realizzando uno spettacolare secondo album che mette in mostra una perizia e un dinamismo invidiabili.

Sono canzoni per amanti lontane. Ma sembrano canzoni per criminali e hobo-men.

Hanno un passo svelto, come di chi ha fretta di andare. Ma anche gioioso, come di chi ha tutto il mondo dentro una valigia. C’è voglia di allargare i già ampi confini del disco precedente, di creare qualcosa di trascinante. E canzoni come Why Don’t You Leave Me, No Place to Go, A Fall on the Floor o That Night in 1939 centrano l’obiettivo più di altre, col loro tono baldanzoso, strafottente e corsaro che scavalca i generi di cui la musica del duo veneto si nutre. Che è americana al 100% e va dal blues dei nonni al Dylan dei papà ai Fleshtones dei loro figli (Leave This Town è ricalcata su I’m Not a Sissy di Zaremba, NdLYS). E quando passa dalle parti dell’Inghilterra, finisce comunque per guardare agli inglesi che mangiavano hot-dog come gli Stones, i Pretty Things o i Kinks.   

Non c’è un solo momento di stanca, dentro Songs for Faraway Lovers.

Non c’è spazio per gli sbadigli, forse giusto qualche attimo per un brindisi agli amanti lontani e a quelli perduti.

Vieni Cupido, alza il calice con noi!

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

THE WHITE STRIPES – Elephant (XL Recordings)  

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Sono sempre più convinto che i riff che ossessionano la nostra memoria appartengano tutti al secolo passato. Inutile elencarli tutti o citarne qualcuno. Sapete bene di cosa sto parlando. 

A livello strutturale il rock è un’opera praticamente già compiuta. Nei prossimi anni assisteremo alla sua demolizione, alla destrutturazione dei riff, alla polverizzazione molecolare delle sue strutture portanti.

Ecco perché in futuro Elephant verrà ricordato come una delle ultime roccaforti di un rock ‘n’ roll capace di resistere all’ossido del tempo asserragliandosi in piccole torri costruite attorno al muro di cinta del castello del rock così come lo abbiamo sempre pensato. Il disco con l’ultimo prototipo di riff memorabile, quello che può radunare sotto le sue ali protettive milioni di anime, come fosse un immenso ombrello che ci mette al riparo dalle intemperie. È naturalmente il “giro” di Seven Nation Army. Che sta a quello di Smells Like Teen Spirit come quello stava a quello di Whole Lotta Love e via così. Ecco, Seven Nation Army ne rappresenta in qualche modo il modello ultimo, Elephant la doppia elica del DNA del rock ‘n’ roll che supera non senza fatica lo steccato del millennio per prolungarne la vita anche dopo che ne è stata decretata la morte e ne sono state portate le prove (Kid A, Yankee Hotel Foxtrot, Vespertine), i White Stripes l’ultima band di inarrivabili idoli del rock ‘n’ roll prima che i social costringessero tutti, anche loro, a disinnescare il loro ruolo di star per farsi carne. Interagire o compromettersi con il pubblico, mettersi in vetrina, scendere dall’Empireo per diventare come l’angolo della posta di Nonna Papera. Sciogliersi per poi poter fare una inutile reunion per garantirsi un piano pensionistico adeguato al tenore di vita dei bei tempi andati.

Elephant è destinato ad essere uno degli ultimi reperti archeologici di un’epoca che è già scomparsa. E noi siamo tra i pochi fortunati ad aver incrociato la nostra vita astrale con la sua.      

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

CHEATER SLICKS – Ill-fated Cusses (In the Red)

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L’ultimo album per la In the Red era stato Refried Dreams, nel lontano 1999. Poi il terzetto dell’Ohio aveva cambiato residenza e domicilio più volte, fino a perdere di vista anche i coinquilini. Ill-fated Curses è dunque un doppio ritorno, parzialmente annunciato con la partecipazione al disco di Bill Gage di un paio di anni fa.

Se qualcuno pensasse che durante il lungo iato seguito a Reality Is a Grape Tom, Dave e Dana avessero trovato tempo e modo di aggiustare il tavolino scassato su cui amano adagiare il corpo del loro garage-rock, tanto vale dire che resterà probabilmente deluso nell’apprendere che nessuno di loro ha mai solo sfiorato l’idea di dare una sistemata a quel desco divorato dalle tarme. La scaletta del nuovo disco alterna le due anime del gruppo: quella fatta di sparuti accordi svestiti (The Nude Intruder, Garden of Memories, la cover di Cold Dark Night, Far Away) e quella cui piace invece vestirsi di rumore come se si fosse a un raduno di cosplayer dei Butthole Surfers (Fear, Flummoxed by the SNAFU, Lichen). L’intercapedine fra queste due anime è quella del garage punk straccione di pezzi come Reaching Through e soprattutto di The #4, micidiale danza pellerossa che mostra le sue belle tette da amazzone in mezzo alla boscaglia dei Cheater Slicks. E noi ci si ferma a guardare, aspettando che la sua freccia avvelenata ci entri diritto nel cuore.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

WOLFMANHATTAN PROJECT – Summer Forever and Ever (In the Red)

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Canicola e umidità.

Odore di sangue marcio in strada.

E i lupi di Manhattan scendono di nuovo in città.

Summer Forever and Ever è swamp blues sfuggente e urbano, alienato come un contadino della provincia catapultato nell’inferno metropolitano.

I Wolfmanhattan Project hanno introiettato decine di influenze diverse che vanno dal garage rock ai Sonic Youth (con Countdown Love che praticamente è una sincrasi di entrambi), dal jungle-beat del Dio Diddley fino allo svitato art-rock di Dave-id Busaras e le riflettono su uno specchio convesso che ne distorce il raggio, assorbe un ampio spettro di frequenze e ne rimanda quelle che più gli aggradano. E che a volte sono quelle che aggradano pure a me. Ma molte altre volte sembra piacciano solo a loro. 

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

SCREAMING TREES – Oggi soffia un vento crudele

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Nel 1985, l’anno delle registrazioni di Clairvoyance, gli Screaming Trees sono una sorta di “affare di famiglia”. I fratelli Gary Lee e Van Conner sono due ragazzi (ventitreenne il primo, appena diciottenne il secondo) che suonano già da un po’ sotto il nome di Explosive Generation assieme all’amico Mark Pickerel e all’appena reclutato Mark Lanegan.

Non sanno ancora cosa diventeranno.

E a dirla tutta, non sanno ancora dove dirigere il timone.

Così, nuotano un po’ a braccio, solcando il mare con un’eco sottile, latente e trasversale di quella sorta di psichedelia metallica e acerba di band come Wipers, Miracle Workers o Plan 9 che la formazione rielaborerà con efficacia su Dust, con la voce di Mark ancora flebile ed incerta e le chitarre di Lee Conner ancora prive degli slanci visionari che prenderanno quota nei dischi seguenti. Nessun presagio di futuri capolavori come Grey Diamond Desert Nearly Lost You pure se brani come Standing on the Edge, I See Stars Orange Airplane (con il fratellino più piccolo della nidiata Conner impegnato ai cori) mostrano, pur dietro un vetro opacizzato, la via che la band di Seattle percorrerà fino al ’96 con mezzi e capacità sempre più potenti e che qui è invece ancora approcciata in maniera borderline ed artigianale.

 

Una sorta di prato di spilli.

Così era la musica degli Screaming Trees di Even If and Especially When, l’anello di congiunzione fra un garage rock tutto sdrucito e tagliato storto della metà degli anni Ottanta con quello che sarebbe fioccato da lì a poco come grunge, prodotto quasi per osmosi da quello che è a tutti gli effetti un acido lievitare oltre soglia della psichedelia (Other Days and Different Planets, In the Forest, Girl Behind the Mask, Flying, World Painted, The Pathway, You Know Where It’s At), quasi fosse un disco della Moxie lasciato troppe ore al sole, fino a deformarsi. Su Don’t Look Down il suono sembra precipitare, come trascinato giù da un campo magnetico che è lo stesso a rendere il riff di Cold Rain una sorta di orologio molle alla Dalì, con le chitarre leggermente fuori fase a rendere obliqua la distorsione chitarristica fino a determinare una sorta di ubriacatura acustica. Il disco però piace solo a quelli della SST che spingono la band ad affrontare qualche data (tre concerti in tutto) per promuovere questa miscela che fatica ad incendiare il pubblico, che si accorgerà degli Screaming Trees solo quando i riflettori si accenderanno su Seattle e non certo per merito loro. Nel 1987 la band del Northwest è ancora una formazione di outsiders, indigesta ai puristi del suono garage nonostante questo pugno di canzoni ne rappresenti una buona degenerazione e leggermente in anticipo sui tempi rispetto a quella che sarà la forma definitiva del suono del Nord-Ovest dei cinque/sei anni successivi.

Ecco, “forse, se” fosse arrivato dopo, “specialmente quando” le pattumiere grunge sarebbero state aperte per invadere il mondo del tanfo di spazzatura di Seattle, Mark Lanegan e soci avrebbero raccolto prima quello che già pendeva copioso dai loro rami urlanti.     

 

Prima che la Epic costringesse Mark Lanegan a lavorare sui toni melodrammatici della sua voce per farne il Jim Morrison del rock del northwest, gli Screaming Trees consegnano alle stampe quella meraviglia che è Invisible Lantern, rampicante velenoso che cinge i muri di Seattle disperdendo i pollini della psichedelia più acida dentro un fiume di watt che scorre lungo brani recalcitranti come la progressione stoogesiana di Ivy, gli Experience amatoriali, imprecisi, dozzinali di The Second I Awake, gli Elevators soffocati con un fardello di plastica di Shadow Song, l’acid-rock texano che cola da Direction of the Sun, l’hard-rock stopposo di Lines & Circles, Invisible Lantern, Even If, She Knows tutti aggrediti dalla tipica distorsione “dilaniante” del pedale per chitarra da cui la band ha preso il nome (anche se pare che si tratti solo di omonimia e che non ci sia stata una relazione voluta all’effettistica da studio nella scelta battesimale, NdLYS) e, appena ammansiti, sotto quel sudario di Grey Diamond Desert che anticipa già i Miracle Workers di Primary Domain. Il rock degli Screaming Trees è di quello che ama scarabocchiare ai margini dei generi, spesso bruciando i bordi come a volerne ulteriormente confondere le tracce. Come spiriti malvagi in grado di comandare sulle nuvole, soffiano sulla città quella che diventerà in pochi mesi la tempesta perfetta.  

Come per il TIR guidato dai fratelli Gary Lee e Van Connor, se sfogliate un qualsiasi catalogo illustrato della musica rock sulla carrozzeria degli Screaming Trees troverete appiccati un sacco di adesivi: psichedelia, grunge, hard-rock, punk.  

Poi magari, aperti i portelloni, dentro ci trovate solo una gran confusione.

Perché il TIR degli Screaming Trees viaggiava lungo il confine. Raccoglieva e caricava ad ogni fermata quello che voleva. E continuava la sua marcia, mostrando il dito medio ai posti di blocco.

Per Buzz Factory si erano fermati nelle officine Reciprocal, per una messa a punto del motore. Si erano affidati alle mani di Jack Endino, il meccanico che aveva sistemato il superfuzz scassato dei Mudhoney e i coglioni di Dio che gli avevano portato i Tad. Quando ripartono, il motore ruggisce. Mastro Endino ha lasciato intatte le incrostature della carrozzeria ma ha messo tra i pistoni un fluido miracoloso. Il suono crespo e grezzo delle chitarre che si agitano inquiete su Flower Web, Subtle Poison, Where the Twain Shall Meet, Revelation Revolution, Windows, Too Far Away, Wish Bringer, Black Sun Morning, Too Far Away sembra un rigurgito acido del punk dei Wipers e del desert-rock dei Thin White Rope. A volte, come abbagliate dal lampeggiare del crybaby, sembrano andare leggermente fuori tono, ovalizzarsi attorno alle note del basso e alla splendida voce di Mark Lanegan. Poi rientrano in carreggiata.

Fino alla prossima fermata.

Fino al prossimo carico.          

 

Il passaggio alla Epic e il nuovo assetto della band con Chris Cornell alla produzione e ai cori viene testato in sordina nel 1990 con l’EP Something About Today ed esplode nel 1991 con Uncle Anesthesia, l’album con cui il sound degli Screaming Trees assume la forma che li porterà al successo, con le chitarre pastose e piene di grinze e la voce di Mark Lanegan sciamanica come quella di un Jim Morrison dai capelli lunghi il doppio e sporchi il triplo. Il suono borderline del gruppo ha trovato una sua dimensione (oltre che una collocazione sonora arbitrariamente decisa dai giornali e dalla casa discografica, pur senza appartenerle in toto), una sua precisa identità, un canovaccio espressivo che è adesso aderente al gusto del pubblico ma è anche coerente con le affinate capacità di scrittura del gruppo, ormai lanciato verso un suono altamente manovrabile in ogni contesto, dalla ballata torva all’acid-rock epico, dal grungey-folk polveroso al desert-rock.

Il sound di Uncle Anesthesia sa di gomma pesante, come certi copertoni per bulldozer con il battistrada che schiaccia la polvere e la compatta, lasciandole sopra dei solchi spezzettati e regolari, tracciando il solco che dal deserto porta fin dentro le città. Bruciando i copertoni all’ingresso delle periferie, perché il fumo nero le avvolga in un abbraccio disperato.

 

L’occasione mancata della Sub Pop.

Che pure qualcosa, una piccola cosa in formato sette pollici, aveva stampato tre anni prima con gli alberi urlanti in copertina.

Alla fine, persa la battaglia con la Epic, Bruce Pavitt si limiterà ad accogliere il Mark Lanegan solista che ai tempi non convince ancora gli A&R delle major. Ma questa è un’altra storia (che però, all’epoca dell’uscita di Sweet Oblivion, ha già preso il via). Quella degli Screaming Trees è iniziata un po’ di anni prima proprio dalle parti di Seattle, quando l’attenzione della stampa e del pubblico è rivolta verso la California, Minneapolis e Athens.

Del loro rock psichedelico ed obliquo durante gli anni Ottanta non interessa quasi a nessuno. Finchè il vortice del grunge non risucchia dentro anche loro forse più per questioni geografiche che di stile. La scelta della Epic di inserire Nearly Lost You dentro la colonna sonora del filmettino Singles si rivela però un trionfo. Quando Sweet Oblivion arriva sui tavoli dei giornalisti, nel maggio del 1992, l’album non ha ancora un titolo ne’ una scaletta definitiva (verrà poi spurgata di tre brani) ma rivela da subito un carattere vincente.

Il suono è denso, vischioso, uterino. La voce di Lanegan pastosa e calda è permeata di quell’indole confidenziale che verrà poi esaltata nella sua discografia solista.

E le canzoni, tutte, sembrano davvero possedere quella dose di incanto e suggestione che era mancata al vecchio canzoniere del gruppo.

La diga sonora costruita dei fratelli Conner (che hanno elaborato, riadattandola, la formula di Crazy Horse, Creedence Clearwater Revival, MC5, Lynyrd Skynyrd) sembra contenere a fatica una creatività straripante e donare quel senso di meraviglia inquieta che trasuda da canzoni come ButterflySecret KindShadow of the SunTroubled TimesFor Celebration PastNearly Lost You, cariche di un pathos solenne e minaccioso. Salici piangenti mossi dal vento dell’Hurricane Ridge.

 

Dopo il meritato successo di Sweet Oblivion gli Screaming Trees sono costretti ad assistere impassibili ed inermi alla fine del grunge.

Le dipendenze di Mark Lanegan hanno costretto la band ad una immobilità paralizzante, tanto che quando alla fine, dopo aver cambiato produttore, decide di andare in studio a registrare quello che sarà il su canto del cigno (nero), Gary Lee Conner ha da scegliere da una cornucopia di oltre duecento canzoni.

E resta il dubbio che abbia scelto le migliori.

O, per essere più precisi, è costretto a scegliere quelle che meglio si adattano alle stanche corde vocali del cantante, quelle che lo possono fare sentire più a suo agio, che possono ridurre il suo stress.

Nel 1996, e la band lo capisce subito, il fuoco degli Screaming Trees si sta spegnendo e non può più essere riacceso, neppure chiamando in soccorso vecchi amici come Chris Goss, Mike McCready e Josh Homme, arrivati più a celebrare un funerale che a partecipare ad una festa. Il risultato è un album meno spontaneo, con un lavoro di pre-produzione e di “calibratura” che da un lato arricchisce le tessiture musicali, dall’altro non riesce a creare quella dinamica esplosiva che tutti si aspetterebbero, finendo per complicare progressivamente il suono fino a quell’orgia di psichedelia moderna che è Dime Western e a quella mini-suite irrisolta che è Gospel Plow ricca di colori orientali alla George Harrison che chiudono il cerchio aperto dal raga-rock di Halo of Ashes e, a ben vedere, l’intero moto di rivoluzione iniziato dieci anni prima con Clairvoyance.

L’appannamento di Lanegan non ha tutto sommato esiti nefasti su Dust, anche se il risultato finale sembra essere una versione di Mistery Lane, il disco registrato dai fratelli Conner, ma con un cantante vero. Fuori dal ciclone grunge che essi stessi avevano inconsapevolmente provocato e in cui rischiavano di essere intrappolati, gli Screaming Trees trovano una via di fuga psichedelica per tornare in posizione fetale. Desiderosi di riposo.

Polvere alla polvere.

Cenere fra la cenere.   

 

Ogni giorno è un buon giorno per gli Screaming Trees.

Anche se sono passati più di dieci anni dall’ultimo giorno e le camicie di flanella sono rose dai tarli dentro le panche delle cose smesse, accanto ai pantaloni in pelle che non ci entrano più e le cinture borchiate che sembrano rubate al Museo dell’Inquisizione di Siviglia.

Last Words sono le “ultime parole” pronunciate dalla band, poi rimaste taciute per un decennio vista l’impossibilità di trovare un’etichetta che, dopo il recesso del contratto da parte della Epic, investisse su una band che era stata insignita del titolo di prime-mover di un movimento che adesso non interessava più a nessuno. Realizzate con l’apporto esterno di Josh Homme e Peter Buck le dieci tracce di Last Words si muovono sullo stesso terreno di Dust, recuperando quella visione psichedelica che era stata una delle loro ispirazioni iniziali e rielaborandola stavolta secondo i dettami stilistici che avevano caratterizzato il Paisley della metà degli anni Ottanta, con un Lanegan meno opaco che sul disco precedente, tanto da innalzare con i suoi artigli Ash Gray Sunday e Anita Grey fin sulle vette ormai inviolabili dei loro pezzi migliori. Salvo poi lasciarli cadere tra la merda delle iene che hanno fatto a pezzi quel che restava di loro.  

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro